La questione “i Muse copiano i Radiohead” è una delle poche diatribe degli ultimi anni ad aver resistito all’ossidazione.
A nessuno gliene frega più niente dei paragoni allucinanti tra Beatles e Oasis, o della rivalità tra quest’ultimi e i The Verve, gran parte delle inimicizie che hanno segnato confini invalicabili nei gusti di molti sono andate perdute, anche le più storiche ormai al di sopra delle possibilità dei protagonisti stessi, vedi quella tra Peter Gabriel e Phil Collins (di cui un giorno ci occuperemo, probabilmente con sei o otto post) o la Storia Infinita tra Roger Waters e il resto dei Pink Floyd (leggasi anche: David Gilmour).
Quello che accomuna prima di tutto Muse e Radiohead è che sono due gruppi ancora super-attivi e che sono entrambi amatissimi.
Ma i Muse copiano i Radiohead?
Secondo me no, ed è anche semplice capire il perché.
I disco che fu per primo incriminato fu chiaramente “Showbiz” dei Muse, disco d’esordio del 1999, bollato come copia-incolla del ben più famoso “The Bends” dei Radiohead del 1995, uscito la bellezza di quattro anni prima.
Che un gruppo degli anni ’90, giovane, con ottimi gusti musicali, ascoltasse e assimilasse i Radiohead ci può stare. Definire però “Showbiz” solo alla luce di questo sarebbe riduttivo, oppure sarebbe addirittura un errore di sopravvalutazione del prodotto. Riduttivo perché di tutto si può incolpare la band di Bellamy tranne che di spudorata copia! Le influenze che caratterizzano “Showbiz”, come tutte quelle che caratterizzano i dischi d’esordio, sono figlie del loro tempo, i rimandi a tutto il rock alternativo sono tanti, di certo non aiuta la voce di Bellamy stesso (simile a quella di Yorke) ma non credo si sia fatto operare le corde vocali per entrare in una cover band dei Radiohead. La sopravvalutazione scatta nel momento in cui ci rendiamo conto che “The Bends” è un lavoro dove i Radiohead dimostrano di aver già le idee molto chiare, al contrario “Showbiz” è un album ancora pieno di ingenuità.
È davvero difficile trovare dischi d’esordio senza impronte musicali derivate direttamente dai gusti della band, compreso il disco d’esordio dei Radiohead: “Pablo Honey”. In questo album i Radiohead affrontano tanta roba alternativa, gli Smiths, i Talking Heads, addirittura gli U2, e se qualcuno suggerisce pure i Krafwerk non deve certo vergognarsi. Non solo le influenze ci sono ma sopratutto si sentono! La differenza è che i Radiohead sì sono sensibili ai movimenti alternativi e anche al grunge, ma protendono inconsapevolmente verso lo sperimentalismo, anche se mai a livelli memorabili, che può essere sia sviluppo che negazione di questi stessi generi musicali (come poi sarà).
Esempi di dischi d’esordio quasi senza legami col passato più vicino sono eccezioni molto particolari, come può essere se vogliamo proprio fare un esempio “Irrlicht” di Klaus Schulze, ma l’originalità è da ravvedersi solo sotto certi aspetti tecnici.
Ancora più difficile trovare in “Showbiz” dei veri e propri copia-incolla con “The Bends”, i quali oltretutto risulterebbero alquanto anacronistici nel momento in cui già nel ’97 i Radiohead compivano una svolta epocale per la musica commerciale con il successo mondiale di “Ok Computer”, mentre nel ’99 i Muse stavano ancora plasmando la loro musica basandosi sugli ultimi Sonic Youth e non avevano ancora assimilato del tutto le ripercussioni storiche di “The Bends”.
Inoltre col passare degli anni le scelte fatte da questi due gruppi sono semplicemente inconciliabili, sia per quello che concerne la tecnica e il sound, che più profondamente un approccio concettuale alla mondo musicale a 360°, che ha contraddistinto nettamente il lavoro dei Radiohead rispetto ad una maggiore superficialità dei Muse, sempre più relegati nell’etichetta di band-spettacolo.
Prendiamo in esame l’anno di svolta dei Muse, il 2003, quando pubblicano “Absolution” e varcano la soglia definitiva del successo mondiale, in quello stesso anno i Radiohead tireranno fuori dal cappello un disco di cui si è molto parlato come “Hail To The Thief“.
Proviamo a contestualizzare i Muse del 2003: ben due anni dopo l’ultimo lavoro la band sforna un disco ben lontano da qualunque infiltrazione dei vicini album dei Radiohead, anzi trovano finalmente una loro dimensione sonora. Magari l’ossessiva ricerca di wall of sound bestiali per spaventare la gente nelle live e le spinte prog (molto semplificate) non sono obiettivamente il massimo (oddio, concordo con Onda Rock! Vi prego lapidatemi!), ma alla fin fine il disco suona bene e appare come un lavoro ben pensato, organico e tutt’altro che scontato. Il tema è quello dell’apocalisse e più in generale della morte. La presenza di parti orchestrali potrebbe stupire, se non pensiamo però al fatto che i Muse devono tanto alla musica classica e devono ancora di più alla musica per film (con cui riempiranno di citazioni dischi e live successive fino ad oggi). I testi sono una summa del peggior complottismo made in U.S.A., tragici.
Nel 2003 i Radiohead si scontrano per la prima volta con la realtà informatica, a causa di una fuga incontrollata di mp3 provenienti proprio dalla lavorazione di “Hail To The Thief”. Secondo molti il sesto disco della band non è esattamente l’apice del loro lavoro, anzi: è una brutta copia di “Ok Computer”. Chiaramente non è così semplice, il disco esce con qualche problema è vero, ma di certo non si può dire che sia una sorta di riempitivo in un momento di vuoto creativo. La critica portata avanti da Yorke e company in “Hail To The Thief” è fortemente politica, con continui richiami alla situazione americana, un rigurgito della più famosa band inglese contemporanea che di certo non era facile da tradurre in pezzi sperimentali alla “Amnesiac” o alla “Kid A”. Questo disco ha quindi un valore concettuale prima ancora che musicale, concetti che vengono comunque tradotti in una musica decente, molto più consapevole di quella in “Ok Computer” e molto più diretta nell’esplicazione di un malessere materiale e tragicamente contemporaneo.
È dunque chiaro che sia gli intenti che l’approccio al rock nelle due band siano palesemente incompatibili e i loro sviluppi successivi lo confermano sempre di più.
Insomma: una questione assolutamente inesistente, dovuta principalmente alla feroce schiera di fan che contraddistingue i due complessi rock più seguiti (e forse sopravvalutati) al mondo.
Almeno per ora.