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L’analisi estetica di Bat Out Of Hell

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Lo sguardo di Meat Loaf ti ha appena deflorato.

I can see myself tearin’ up the road
Faster than any other boy has ever gone
And my skin is raw but my soul is ripe
And no one’s gonna stop me
Now I’m gonna make my escape

I tre capitoli della saga di BOOH (eh eh eh) sono ormai considerati capisaldi dell’heavy metal e più in generale del rock melodico anche dal mio kebabbaro di fiducia. Personalmente ho conosciuto la mastodontica opera rock di Jim Steinman e Meat Loaf che avevo 14 anni, in Germania, rapito dalla esuberante copertina che prometteva un totale riscatto dal mio stato di brufoloso adolescente, sessualmente distratto dai fumetti e dai videogiochi meno popolari del momento (cover, fra l’altro, firmata dal grandissimo illustratore Richard Corben, allora celebre nelle pagine di Heavy Metal, la filiale americana della leggendaria Métal Hurlant).

All’epoca credevo che il ruòk fosse tutto chitarre fumanti e tette, proprio come insegnavano  i poster di Ted Nugent e Sammy Hagar che coprivano le pareti di camera mia. Da allora sono passati tanti anni, e quel 33 giri che conoscevo nota per nota, di cui avevo riscritto tutte le liriche su un quaderno che ho sacrificato tempo dopo a Satana perché me ne dimenticassi, adesso è sepolto da altri album anch’essi svalutati nel tempo, polveroso e inerme.

Ad oggi tutta quella pomposità e voglia di divertirsi in grande stile musical anni ’70 al vostro blogger contemporaneo provoca degli inspiegabili rush alle palle, con successivo ingrossamento e incontrollabile moto ellittico. Ciò non toglie che l’opera di Steinman possegga un che di leggendario, ed abbia conosciuto uno dei maggiori successi commerciali di tutti i tempi, il che non capita poi così tanto spesso ad album comunque fuori dai canoni più riconoscibili della pop music, ma questo è un marchio di fabbrica di Jim Steinman, capace di ripetersi svariate volte con una quantità smodata di anti-hit super popolari, anche da 9 minuti (di cui tre di riferimenti mahleriani).

Ora, prima di cominciare a ciarlare anche del mio metodo di scelta dei boxer, torniamo sul punto: l’analisi estetica di Bat Out Of Hell, ma non l’album, la canzone. Facciamo un po’ di contestualizzazione…

Faster than any other boy has ever gone

Sarò spietato, ma devo dirlo: dei tre capitoli l’unico che si salva per me è il primo. E non fate subito caciara però! Cercate di capirmi, a me tutta ‘sta roba testoteronica a stelle e strisce mi fa davvero salire il Togliatti nelle vene. Non la demonizzo, sia chiaro, però…

Bat Out of Hell III: The Monster Is Loose” (2006), capitolo conclusivo della trilogia, è effettivamente un tentativo di allontanarsi dagli stilemi anacronistici dei primi due album, ma il risultato è senza nerbo, manca totalmente delle capacità espressive comunque innegabili dei precedenti. Insomma, fa cagare. Bat Out of Hell II: Back into Hell” (1993) è il migliore del lotto per quanto riguarda la qualità compositiva e la ricercatezza estetica, però suona davvero fuori dal suo tempo, vi ricordo che quello è l’anno di “Rid Of Me” (PJ Harvey) e “Good” (Morphine). Più che nostalgia quella di Meat Loaf è necrofilia bella e buona.

Nel pacchetto del primo album le canzoni popolarmente più amate sono la title track, You Took the Words Right Out of My Mouth (Hot Summer Night), Heaven Can Wait e Paradise by the Dashboard Light. Della seconda parliamo dopo, ma diciamo subito che già Heaven Can Wait che Paradise, per quanto riuscite, non raggiungono la splendida forma dinamica e roboante della title track. La prima è una ballad come ce ne sono a palate, nei ’70 poi! Paradise invece è un brillante pastiche tra Slade, Springsteen e favolose reminiscenze musical, costruendo una soap-opera delirante piuttosto buffa, ma si capisce subito che è tutta una scusa per far vedere quanto ce l’avessero lunghissimo.

Hot Summer Night è ricavata, proprio come buona parte dell’album, da un altro progetto del buon Steinman, “Neverland” il musical di Peter Pan. Francamente non lo conosco né visto riprodotto su nessun supporto, ma immagino ci sia un Peter Pan tirato a lucido come Sylvester Stallone nel secondo Rambo, fronteggiare un demoniaco Capitan Uncino interpretato probabilmente da un Rob Halford in tacchi a spillo e chiodo incandescente. In Hot Summer Night le caratteristiche tipiche del rock melodico anni ’70 vengono fuori con una certa grazia, e si sviluppano con la tipica prosopopea steinmaniana. L’intro è semplicemente esilarante, uno scambio di battute con quel tipico romanticismo gotico parodistico che Steinman interpreta in prima persona con una certa incisività. Segnata da una sezione ritmica travolgente e dal carisma ineguagliabile di Meat Loaf, la canzone sfiora livelli di perfezione tamarra veramente irraggiungibili. Però, sebbene ci troviamo davvero vicini alle cime tempestose della title track, ancora non ci siamo per quanto concerne l’incredibile disposizione diegetica dei singoli elementi.

Before the final crack of dawn

Sotto molti aspetti si potrebbe definire BOOH come il vero epigono dei Gun, il trio inglese che nel 1968 esordì con il loro album omonimo, da tantissimi considerato come il primo esempio di heavy metal nella storia del rock. Non è certo un caso se la canzone che apre e traina il disco del ‘68 sia Race With The Devil. La corsa, la fuga, interpretata su più piani, è uno degli aspetti estetici più rappresentativi dell’heavy metal, da una parte la velocità di esecuzione e i ritmi INFERNALI, dall’altra la poetica della velocità come fuga dalla realtà verso mete fantastiche ed epiche.

In una edizione credo relativamente recente di “Sin After Sin” dei Judas Priest, album uscito anch’esso nel 1977 come BOOH, c’è una cover bella tosta di Race With The Devil, dove però si perde la vena più pomposa che è invece ben presente nella musica del trio inglese. È una interpretazione dell’heavy metal che non disdegna il testosterone e una certa auto-ironia (la grande crasi dei Judas Priest fra l’altro), ma che non sfocia comunque nel delirante glamour glitterato di Steinman, il quale declina questa propensione all’opulenza in un senso strettamente romantico decadente. Steinman in un certo senso è stato il musicista che ha meglio interpretato la declinazione operistica del metal, ma sempre in un’ottica di puro intrattenimento, e non come velleità artistica.

Come nel tentativo di dare vita all’opera rock per eccellenza, il nostro eroe riduce al minimo la sua presenza da deus ex machina, lasciando volontariamente in primo piano l’opera in sé,  proponendosi come uno strano e psichedelico direttore d’orchestra. Non è nemmeno l’indiscusso protagonista delle sezioni di piano, avendo premuto per avere accanto un talento puro come quello di Roy Bittan della E Street Band, e in più non cerca di uscire dall’ombra di due personaggi istrionici come Meat Loaf e Todd Rundgren! Una scelta che poi pagherà cara per i crediti, ma quelli sono cazzi suoi.

Per la sezione ritmica non vola basso, anzi, ci piazza sempre dalla band di Springsteen Max Weinberg coadiuvato dal super-tecnico Willie Wilcox alle pelli. A completare Kasim Sulton al basso, eccellente turnista ma sopratutto, come Wilcox, membro della band di Rundgren: gli Utopia (agg. [dal lat. tardo merdus, der. di “merda”]). Attorno a questi nomi di peso c’è comunque il meglio del meglio dell’epoca, almeno per quanto riguarda la tamarraggine più spinta.

La presenza della sezione fiati e di ben cinque pianisti (di cui uno al sintetizzatore, è comunque il 1977) fanno capire quanto l’armonia sia un aspetto molto curato da parte di Steinman, come anche il mantenere tutti gli strumenti in primo piano, saturando così ogni centimetro quadrato tra un orecchio e l’altro senza però confonderci, e questo grazie al lavoro agli arrangiamenti di Kenneth Ascher, un altro peso massimo su un ring particolarmente affollato.

Steinman insomma cura ogni dettaglio perché la sua musica si possa esprimere con tutte le sue sfumature e ampollosità, decide inconsciamente che sarà lui a far germinare il seme che il trio londinese aveva posto nove anni prima, giungendo a quella che, probabilmente, è e sarà per sempre ricordata come la più sfarzosa e gioiosa opera rock consegnata alla storia.

Ritornando sul punto (di nuovo): nel gergo popolare fare qualcosa “like a bat out of hell” significa farlo panicando, senza pensarci troppo sù e con una certa fretta. Nell’album sebbene la musica sia rigidissima nella sua struttura (per quanto eclettica e delle volte rocambolesca nelle soluzioni melodiche) la sensazione che si ha è quella di assistere ad un teen drama a rotta di collo, dove il protagonista si sbatte come un matto per un amore puro e intoccabile, mentre nel frattempo sfugge dagli orrori della adolescenza, fino alla sua ineluttabile morte tra fuochi d’artificio e schitarrate epocali.

Eppure è proprio da questa disgrazia che si apre l’album, che comincia dove la storia finisce…

Like a bat out of Hell

Metti la puntina giù e deflagra un temporale. Il rombo delle chitarre imita quello di un gigantesco motore, seguono i pianisti che con un ritmo assatanato accompagnano i primi metri della corsa, da sinistra l’eco di una chitarra seguito da un altro a destra, finché non manca più il respiro e tutto crolla in uno scontro mortale. Da questa nube elettrica i primi accordi e l’assolo di Rundgren che come un fulmine si staglia luminoso in mezzo ad una furibonda tempesta.

La voce di Meat Loaf si presenta teatrale e ispirata, un pianoforte continua a puntellare una melodia sempre più chiara e complessa:

The sirens are screamin’
And the fires are howlin’
Way down in the valley tonight
There’s a man in the shadows
With a gun in his eye
And a blade shinin’ oh so bright
There’s evil in the air
And there’s thunder in the sky
And a killer’s on the bloodshot streets
Oh and down in the tunnel
Where the deadly are rising
Oh I swear I saw a young boy
Down in the gutter
He was starting to foam in the heat

Le immagini sono semplici, fulgide, incredibilmente esasperate e parodistiche, ma non per questo meno pregne di un romanticismo quasi byroniano, anche se al posto dei cavalieri ci stanno i motociclisti metallari a petto nudo e villoso. Ci viene descritto un mondo dannato, pieno di pericoli mortali, al quale però c’è una speranza:

Oh baby, you’re the only thing
In this whole world
That’s pure and good and right
And wherever you are
And wherever you go
There’s always gonna be some light

Arrivano i cori, per sottolineare la sacralità di questa visione femminile, assolutamente pura e casta come vuole la tradizione (e come permane in tutto l’album). L’ideale di questo amore fa parte del processo di crescita del protagonista, che lo vive con una visceralità dissacrante.

But I gotta get out
I gotta break it out now
Before the final crack of dawn
So we gotta make the most
Of our one night together
When it’s over you know
We’ll both be so alone
Like a bat out of Hell
I’ll be gone when the morning comes
Oh, when the night is over
Like a bat out of Hell
I’ll be gone, gone, gone

Sì, bello l’amore eh, però lasciamoci un po’ di spazio! Comincia dunque la fuga, una corsa contro la morte – sì, il nostro protagonista tende al prosaico se non si fosse ancora inteso. E allora la musica si fa davvero pomposa e teatrale, con guizzi e drappeggi elettrici che ci circondano, ma non per molto, Steinman da giusto un assaggio delle possibilità corali dell’orchestra, che intanto sta dirigendo come un posseduto. C’è ovviamente Wagner, ma il compositore californiano guarda anche a Mahler e alla sua incredibile potenza narrativa.

But when the day is done
And the sun goes down
And the moonlight’s shinin’ through
Then like a sinner
Before the gates of Heaven
I’ll come crawlin’ on back to you

A questo punto sono state poste tutte le basi estetiche del pezzo. La corsa è reale, non solo metaforica, e viene sempre sottolineata dalle sferzate di Rundgren alla chitarra, come dalla corsa del pianoforte. Ogni elemento viene posizionato con un preciso scopo narrativo: i cori nella descrizione angelica della ragazza, il rombo del motore come metafora della lotta interiore del protagonista, fino alla voce di Meat Loaf alla quale viene affidato il compito di trattare la materia lirica come se fosse un testo di prosa. La saturazione sonora non è opprimente, la sezione ritmica, che all’inizio del pezzo sottolineava l’acrobatica apertura, ora non scompare di certo, ma si mette poco dietro Rundgren e Bittan, gli elementi sono tutti soppesati fino all’inverosimile.

La canzone cresce ed espone tutta la sua stratificazione sonora con una vanagloria da far rimpiangere i Queen, finché non accade l’ineluttabile. Siamo nel pieno della corsa, il rombo del motore si trasforma in un assolo spezza-caviglie che accompagna il canto di Meat Loaf:

I can see myself tearin’ up the road
Faster than any other boy has ever gone
Oh and my skin is raw but my soul is ripe
And no one’s gonna stop me
Now I’m gonna make my escape
But I can’t stop thinking of you
And I never see the sudden curve
Till it’s way too late

Arriva dunque il grande “crash” (il senso è doppio anche in questo caso), il nostro eroe non vede quella curva e tutti i suoi sogni d’amore, nonché la sua lotta contro il mondo, deflagrano a terra.

Then I’m dying at the bottom of a pit
In the blazin’ sun
Torn and twisted
At the foot of a burnin’ bike
And I think somebody somewhere
Must be tolling a bell

Ma con un colpo di scena davvero geniale da parte di Steinman, l’ultima immagine che ci viene evocata è questa:

And the last thing I see
Is my heart, still beatin’, still beatin’
Breakin’ out of my body
And flyin’ away
Like a bat out of Hell!

Ripetuta in maniera più drammatica l’ultima strofa a quel punto la musica può finalmente gioire ed esprimersi in cori angelici e assoli rompi-balle che per fortuna durano poco, concludendo una cavalcata a perdifiato in puro stile americano.

La favola epica di Steinman è chiaramente banale, ma la sua costruzione meticolosa e i riferimenti culturali che ne hanno permesso la creazione non lo sono per niente. Questa musica vuole essere una forma suprema di intrattenimento, che si basa sulla perfezione tecnica non come raggiungimento personale, ma come esibizione di perizia e abilità per lasciare senza fiato lo spettatore. L’ideale opera teatrale di Steinman non vuole essere un lungo e tedioso soliloquio morale, ma una folle e rischiosissima montagna russa che riempia lo sguardo di una continua e deliziosa meraviglia. Meat Loaf vestito come un improbabile lord vittoriano se ne frega di tutto, e vive il suo sogno d’amore fatto di fughe impossibili, trappole mortali e trasformazioni bestiali, diventa così per un attimo il nostro avatar, e siamo noi a questo punto in sella a quella moto, lontani mille miglia dai problemi di tutti i giorni, dalla noia di una vita in cui anche l’arte ti viene proposta come una roba seria con cui passare il tempo la domenica dopo la messa (o la briscola al circolo ARCI).

Non è questa forse la grandezza della cultura americana pop? Astronavi che spezzano con un pulsante le regole dello spazio-tempo, archeologi che vivono la storia tra un complotto nazista e scoperte aliene, adolescenti senza un lavoro che decidono di indossare una maschera e prendersi delle responsabilità verso la comunità prima che per se stessi, sono tutte grandi saghe che come quelle omeriche ti vengono cantante, suonate, proiettate, sussurrate, urlate, con ogni possibile mezzo d’espressione. Ogni tanto allora anche un tipo palloso come me può permettersi di prendersi una pausa dall’ascolto consapevole e attivo dell’ultima ristampa della Medea di Xenakis, e immaginarsi per 9 funambolici minuti come un cazzutissimo motociclista che sbuca fuori dalla tomba dopo aver affrontato il fottuto inferno per una cosa piccola, bella e pura. Che poi altro non è che una metafora del vivere ogni giorno questa cazzo di vita.

The Buttertones, The Frights, Death Lens, The Prefab Messiahs, Rubber Eggs, Bodies That Matter

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Come quando la batteria ormai scarica dell’auto ti lascia in mezzo al nulla così le cose accadono nel mio quotidiano, con quella meravigliosa tempestività che, un’altra persona, trasformerebbe in un romanzo pieno di colpi di scena dove il lettore, incantato dalla mia suadente scrittura che come un serpente si muove a filo delle dune di sabbia, lascerebbe tramontare la ragione a favore della freneticità della lettura. Ma io sono pigro, per cui mi stappo una birra e tiro l’ennesimo bestemmione.

Come fare a sopportare tutte le batterie scariche che si accumulano sotto il letto, ormai quasi a contatto col soffitto? Ci vuole la cara vecchia musica, quella che mi fa sudare e incazzare in camera mia senza dover strozzare qualcuno, insomma, il sano e giusto rock di cui stiamo sempre qui a parlare!

E infatti gli album che vi propongo oggi non hanno alcun collegamento tra di loro, se non che sono quella sbobba che mi ha aiutato nei momenti più stressanti di queste settimane.

Le recensioni brevi non mi fanno impazzire, le faccio solo per un motivo: poco tempo. Mi piace sparlare di qualunque album, anche del più brutto, per sviscerarne ogni aspetto, dalla copertina spieghettata dal rivenditore che me l’ha imbustata, a quel suono opaco della post-produzione che fa figo ma copre le palesi mancanze tecniche, però a far andare quest’auto con il solo ausilio delle mie mani poggiate sul cofano, mentre le mie gambe spingono il peso del mio corpo contro di esso, sono rimasto un po’ a corto di fiato.

Beh, la birra è fredda al punto giusto, direi che possiamo iniziare.

The Buttertones – For the Head and For the Feet (2015)

Da Hollywood a Los Angeles, cinque ragazzi con le idee chiare e un sound che spacca in modo travolgente. C’è chi lo chiama “thriller-rock”, ma al vostro blogger preferito sembra più centrato come termine “drama-rock”, una commistione di indie, alternative, garage e quanto serva a creare un’atmosfera con una potenza narrativa palpabile.

Infatti anche se fossero strumentali i 4 pezzi che compongono questo EP avrebbero un carattere e una connotazione emotiva davvero cinematografica. All’inizio mal sopportavo quel piglio indie, sopratutto alla voce, ma continuavo a mandare Bad Girl perché, da una parte, le liriche erano stranamente piacevoli nella loro semplicità, e perché… quella musica ci stava cazzutamente bene, porcomondo!

Fu quasi inevitabile passare a She’s At Ease, molto in linea con la precedente, ma che succhia dal seno putrefatto di band nate già morte come i Franz Ferdinand e gli ignobili Strokes, pescandone i pochi buoni spunti subito sfruttati in quel sound così compatto e comunque pieno di sfaccettature.

L’attacco psychobilly di Jabber Jaw immediatamente trasformato dalla chitarra new-new wave in un meraviglioso riff alternative mette in luce i muscoli della band, nemmeno te ne accorgi che sono in cinque e che la sezione ritmica fa un lavoro perfetto e pulitissimo. Cristo, c’è un dannato flauto traverso e non da nemmeno fastidio in tutto questo tripudio gggggiovanile, è come se queste canzoni fossero state concepite-scritte-suonate-registrare al stesso tempo!

Giustamente deflagrante l’omaggio all’indimenticabile Ritchie Valens, una La Bamba festosa e veloce, zeppa di elettricità e scevra di ogni manierismo.

The Frights / Death Lens – DeathFrights Split EP (2014)

Uno Split questo molto atteso perché tra due band molto amate dal giovane pubblico underground californiano.

Anche stavolta siamo sul versante del drama-rock, un genere emergente che forse dovremmo iniziare a prendere sul serio, e sul quale certamente cercherò di farvi una sintesi nei mesi che seguiranno.

Sebbene il loro prossimo album sarà prodotto da Zac Carper dei FIDLAR (una band che sta riscuotendo molto successo, senza motivo apparente) i Frights hanno un retaggio musicale molto diverso dal resto della scena californiana, sì beh c’è il surf rock, ma anche un’anima scanzonata Do-wop anni ’50 che li tiene lontani dal solito retaggio garage-punk-DIY ormai talmente abusato da essere una parodia dei suoi stessi valori.

I Death Lens dal canto loro sono più punk e garage, una band californiana fino al midollo, con una grande capacità di mescolare melodia a rumore senza sembrare i Bass Drum of Death. Se ne fregano del lo-fi e già solo per questo Dio (aka Iggy Pop) dovrebbe salvarli dalla sofferenza eterna; che non si può fare garage senza suonare come una scoreggia vestita? E basta co ‘sto cristo di lo-fi, NON È FIGO, semplicemente non ci si capisce un cazzo!

Che dire di questo Split? Le due band sintetizzano le loro rispettive caratteristiche in un vero e proprio drama-rock, che forse trova i suoi momenti migliori quando si da spazio all’istrionica voce di Mikey Carnevale dei Frights.

Sei pezzi travolgenti, irriverenti, sarcastici, delle volte ha la meglio il surf-garage abrasivo (come nell’interludio strumentale Nights of Orlando) ma in generale quello che salta all’orecchio è un sound che ammicca espressivamente al cinema di serie B anni ’80, e lo fa senza sintetizzatori e facendo un casino della madonna. Mica male.

Questo drama-rock viene fuori sopratutto quando conducono i Frights, come in Kids e Just Call It Balls, ma anche in pezzi dove la sezione ritmica punk dei Death Lens è da fare la padrona (Rats e No Colt, No Johnny) il sound resta compatto come un mattone.

Come in ogni buon Split le sue band si scambiano due cover, i Frights scelgono Drag da“Trashed” (2013), che trasformano praticamente in una loro creatura, mentre i Death Lens si cimentano in una Wow, Ok, Cool resa incredibilmente cazzuta dalla band californiana.

Ciliegina sulla torta il gioiello acustico finale, She Makes Me Gay, un pezzo decisamente poco politically correct di rara bellezza, che dimostra che anche sul songwriting lineare queste due band hanno qualcosa da dire. Semplicemente geniali le liriche.

Un album che scorre leggero senza pretese, ma che nella sua apparente semplicità nasconde ingegno e arroganza, un buon mix per un EP rock.

The Prefab Messiahs – Keep Your Stupid Dreams Alive (2015)

Album garage psych di maniera, ma che all’appassionato può riservare qualche soddisfazione.

I The Prefab Messiahs non sono molto conosciuti, anche se sono del giro in quel di Worcester (Massachusetts) dai primissimi anni ’80, ma solo negli ultimi tempi il web li ha eletti a salvatori della patria garage, anche grazie alla solita Burger Records.

Il problema di questa band, per quanto mi riguarda, è che nella meravigliosa tavolozza di colori che ogni album esprime con chiarezza e una certa qualità tecnica, ci si assuefà facilmente.

Sarà che a me tutto il versante garage e psych più legato alle droghe mi annoia a morte, e che i Prefab ne siano un baluardo inestimabile un po’ mi indispone, però non è prevenzione la mia!

Pezzi come College Radio che mescolano Ramones e Electric Prunes sulla carta sono molto più interessanti che sparati dalle casse. Non c’è l’energia travolgente che suggerisce il tentativo di fare del ritornello un inno punk, e non c’è neanche lo spaesamento psichedelico, perché gli effetti e gli effettini sixties fanno un po’ ridere per la loro prevedibilità, rendendo il tutto caricaturale e ridondante.

Io capisco che i quattro siano gente in gamba con anche una cultura musicale notevole, con un sound ben costruito e una tecnica cristallina quanto vuoi, però se questi sono i padrini della Burger non c’è poi tanto da stupirsi se il garage californiano sta diventando tutto uguale.

Rubber Eggs – Bootleg at vintage market 26​/​09​/​15 (2015)

From Sicily with (a) Farfisa, rinati dalle ceneri degli Ipotonix, ennesima band post-rock che esaltata dalle sofisticatezze dei Radiohead tentava una strada già percorsa da molti in Italia (e che non ha fruttato di certo grandi soddisfazioni in termini musicali per noi ascoltatori) adesso si riscopre più garage, più sporca, più interessante.

Che sia a causa di una illuminazione ascoltando il sound retrò dei Calibro 35 o il deflagrante flusso di coscienza degli Inutili non si sa, comunque sia la band palermitana si tuffa nel garage rimescolando le carte del genere senza troppe remore.

Summer Hate si staglia tra il suono mastodontico e impastato dei Mind Garage (anche grazie al dialogo tra la chitarra piuttosto heavy di Giuseppe Taormina e i tasti doloranti del farfisa di Davide Orsi) e una chiara reminiscenza rock-italiano anni ’70, sopratutto nell’impostazione vocale dello stesso Orsi.

Non tardano però le vecchie cattive abitudini a venir fuori, nascoste tra il lento incalzare di Irrevelation, che comunque riesce a mescolare sapientemente indie (c’è un po’ di Raconteurs nel «uuuh-uuuh» quasi sussurrato a fine ritornello) e un certo post-rock nineties però sporco, sincero, c’è un songwriting banale e seccante forse, ma tutto sommato digeribile.

Sapore europeo, anzi, tedesco direi, nell’attacco heavy-stoner di Doom, curiosa via di mezzo tra Black Sabbath, Fuzz, Kadavar, Alice In Chains e qualcosa che colgo ma che la birra non mi aiuta a mettere a fuoco, cinque minuti che la band sa tenere fino all’ultimo secondo.

Dello stesso piglio Illusion, ma molto meno riuscita, troppo caricaturale di un certo heavy-metal teutonico già bellamente superato dal doom metal, un genere che dagli ultimi anni ’90 ad oggi ha assimilato stoner, heavy, sludge e ambient, creando una della scene più fertili di questi anni (tra le band più rappresentative ci sono anche i nostrani Ufomammut).

Ma a parte questa caduta di stile l’EP si sorregge beneCheeze For My Rat è un bel garage strumentale, Revenge of Mother Earth sembra un po’ uscita fuori da “Attack & Release” dei Black Keys ma non sfigura nel complesso, non mancano di coraggio i Rubber Eggs, che alla faccia del DIY e del retaggio punk, buttano nel calderone garage indie rock e alternative italiano e a tratti riuscendoci molto bene.

Bodies That Matter – Glorify! Glorify! Glorify! (2015)

Non è dicerto il miglior album noise che abbia mai ascoltato, ma questo lavoro dei Bodies That Matter mi ha accompagnato assieme a “New Picnic Time” dei Pere Ubu nei miei ritorni notturni in treno. Solo, per interi vagoni, appoggiandomi alla mia spalla riflessa sul vetro, stremato, l’auto con la batteria scarica parcheggiata malamente fuori dalla stazione, il ritmo dolce ed etereo di “Glorify! Glorify! Glorify!” nelle orecchie, i pensieri accuratamente inscatolati nello zaino nel sedile accanto al mio, sale cullandomi il calore del sonno mentre il treno mi riporta a casa.

WTF-did-I-just-read

Sto solo tentando di dare una narrazione alla critica, di elevarla come fanno i critici pagati di Blow Up e Rumore! Non è mica una scusa perché sono stanco di scrivere e voglio spararmi una sessione 12h-no-stop su Bloodborne! A voi una cosa del genere non la farei mai… assolutamente… ma neanche per sogno… ma vi pare…

Black Sabbath – Paranoid

Black Sabbath File Photos

Come se ci fosse ancora qualcos’altro da dire su questo album.

Come se un cojone qualsiasi dello sterminato oceano degli opinionisti del web, potesse aggiungere qualcosa alla già lunghissima serie di elogi e stroncature che segnano questo monolite del rock.

Il tempo ha dato ragione ai Black Sabbath ma non per i motivi che la band vorrebbe.

Il primo album omonimo è più che un seme è un parassita. Per quanto i fan lo adorino (ma adorano anche “Mob Rules” e i dischi solisti di Ozzy, quindi sono esenti da qualsiasi giudizio razionale) quell’esordio fa proprio cagare. Due o tre riff convincenti, poca sostanza e mal suonata, testi da brivido. Ma cosa cambia da “Black Sabbath” a “Paranoid”?

I Black Sabbath sono una delle band più ridicole della storia, e forse anche per questo tra le più grandi di ogni tempo. Vestiti come dei satanisti texani, facce di impareggiabile bruttezza, tecnica musicale quantomeno raffazzonata, non sperimentano, non destrutturano, non fanno un cazzo se non, banalmente, infilare riffoni della Madonna uno dietro l’altro, con una tenacia che sfiora la demenza. Eppure…

Se in “Black Sabbath” erano fin troppo parodici, in “Paranoid” riescono a cogliere in modo assolutamente originale la paranoia della Guerra Fredda e della Morte in generale esorcizzandola a suon di riff e testi ben lontani dalle litanie hippie dalle quali si discostavano polemicamente.

Più che il successo di vendite è l’aspetto seminale dell’album che stupisce ed intriga.

Per il metal questo e “Master Of Reality” sono una fonte inesauribile di ispirazione, oggi insieme a Hawkwind e Blue Cheer i Black Sabbath sono tra le band di riferimento per tantissimi gruppi neonati.

Al contrario del power pop che tanto deve ai Beatles o all’hard rock di stampo zeppeliniano il metal (non cercato ma trovato) dei Sabbath sforna nuove leve del rock underground (ma si può ancora dire underground? Sembra una parola bannata da qualunque rivista di musica) incredibilmente ispirate e mai retoriche al contrario del power pop che vive di riff ed esecuzione, o dell’hard rock che a parte due o tre band ristagna nella masturbazione.

Giusto per citare qualche band “sabbathiana” (rimanendo negli ultimi 5 anni): Fuzz, Shooting Guns, Zig Zags, Harsh Toke, Sungrazer, The Machine, Golden Void, Kadavar, Earthless, Electric Citizen, Black Mountain e si potrebbe continuare ancora fino allo sfinimento.

Al contrario del solito power pop o dell’hard rock la vena sabbathiana è in costante evoluzione, passando dal doom all’ambient alla psichedelia, tocca persino il punk!

Che dire dell’album in sé, il riff d’apertura di War Pigs scandisce lo spazio con una inesorabilità gotica di straordinaria capacità espressiva, si presta alla ripetizione infinita come alla modulazione e alla progressione. Naturalmente non è nella diretta volontà dei componenti della band questa “apertura”, ma è ciò che avviene.

L’attacco di Paranoid è devastante e immortale. Potrebbe benissimo aprire un album degli Zig Zags e non sembrerebbe comunque anacronistica. Iron Man è come War Pigs e ovviamente Hand of Doom (eppure i riff sono talmente ispirati da donargli dignità pari), poi c’è Planet Caravan col suo andamento tetro e spettrale, mentre Electric Funeral è il momento più alto, quello dove l’apocalissi elettrica giunge alla sua forma estetica definitiva.

Al contrario del primo album i Black Sabbath non sembrano più parodie di una specie di gothic band con reminiscenze romantiche (e un pessimo poeta ai testi), qui le improbabili immagini di devastazione diventano reali, sostenute da una musica terrorizzante e potentissima.

Un album universale, un capolavoro.

Ah, dopo “Master of Reality” gli album dei Sabbath si alterneranno tra l’indecente e l’inascoltabile. So bene che molti di voi non saranno assolutamente d’accordo, ma avremo modo di parlare in un’altra recensione, promesso.

Zig Zags – Zis Zags

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John Carpenter? Neil Marshall? Qualcuna di queste divinità può prendersi gli Zig Zags per musicarsi un bel film post-apocalittico? No perché questo trio californiano ha appena pubblicato il primo vero album rock monumentale del 2014, sarebbe anche il caso di sfruttarli finché freschi.

Che “Zig Zags” in potenza avesse le caratteristiche di un esordio con i fiocchi e contro-fiocchi lo si poteva immaginare, che l’arietta post-apocalittica carpenteriana fosse presente l’avevano già in parte anticipato, ma questo album è davvero una vampata di sano heavy metal come non se ne sentiva da troppo tempo.

La cosa più bella è che questo heavy metal è proprio ignorante, cattivo, solo riff della Madonna ed effetti tamarrissimi (però non buttati a caso come la batteria elettronica in Heartbeat di Jerry Riggs), i testi hanno la giusta dose di goliardia ed epicità senza mai sprofondare in una delle due.

Tranquilli, non sto urlando al capolavoro, non ancora almeno. Ma presto verrà, vedrete.

Che dire della nuova intro a Braindead Warrior? Praticamente il pezzo rock più potente degli ultimi cinque anni, un misto di immagini tra Mad Max e Fallout 2 esplodono nella mente, se girassero un nuovo “Heavy Metal” (vi ricordate il film metal-porno del 1981?) questo sarebbe il fottuto pezzo d’apertura, con tanti saluti a Sammy Hagar e compagnia cantante.

Il ritornello di The Fog sembra già un classico, non so come spiegarmelo. Torna a tratti anche l’anima punk della band sommersa dai pesantissimi Black Sabbath. Per Magic potremmo anche fare lo stesso discorso, se non fosse che il riff sembra davvero uscito da “Heavy Metal” (inoltre finalmente potrò cancellare dalla mia mente il diretto collegamento tra la parola “magic” e Magik dei Klaxons).

No Blade of Grass l’anno scorso chiudeva “10-12”, la raccolta in musicassetta dei demo della band. Registrata come Dio comanda fa ancora più male. Riscopriamo da “10-12” anche la garage punk Tuff Guy Hands e una bellissima Down the Drain, c’è Psychomania (irriconoscibile), I Am The Weekend e ovviamente Randy (il pezzo sulla loro “mascotte”). 

Siamo sempre ben al di sopra della sufficienza per tutto l’album, anche nell’intermezzo sperimentale (Untitled) che ci prepara ad un finale col botto, Voices of Paranoid, il capolavoro psych metal della band. 

Anche nella irrequieta California, dove si mescolano senza indugi doom e garage, il sound dei Zig Zags è unico. L’ha capito bene Ty Segall che ha co-prodotto questo esordio discografico, l’ha capito benissimo la In The Red Records, questi qui sono destinati a scrivere pagine indelebili del rock contemporaneo.

Shooting Guns – Brotherhood of the Ram

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Che l’heavy metal non sia solo Sammy Hagar, Van Halen e i film fanta-porno ci si può arrivare, che dai vestiti fatti di jeans strappati ai lustrini ci sia un passo va altresì bene, ma che ora esista dell’heavy metal in salsa psichedelica forse per qualcuno è anche troppo.

Non che sia una novità, in fondo Iron Butterfly e ancor prima Blue Cheer non erano così lontani dalla psichedelia, ma oggi questa relazioni non è più tale, si è passati alla coppia di fatto e alla comunanza dei beni. Le jam infernali degli Harsh Toke e i riff pesantemente sabbathiani dei Kadavar sono solo la punta dell’iceberg, un genere che non è mai morto in questi giorni sta ri-vivendo per la prima volta.

Che ci siano dei contatti subliminali tra le nuove leve del rock americano e la Psichedelia Occulta italiana forse sono solo io che lo dico, essenzialmente perché è una cretinata pazzesca. Eppure quando sento gli In Zaire o gli Shooting Guns ci sono molte corde in comune che vibrano nel mio inconscio. Come al solito in Italia la forma spesso sovrasta la sostanza, anche se “Sette” de La Piramide Di Sangue prova che si può trovare un equilibrio anche da noi, ma va detto per onestà intellettuale che a ‘sti statunitensi vien proprio naturale. 

Si ritorna con questo album al “no brains inside of me” ripetuto con un falsetto disturbante in Maze Fancier (Thee Oh Sees), siamo alla ricerca musicale di una perdita totale di coscienza, lontana dall’utopia felice degli Acid Test perché rassegnata e insensibile. Siamo negli anni ’10 del 2000, Grateful Dead, Acid Mothers Temple e gli altri figli dei fiori sono un punto di riferimento musicale, ma non concettuale.

Gli Shooting Guns sono canadesi, proprio come i Black Mountain di Stephen McBean, e qualche somiglianza nel sound la si trova senza difficoltà, ma se nei Black Mountain anche i riff più furiosi (Don’t Run Our Hearts Around, Tyrants) restano legati anche concettualmente ai seventies, gli Shooting Guns sono proiettati da tutt’altra parte, verso una nuova angoscia esistenziale (di carattere mondiale, per quanto riguarda la cultura occidentale).

I primi due pezzi di “Brotherhood of the Ram” (2013, RindingEasy Records*) sono potenti quanto introversi. Nella furia doom, stoner e psych si mescolano, sia Real Horse Footage che Motherfucker Never Learn sono pieni di rabbia. Il titolo della seconda è quantomeno esplicativo, da notare però come nessun urlo liberatore si faccia strada, i pezzi sono tutti strumentali in questo album e la mancanza di una voce umana porta ad interiorizzare ancora di più il flusso ipnotico dei riff.

Con Predator II mi sembra quasi di ascoltare qualcosa degli Zombi (il duo space rock Steve Moore e Anthony Paterra da Pittsburgh, ascoltatevi “Spirit Animal” del 2009) ma invece dei gentili sintetizzatori ci piazzano chitarre stoner a manetta, il tutto in salsa space crea un clima epico e dannatamente piacevole. 

Go Blind ha un inizio obiettivamente perfetto. È come se gli Shooting Guns ci invitassero in un altro mondo, uno di quelli belli scuri pieni di tenebre e quant’altro, ma senza la vena spiccatamente tamarra del metal, e senza nemmeno ricercare chissà quale estetica di ‘sta ceppa, naturalmente loro non sono accanto a noi nel cammino, la solitudine durante l’ascolto è totale.

La title track è una bomba assoluta, sebbene dalle prime note mi sentissi a metà tra Mahogany Frog, Pink Floyd e Mike Oldfield, quando la potenza di Brotherhood of the Ram si svela è una botta di adrenalina mica da ridere. 

Sul finale una rumorosissima No Fans chiude le danze, un velo di esoterismo si coglie qua e là, come se tra gli Shooting Guns e Torino non ci fosse un oceano. 

Questo è il secondo album della band canadese, il primo probabilmente lo recensirò dato che qualcos’altro da dire c’è eccome, ma sono sfaticato e quindi me la sbottono qui.

  • Lo Consiglio: a coloro che doom, stoner e metal assieme fanno rizzare i capelli (in senso positivo) ma se ci butti là anche una spruzzata di psych allora sei a posto almeno per un’oretta buona.
  • Lo Sconsiglio: se siete poco avvezzi al metal strumentale e così ripetitivo, ovviamente c’è un senso se un riff viene ripetuto invece che progredire in millemila note, però se non lo cogliete forse questo album vi lascerebbe perplessi e annoiati.
  • Link Utili: cliccate QUI per la pagina Bandcamp di questa folle band, cliccate invece QUI per scaricare gratis questo album (fate come me, donate almeno due lire a ‘sti tipi, ok?), cliccate QUI se volete intripparvi nella home della label canadese degli Shooting Guns. 

*La RindingEasy Records è il distributore dell’album fuori dai confini canadesi mentre l’etichetta di riferimento degli Shooting Guns è la Pre-Rock Records, fra l’altro nome spettacolare a mio avviso.

E ora qualche video:

Live ipnotica dei nostri, il pezzo in questione è Harmonic Steppenwolf, pezzo di apertura del loro primo album “Born To Deal In Magic: 1952​-​1976”.

Live di Motherfucker Never Learn in uno studio di Calgary nell’Alberta.

C’entrano come una capricciosa a merenda accompagnata da del tè caldo, però mi andavano quindi BANG! beccatevi gli Zombi.

 

Zig Zags – Scavenger/Monster Wizard

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[Sì, lo so, non è una recensione vera e propria, e quasi una presentazione, ma cazzo, ero in uno stato d’animo trascendentale allucinatorio mai subito prima!]

Quando mi sono ritrovato ad ascoltare il loro ultimo pezzo, uscito su bandcamp nel consueto formato 7’’ da punk rocker sfigato, sono saltato sulla sedia.

Ho pensato: ci siamo! Che gli Zig Zags fossero sulla strada giusta era già chiaro a quei quattro asociali tipo me, un sound potentissimo perfettamente in linea con il nuovo garage americano, ma qualcosa di più ha toccato questi ragazzi di belle speranze.

Non so bene cosa cazzo scrivere, perché li sto ascoltando a tutto volume proprio in questo momento, le mie casse ruggiscono di un rock spaventoso ed io sono chino su questo cazzo di quadernino e non capisco, non non non non non [seguono frasi sconclusionate qui censurate]

La mia testa è del tutto franata, i riff distorti all’inverosimile, un low fi non più nostalgico ma dettato da un imperativo categorico che ha trovato la sua dimensione in un determinato spazio metafisico tra garage, drone e psichedelia! Se i Fuzz riprendono i Blue Cheer e i Thee Oh Sees sono il nuovo ideale psichedelico, gli Zig Zags evolvono il garage rock contemporaneo slegandolo definitivamente col passato (altro che il compitino applaudito dalla critica di John Reis!).

La loro carriera probabilmente comincia attorno al 2009-2010, la loro prima pubblicazione risale a ottobre dell’anno scorso, sempre un EP da 7’’ dal sound molto drone e psichedelico. Monster Wizard/Turbo Hit” è il rumore puro alla “Metal Machine Music” finalmente ritornato alle sue radici rock, controllato e addomesticato senza però perdere la sua forza primordiale.

Monster Wizard è mille volte più potente di qualsiasi cosa uscita in ambito garage, gli Zig Zags hanno probabilmente raggiunto la massima vetta in questo senso. Il sound degli Stooges e degli MC5 incontra finalmente i feedback lancinanti di Ty Segall e la musica drone, passando per “Carrion Crawler/The Dream” dei Thee Oh Sees. Nemmeno i Thee American Revolution raggiungono queste vette di devastazione sonora.

Già Turbo Hit sembra più “umana”, più “normale”, ma è solo perché ormai Monster Wizard ci ha aperto la mente a un mondo infernale di rumori e distorsioni talmente rock da far impallidire il 99% della produzione contemporanea.

Finalmente il 3 gennaio di quest’anno pubblicano il loro primo album, che per me è stato una mezza delusione al primo ascolto, ma cazzo, era solamente il primo ascolto.
“10-12” come si può intuire è una raccolta di tapes della loro finora breve ma straordinaria carriera.

Un fastidiosissimo rumore di sottofondo che mi insegue fin dalla breve Psychomania mi avverte subito che d’ora in poi le cose saranno un po’ diverse dal solito.
Prometto che farò presto una recensione di questo album, ma finora sono riuscito solo a subirlo passivamente, mi annichilisce del tutto.

Sempre nel 2012 avevano anche pubblicato un breve LP con Iggy Pop, “If I’m Luck I Might Get Picked Up”, la cosa migliore che abbia mai sentito cantare all’Iguana dai tempi di “Fun House”.

In realtà, come scoprirete da voi, l’ultimo 7’’ uscito dei Zig Zags sono due singoli già usciti tempo prima, uno nel disco sopra citato e uno nella loro prima pubblicazione ufficiale, si intitola infatti “Scavanger/Monster Wizard”.

Ma allora, se sono pezzi che ho già sentito tempo prima, perché saltare ancora una volta dalla sedia?

Perché gli Zig Zags rischiano di finire tra le mie band preferite di sempre, e forse non soltanto tra le mie.

  • Pro: la miglior band garage contemporanea.
  • Contro: se non vi piace la drone, il garage rock, la psichedelia, cazzo ci state a fare in ‘sto blog ancora non l’ho ben capito.
  • Pezzo consigliato: sono solamente due e molto brevi, non essendo un album, quindi direi che potete fare lo sforzino di cuccarveli tutti e due.
  • Voto: 9/10

Rock Tamarro

Allora, direi di cominciare subito con la mia definizione di rock tamarro, giusto per non creare disguidi di alcun genere:

Il rock tamarro è quel rock che esaspera le sue caratteristiche fino a farlo diventare caricaturale.

Quindi levate di torno giubbotti di Dolce & Gabbana e piuttosto indossate un costume alla Kiss.

Il rock tamarro è il male, non ci sono dubbi, eppure spesso l’uomo (che è un essere tendenzialmente spregevole e incline alle perversioni) si ritrova ad ascoltare questa merda  per esorcizzarla da sé, non con spirito critico, ma nella più sentita goliardaggine.

Ma esiste goliardaggine? No, eh? Vabbè…

Comunque bando alle ciance, in questo primo (e spero ultimo) post sul rock tamarro prenderemo in considerazione quelle songs che mi hanno fatto accapponare la pelle al primo ascolto per il loro alto contenuto pericolosamente tamarro.


Destruction è il pezzo dei Loverboy scritto da Moroder per la colonna sonora della rivisitazione (oscena) del celebre film di Fritz Lang: Metropolis. Ovviamente Moroder è ricordato come uno dei baluardi della tamarraggine made in eighties, ma la sua unione con il sound obbrobrioso dei Loverboy ha creato qualcosa per cui dovrà scusarsi con l’umanità per il resto dei suoi giorni. I Loverboy erano una band canadese che conobbe un grandissimo successo negli anni ’80, oggi chiunque abbia acquistato i loro album li usa come sottopiatti per la scodella del gatto.


Porca l’orca gente, The Stroke è uno di quei pezzi che ti fanno rimpiangere Gary Glitter. Personaggio di indubbie doti tamarre Billy Squier, anche lui rocker di grande e splendete fama negli ottanta, buon amico di Freddy Mercury (con cui comporrà qualche immane schifezza) curiosamente anche lui nella lista dei partecipanti alla colonna sonora di Metropolis, ma con un altro pezzo scritto da Moroder: On Your Own. Anche il caro Billy, naturalmente, è scomparso pian piano dalla scena musicale, e i suoi pezzi restano nella memoria collettiva grazie alla potenza del cinema d’autore.


Eccoci alla classe, eccoci a Jerry Riggs. Ovviamente quando si parla di tamarraggine nel rock è impossibile dimenticarsi di quell’album e di quel film, il faro nella notte più oscura, il preservativo in fondo alla tasca dei pantaloni che pensavi di aver lasciato a casa, parlo ovviamente di “Heavy Metal”. Film d’animazione a sfondo fantascientifico-epico essenzialmente è un porno, le musiche sono un orgia di band non al pieno delle loro forze (Grand Funk Railroad, Blue Öyster Cult, Black Sabbath) oppure dichiaratamente tamarre (Nazareth, Journey, Trust). Jerry si staglia in mezzo a questa poltiglia mediocre con un uso vergognoso della batteria elettronica (dal suono “spaziale”) costruendo un pezzo che trasuda così tanto tamarro da puzzare.


Non spaccatemi i coglioni, gli Skid Row fanno cagare. Motivo per cui, a tredici anni, comprai i loro primi due album (che pena), venduti con l’arrivo della maggiore età ad un metallaro poco informato. 18 and life ha uno di quei testi che ti fanno chiedere se è davvero possibile che ci sia vita intelligente nell’universo dato che in questo pianeta, chiaramente, non c’è mai stata. Il fatto che ci siano persone che l’abbiano presa come vero e proprio inno generazionale non la nobilita, semmai ci pone seri interrogativi sul rendere perseguibile legalmente chi ascolta pop metal.


Il regista e fine musicista Rob Zombie è un cazzo di mito per un sacco di gente. La sua passione per il trash trascende i generi artistici, lui stesso è trash nel suo esistere. Ma cosa c’è di più tamarro di Mars Needs Women? Con un testo così: “Mars needs women, angry red women, mars needs women, angry red women” il rock può solo puntare in alto. Alcatraz, direi.


Avrei voluto evitarlo, eppure non era possibile. Mi tocca ripescare da quella fucina inesauribile di tamarraggine che è “Heavy Metal”, e ci buttiamo sul grande, sull’unico, sul mitico Sammy Hagar. Noto perlopiù per aver sostituito David Lee Roth come vocalist nei Van Halen il gaudio Sammy è un baluardo del rock tamarro, la sua voce potente e archetipica accompagna da sempre composizioni musicali di agghiacciante ingenuità dal 1973. La sua dedizione al rock tamarro è totale, consapevole della sua incapacità di potersi dedicare ad un lavoro che non leda la dignità della nostra specie.


Con la ormai famosissima cover di Spirit In The Sky del povero Norman Greenbaum i Doctor and the Medics sono nell’olimpo del rock tamarro-psichedelico, un luogo mitico ambito da pochi perché considerato irraggiungibile dai più (ma che cazzo ho scritto?). La loro presenza sul palco era unica, dal dottore vestito come in un incubo di Jim Henson alle coriste che si muovano come se si fossero appena scolate quattro confezioni di sciroppo per la tosse. Per loro il rock era solo tamarro, non c’erano vie d’uscita. Forse il loro unico limite era la pigrizia, dato che perlopiù si interesseranno di coverizzare (o anche: intamarrare) i pezzi più disparati.


Impossibile non chiudere questa sequela di vergogne con La Vergogna, l’uomo che tutti noi maschi odiamo perché in realtà vorremo essere esattamente come lui. Danko Jones dei Danko Jones non solo è così figo che per il nome del gruppo ha usato il suo senza nemmeno far seguire “band” alla dicitura, ma è togo in tutto. Il suo sguardo famelico arrapa le donne come e più l’alzata di sopracciglio di Billy Idol, la sua sudorazione nelle live è leggendaria, i suoi fan raccolgono il suo salato succo in bottiglie con cui poi si bagneranno per poter assorbire anche solo un pizzico del suo testosterone. I suoi riff li impari dopo una settimana da autodidatta, le sezioni ritmiche sono le stesse per tutti i suoi album, raramente si cimenta in cover, perché non sarebbe capace di suonare Yellow Submarine senza farla diventare un inno alla sua verga. I suoi testi sono cocenti, si va dall’uomo che  non deve chiedere mai a… a beh, all’uomo che non deve chiedere mai, no? Ovvio. Cos’altro ci sarà da dire di importante? L’apice lo raggiunse nel 2006 con “Sleep Is The Enemy”, una delle cose più tamarre che abbia mai ascoltato, dalla prima all’ultima traccia la tensione tamarra è altissima.

Lode al prode Jones, la galera invece per chi ascolta questa roba e gli piace!!!

Blue Phantom – Distortions

La recensione di oggi è davvero una chicca allucinante. Per ascoltare decentemente questo disco sono finito nella cantina di noto venditore di vinili fiorentino, l’originale è una rarità assoluta nel campo del collezionismo. Certo, mi direte, ci sarà su YouTube (e difatti oggi l’ho trovato per i link), ma un recensore che ascolta un album su YouTube è credibile? Credo che anche la ricerca aiuti la recensione, diventa molto più sentita e attenta proprio perché frutto di uno sforzo (anche se minimo) invece che frutto di un semplice svago girando tra i collegamenti consigliati dal Tubo.

I Blue Phantom non sono molto conosciuti all’infuori dei circoli del collezionismo e non sono da confondersi con i Phantom Blues Band (band blues in attività che vanta collaborazioni con Etta James, Joe Cocker e i Rolling Stones) o con i Blue Phantom Band (band italiana in attività fondata nel ’71, fanno un blues vecchio stile, dal vivo sono indimenticabili) o con le temibili Phantom Blue (le cinque fattucchiere dell’heavy metal).

La band ha probabilmente come factotum il polimorfo Armando Sciascia, dato che il compositore del disco si firma “H. Tical”, celebre pseudonimo del violinista. Siamo nel 1971, Sciascia è stato un grande sperimentatore come dimostrano molte delle sue colonne sonore, difatti per confermare ulteriormente la sua paternità và ricordato come Distortions, il disco che mi appresto a recensire (prima o poi, se non mi perdo in ulteriori digressioni), sia stato usato come colonna sonora di molti film del discusso regista spagnolo Jesús Franco (sì, proprio Jess Franco).

Di certo uno dei più importanti lasciti di Sciascia è stata la fondazione della Vedette, la sua casa discografica, nel lontano 1962. In quell’anno l’eclettico compositore italiano aveva dato la sua arte all’inutile regista Renzo Russo, il film in questione è il noiosissimo Sexy, un delirio di chiacchierate futili e balletti stomachevoli. La Vedette dal canto suo una delle case discografiche sicuramente più attive dell’epoca, e la qualità era piuttosto elevata: si passa dal rarissimo Contrasto dei Pooh, a nientepopodimenoche il primo disco degli Equipe 84, c’è posto anche per il mai abbastanza compianto Giorgio Gaber, il capolavoro dei Metamorfosi Inferno, ma c’è spazio anche per Stefano Rosso! Di certo il colpaccio la Vedette lo fece quando prese il posto della mitica Elektra e pubblicò in Italia nel 1970 Morrison Hotel dei The Doors, uno dei picchi della band americana tornata finalmente al blues che le apparteneva (anche per taluni è invece una netta virata verso idee più rock). Sciascia ha prodotto oltretutto un’altra rarità del panorama italiano: il leggendario Uno dei Panna Fredda.

Il disco dei Blue Phantom viene pubblicato con l’etichetta Spider records, una sotto-etichetta della Vedette dimenticata per strada dall’inefficiente Wikipedia. Dell’ensemble che traduce in musica le indicazioni di Sciascia non sappiamo nulla neppure oggi, un gruppo da studio che molto probabilmente era legato al compositore italiano, quello che sappiamo di certo che uscì solo Distortions e un singolo a lui legato sotto il nome dei Blue Phantom, poi il nulla: niente live, nessuna apparizione in riviste o TV, nessuna paternità riconosciuta, niente. Gran parte di queste informazioni le ritengo sicure, difatti le ho prese dal blog di John’s Classic Rock, in Italia una fonte più che mai autorevole per tutto ciò che concerne il prog made in Italy.

Le influenze derivano certamente dai grandi come Le Stelle di Mario Schifano, qualcosa da Dies Irae (1970) dei Formula Tre, e forse forse dallo sconosciuto quando eccezionale Plays Eddy Korsche – Rock & Blues (1970) dei Free Action Inc., in ambito internazionale c’è tanto dei primi Iron Butterfly,  avrà forse ispirato il disco d’esordio de L’Uovo Di Colombo (omonimo, 1973) e azzardo magari Generazioni (Storia Di Sempre) (1975) dei miei amati E.A. Poe. Il disco è interamente strumentale.

Blue Phantom - Distortions

L’album si apre con una potentissima Diodo. Il riff anticipa in maniera impressionante l’heavy metal inglese più oscuro, mentre la prima variazione con un tastierista sotto acido ci fa tornare in clima psichedelico, un’andirivieni tra riff spettacolari e fughe allucinate.

Metamorphosis ci ricorda che siamo di fronte a degli anonimi che suonano in modo perfetto. Un po’ confuso a tratti, per fortuna la chitarra e la batteria sono ispirate da non so quale divinità musicale. Una chiave di lettura alquanto particolare per il ’71, anche se si presta molto meglio come colonna sonora che come singolo.

Microchaos è una breve perla di saggezza. Riff potenti, suoni da un altro pianeta si intersecano perfettamente, nulla in realtà è lasciato al caos. Questo è un singolo con i coglioni.

L’attacco di Compression per un attimo rimanda a quei torbidi film erotici italiani dei primi settanta che Sciascia certamente conosce fin troppo bene. Per fortuna il suo sviluppo è dedito alla psichedelia più favoleggiante possibile, rimandi con i classici della psichedelia a sfare, un piacere sovra-dimensionale.

Equilibrium riprende un po’ il pezzo precedente, con una profondità maggiore, un tema molto più riconoscibile e un pizzico di Santana (pizzico eh, non mi insultate).

Lato B, si ricomincia col riffone, Dipnoi però è certamente più folle dei suoi precedenti Diodo e Microchaos. Virtuosismi che si susseguono, e mi ritrovo a pensare: questi ci sanno fare di brutto, così mi rendo conto che questo disco vale molto più del suo già folle prezzo da collezione.

Distillation mi fa balzare dalla sedia, un’attacco potentissimo, una cosa del genere se la sognano i Black Sabbath (ci sono tantissime sfumature che rimandano all’heavy metal dalla band di Iommi & Osbourne, comunque l’accostamento – che è stato fatto spesso da altri recensori – è piuttosto difficile per me). Il pezzo dopo qualche minuto parte per i conti suoi, una jam psichedelica di ottima fattura.

Violence è l’ennesima allucinazione corredata di moog e fughe barocche. Il brano è tra i più ispirati del disco, una struttura solida dentro la quale la fantasia dei musicisti capitanati da Sciascia si propaga oltre i limiti consentiti dalla razionalità (esagero un po’, ma è tutta colpa dell’esaltazione di poter ascoltare un rarità di questo tipo).

La calma dopo la tempesta è Equivalence, sostanzialmente una buonissima colonna sonora per un film diretto ipoteticamente da Syd Barrett.

Psycho-Nebulous ha un grande difetto per i miei gusti, inizia come se fosse già a metà pezzo. Mi ha sempre dato fastidio questa pratica, per fortuna mai troppo abusata, quando si cerca di comporre “rock d’avanguardia”. Va bene che il disco è bello ma non è mica Parable Of Arable Land, quindi se magari ti attieni a quanto fatto finora non sputtani tutto nel finale. Comunque Psycho-Nebulous è un chiarissimo caso di riempitivo senza funzione, strano, noioso, di una psichedelia che non ha alcuna funzione se non quella di un fastidioso scampanellio di musicisti sotto acido.

Nella versione CD del 1998, che ho giustamente recuperato solo stamani, sono presenti inoltre Uncle Jim (un bellissimo divertissement alla Barrett, ma arrangiato divinamente) e una versione singolo di Diodo.

Il lavoro è sicuramente un prodotto del tutto inusuale, sebbene le ottime premesse di Sciascia con dischi come Mosaico Psichedelico (1970), in Distortions i suoni e le idee sono inspiegabilmente avanguardistiche, un disco da avere assolutamente per la sua unicità e genialità.*

  • Pro: è un disco unico nel 1971, un caso musicale da studiare e conservare gelosamente.
  • Contro: momenti in cui la follia psichedelica dilagano senza un motivo apparente, a volte la sperimentazione non trova un motivo di essere e dà oggettivamente fastidio.
  • Pezzo Consigliato: Diodo è davvero bellissima, ma anche l’inedita Uncle Jim mi ha esaltato tantissimo all’ascolto.
  • Voto: 6/10

[*ERRATA CORRIGE: come gentilmente fattomi notare nei commenti “Mosaico Psichedelico” è una raccolta postuma mentre il link è riferito a “Impressions in Rhythm and Sound” (qui il link a Circuito Chiuso) album del buon Sciascia del 1970.]

Soundgarden – Superunknown

[Questa è la mia prima recensione, ci sono un sacco di errori e banalità, prima o poi ne farò una nuova versione totalmente diversa (anche nel giudizio), ma mi piace che resti qua, con tutti i suoi difetti e le cazzate.]

Chiariamo: questo blog parla di musica ovviamente, ma non più seriamente di come voi parlereste, in una bella serata tra a amici, dell’ultimo film di Sylvester Stallone. Chiaro? Bene.

Come saprete è uscito l’ultimo disco dei Soundgarden “King Animal“, non ho ancora avuto il tempo per ascoltarlo se non per l’unico singolo uscito (Been Away Too Long), ma per l’occasione ho deciso di battezzare questo blog chiacchierando con voi del loro maggior successo: “Superunknown“.

Un paio di premesse: fanno heavy metal, abbastanza tosto. Negli anni ’90 c’è stato un po’ di casino nel rock, sia nella sua accezione diciamo “classic” che nella sua accezione “heavy”. La progressiva disgregazione in generi e sotto-generi ha trovato il suo culmine proprio nei ’90, ma in realtà la questione è piuttosto semplice perché a parte i residui di alcune correnti storiche (come il progressive) possiamo ridurre il panorama in: metal (e i suoi derivati), rock alternativo e grunge.

Il grunge è un genere che riconduciamo perlopiù tra la fine degli ottanta e i primi novanta,  purtroppo si fa davvero una confusione snervante su cosa sia e quali siano i gruppi che lo rappresentavano. Diciamo che la prossima volta ci farò un post, ma vorrei solo puntualizzare che di grunge i Soundgarden hanno forse l’origine e i temi trattati in comune, però il sound ha preso molto velocemente chiare tinte heavy metal. Basta.

A me i primi dischi dei Soundgarden non mi fanno impazzire. Sebbene la tecnica, le ottime influenze, il sound piuttosto fresco e via dicendo, la sensazione che provo ascoltando per in intero dischi come “Ultramega Ok“, “Louder than love” e “Badmotorfinger è quella di una costante sensazione di confusione. Ci sono singoli di grande potenza e completezza, ma in un contesto disordinato e piuttosto rumoroso (il che non è un problema di solito, anzi, ma non è un rumore esplicitamente espressivo come nel garage, suona quasi casuale)

“Superunknown” esce nel 1994 con l’etichetta A&M Records, casa discografica che aveva tra i suoi pezzi forti gente come Joe Cocker e il nostro Gino Vannelli, mentre tra quelli un meno forti (o se volete tragicomici) i Nazareth e gli Extreme. Superunknown è un piccola perla di saggezza in un anno complicato per il rock tra l’egemonia grunge, dei Nirvana e dei Pearl Jam, e una rivoluzione in corso d’opera nell’ambiente alternative con “Mellow Gold” di Beck. La prima cosa che sconvolge l’ascoltatore è l’armonia, il lavoro di produzione e mixaggio sono clamorosi, tra i i più belli in ambito metal (come non citare per fare un esempio “Vol. 3 (The Subliminal Verses)” degli Slipknot, opera del grandissimo Rick Rubin), difatti invece della solita confusione ci si trova di fronte un disco di cui non cambieresti una virgola.

C’è chi vi dirà “è il disco più commerciale dei Soundgarden!”, se per commerciale intende “comprensibile” forse ha ragione.

Non c’è una traccia che spunta particolarmente tra le altre, il disco scorre giù senza intoppi. Magari pezzi come Half sono un po’ troppo protesi verso una psichedelia che strizza l’occhio agli Zep di Kashmir (fra l’altro il tema psichedelico è sempre stato presente nei lavori precedenti), spezzando un po’ le logiche fin lì protratte, ma il pezzo in sé è più che apprezzabile.

The Day I Tried To Live è il pezzo più prevedibile, quelli con un sound più spiccatamente moderno sono certamente Fell On Black Days e Superunknown, che contengono ancora qualche divertente accenno di punk (altra declinazione sempre presente nei lavori della band).

Il pezzo più famoso è certamente Black Hole Sun, fra l’altro uno dei video più angoscianti di anni strapieni di video veramente angoscianti.

Le linee di basso sono un piacere inestimabile, credo che nella produzione di Ben Shepherd (non fortunatissimo al di fuori del gruppo) siano la cosa migliore che gli sia mai passata per la testa. La batteria spesso mi ipnotizza, come in Spoonman, dove ritmi metal e tribali sembrano fondersi nell’ennesimo rimando ai Led Zeppelin, fra l’altro chiodo fisso di Cornell anche negli Audioslave dove troverà a dargli man forte su questo aspetto anche Morello.

Di questo disco credo di non aver mai apprezzato a pieno il lavoro del chitarrista, Kim Thayil. Sì, lo so, è molto sottovalutato, è un bestia, è fortissimo, sei un demente se non ti piace e via dicendo, però a me gli assoli di Thayil mi fanno venire prurito alle mani, che ci posso fare? Sulla tecnica non mi metterò mai a parlare in questo blog, quindi se volete fate vobis.

Trovo che nell’armonia di pezzi come Spoonman l’assolo di Thayil ci stia come il ketchup sulla pizza, pazienza.

Sugli altri membri della band niente da ridire, sebbene le ultime virate pop del bravo Chris Cornell mi abbiano fatto prendere un ulcera fulminante mi accontento degli ottimi lavori fin lì fatti.

Ah, l’ultimo disco, come vi ho detto non l’ho ascoltato, ma dal singolo estratto che vi citavo a inizio post mi sembra che siamo tornati a quella buona confusione di un tempo, adesso pure anacronistica. Però non si sa mai, prima l’ascolterò sempre fiducioso (sono ottimista di natura) poi ne parleremo un’altra volta magari.

Mi scuso in anticipo per la confusione, se manca qualcosa o dico solo cazzate, siete liberi di insultarmi nei commenti.

E non dimenticatevi di provare a suonare un sassofono!

  • Pro: lo ascolti tutto senza mai saltare una traccia e non è una cosa che succede spesso nel mondo del rock più blasonato.
  • Contro: no, non sono i lavori dei muratori nel piano di sotto, sono proprio gli assoli di Thayil.
  • Pezzo consigliato: tutto il disco tutto d’un fiato.
  • Voto: 7/10

[ringrazio Ares, che nel leggere questo post si è accorto che avevo scambiato impunemente il nome di Kim Thayil con quello di Kim Warnick, vorrei poter dire che è stato un lapsus dovuto al fatto che credo che Thayil suoni come una ragazzina, ma in realtà è stato un indecente errore di copia-incolla]