Al primo ascolto credevo fosse uno scherzo. Macché, è tutto vero, hanno pure una pagina bandcamp.
The Shady Greys sono praticamente i White Stripes in salsa olandese. In realtà sono proprio i White Stripes. Uguali. Lui (Marcus Hayes) ha una voce che negli acuti spaventa per la somiglianza con White III, lei (Catherine Coutoux) l’unica differenza con Meg è che non ha quasi mai una batteria, ma i ritmi “ricercati” sono quelli.
C’è solo un piccolo problema, Hayes non è Jack White né mai lo sarà, ovviamente se mettesse sù una cover band con Catherine sarebbero la più verosimile cover band mai esistita, ma è ancora un po’ poco per definirsi dei rocker decenti.
Non fraintendetemi, il sound è quello giusto, certi riff sono davvero piacevoli e tutto il resto, questo “Let her go, Let her go, God bless her” non è da buttare così a piè pari, però non posso fare a meno di chiedermi se Hayes non sia capace di fare qualcos’altro a parte il verso ai primi tre album dei White Stripes?
Cosa dire di Me Me Me? Bel pezzo, se fosse uscito prima del 1997 forse era anche meglio. Lungi da me definire il garage rock di matrice blues anacronistico, ma certi topos se non li rinfreschi un po’ sanno solo di revival. E il revival avrebbe anche rotto i così-detti. Dopo Dirtbombs, Oblivians e White Stripes o ti evolvi o muori.
Ma anche Lightyears non è male, meglio ancora See you like I do, però cacchio è tutta roba già sentita e risentita. Dal vivo fanno anche una porca figura, però un album così mentre a giro c’è la darkgaze o le L.A. Witch mi sembra molto debole.
Questi due olandesi hanno davvero delle grandi potenzialità, è evidente, però sono ancora lontanissimi dal poterle esprimere compiutamente.
Ah, fra l’altro, che cazzo li fate a fare i pezzi da tre o quattro minuti? Due e mezzo e via, belli brevi e assassini, se no perdi anche l’effetto di un buon riff.
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2007-2010: GLI ULTIMI RUMORI
Dopo aver lasciato la V2 Records con un pugno di mosche ecco arrivare in scivolata la Warner Bros. Records, con tanti milioni che rischiano di dare alla testa al buon vecchio White.
Ci sono voluti 10 anni per arrivare al sesto e ultimo album dei White Stripes, di gran lunga il peggiore della loro fortunata discografia. “Icky Thump” (2007) esce sia per CD che per vinile, ma con delle leggere differenze tra i due prodotti (fatto che stranamente non segnala mai nessuno) nella registrazione della title track e di Rag And Bone.
Icky Thump è un bel pezzo rock con le influenze messicane che sporadicamente segnano questo album, diviso a metà tra sperimentazione e folk. Segue una You Don’t Know What Love Is (You Just Do As You’re Told) con un bel riffone ma senza rabbia, di maniera.
La parte centrale dell’album, che comprende l’ultimo pezzo del lato A del primo LP e tutto il lato B è una debacle senza precedenti. 300 M.P.H. Torrential Outpour Blues (il peggior blues della premiata ditta), Conquest (una vergogna senza precedenti), Prickly Thorn, but Sweetly Worn e St. Andrew (This Battle is in the Air) (due pezzi folk senz’anima) sono il punto più basso della loro discografia, di questa parte si salva solo il Bone Broke, un pezzo comunque troppo lungo. Con il riff di Bone Broke i vecchi Stripes ci avrebbero fatto un pezzo punk da due minuti scarsi.
Little Cream Soda dimostra che il successo non intacca la voglia di sperimentare diWhite, peccato che la carica sperimentale non sia alla pari con la qualità.
Rag And Bone è uno dei pochi picchi di quest’album (nell’edizione in vinile è cantata solo da Jack) e dà anche l’inizio all’album vero e proprio. Sì perché quello che è successo prima era probabilmente frutto di qualche goliardata alcolica in fase di produzione. Spero.
Infatti il secondo LP si rivela decisamente il migliore contenendo due tra gli episodi più felici dei White Stripes, ovvero: I’m Slowly Turning Into You e Catch Hell Blues. La prima è l’unico pezzo dell’album che coniuga la spinta innovativa nel sound con il garage delle origini, il giro di organo, l’assolo distorto, la voce mefistofelica di White, tutto è perfettamente calibrato. Catch Hell Blues è invece l’ultimo grandissimo pezzo blues della band, figlio di I Fought Piranhas e Instinct Blues ma ben incastonato nel sound complessivo di “Icky Thump”, una perla.
A Martyr For My Love For You potrebbe benissimo comparire nella tracklist del secondo album dei The Raconteurs (che uscirà l’anno dopo) mentre Effect And Cause è il classico pezzo acustico a concludere l’album, l’unico pezzo folk degno di questo nome di tutto il disco.
Ma a parte quella merda stratosferica di Conquest‘ndo stanno le mitiche cover? E c’è da chiederlo? Ma ovviamente una è presente nella versione giapponese (sigh!) ed è Baby Brother di Vern Orr, ovviamente da spezzare il fiato, mentre nella versione per iTunes (doppio sigh!) ci sono sia Baby Brother che Tennessee Border del grandissimo Hank Williams. Cosa non fa fare il denaro…
È del 2008 la collaborazione con Alicia Keys.Another Way To Die è pezzo forte del nuovo “007: Quantum of Solace” (diretto da un un mediocre Marc Forster).
Nel 2008 Jack White e Brendan Benson presentano al mondo “Consolers of the Lonely” secondo e finora ultimo album dei The Raconteurs, un album che regna supremo su tutta la produzione indie di quell’anno, più ispirato del primo ma a tratti fin troppo ricercato e rifinito, il prodotto fin qui più commerciale di Jack White.
Il riff facile e appetibile di Salute Your Solution, l’indie pop da classifica di These Stones Will Shout, il garage pop di Five On The Five, il rock da stadio di Hold Up (con tanto di ritornello da cantare a ritmo con le braccia tese verso la band), la progressione banale al piano di You Don’t Understand Me,sono i punti meno interessanti dell’album. Per carità, c’è sempre quello straordinario talento nel creare melodie già sentito in passato, ma ormai lo stupore lascia spazio alla banalità.
I pezzi decenti sono la title track che coniuga bene il riff garage al indie rock da Coachella o Lollapalooza, Old Enough è un pezzo che sembra rubato al primo album (anche se senza quella punta malcelata di malinconia perde tantissimo), Attention è un pop rock energico e ben costruito.
I pezzi forti sono l’inaspettata cover di Rich Kid Blues direttamente da “Terry Reid” (1969), secondo album di (pensa un po’) Terry Reid, conosciuto perlopiù per aver rinunciato al ruolo di cantante sia nei Led Zeppelin che nei Deep Purple, mentre la conclusiva Carolina Drama è il classico pezzo acustico con cui White ama concludere in questo periodo i suoi album.
Dopo aver interpretato brevemente Elvis nel divertentissimo e brillante “Walk Hard: La storia di Dewey Cox” (davvero brevemente), nel 2009 si cimenta nel super-progetto: The Dead Weather.
Alison Mosshart alla voce (The Kills), Dean Fertita alla chitarra (Queens of the Stone Age), Jack Laurence di nuovo al basso (Greenhornes, Blanche, The Raconteurs) e Jack White alla batteria (il suo primo amore). Insieme formano il classico super-gruppo e come il 99% dei super-gruppi propone un musica auto-celebrativa del tutto inutile.
Il lato A di “Horehound” bene o male tiene. 60 Feet Tall è di rara piattezza, Hang You From The Hevens uguale, I Cut Like A Buffalo già meglio, So Far From Your Weapon tiene il passo e si migliora un po’, Treat Me Like Your Mother è garage mascherato (era meglio lasciarlo nudo) dopo di che il nulla.
Si salva la cover di New Pony di Bob Dylan, ed è la peggiore di tutte le cover prodotte da Jack White.
Che dire, un progetto inutile tranne per le tasche dei diretti interessati, sorretto solo dalla spasmodica passione dei fan di Jack White. Il secondo album, “Sea Of Cowards” (2010) timidamente definito “superiore al precedente” dalla critica che, quasi all’unanimità, non se l’è sentita di stroncare un album con il Profeta Jack White, in tutta sincerità fa cacare come il precedente. Dura giusto una mezz’oretta, hanno capito che la cosa migliore e far felici i fan di White e delle volte sembra di sentire i Raconteurs sperimentali. Terribile.
2012-oggi: UN CHITARRISTA QUALUNQUE
Tra collaborazioni, TV e apparizioni varie avevo perso di vista Jack White così tanto da aver quasi del tutto ignorato ad aprile del 2012 l’uscita di “Blunderbuss” il suo primo disco solista.
Era agosto ed ero ad Atene, stavo facendo un interrail che percorreva tutto l’est Europa, e ogni volta che potevo fermarmi a comprare qualche album lo facevo. A prezzi stracciati ho acquistato vinili stupendi, dai Rare Bird ai Cracker, passando per Ian Dury e Joe Cocker. Arrivato ad Atene finisco in questo piccolo negozio dove stavo valutando l’acquisto di un “Safe & Milk” ristampato quando la mia attenzione si focalizza su un tizio blu su una copertina blu. Jack White? Beh, perché no?
Sostanzialmente i White Stripes sono stati la colonna sonora dei miei anni al liceo, e sebbene gli ultimi album di Jack mi avessero fatto abbondantemente cacare l’idea di un Jack White che lascia perdere le super band e l’indie rock non poteva che attizzarmi.
Che dire di “Blunderbuss”? Un disco più che sufficiente, considerando che dal 2007 mancavano all’arco di Jack delle vere frecce da scoccare, qui qualcosa c’è, ma niente da far strappare i vestiti e uscire nudi, urlando, sotto la pioggia. Sebbene il talento melodico sia tornato più forte che mai e l’indie popdi ‘sto cazzo e andato a farsi fottere assieme alla sperimentazione intorno alla merda dei Dead Weather, questo è un album debole e che segna la fine di Jack White come uno dei protagonisti della scena rock mondiale.
Notevole Missing Pieces, scorre che è una meraviglia, mentre è nostalgica del garage punk di un tempo Sixteen Saltines (anche se molto più vicina ai Raconteurs o a “Icky Thump” che a “De Stijl”), irresistibile Freedom At 21.
A vederlo non si direbbe mai, ma Jack White è invecchiato e parecchio. Posato, riflessivo, esterofilo fino all’impossibile, basta ascoltarsi Love Interruption, Blunderbuss, Hypocritical Kiss, Hip (Eponymous) Poor Boy, Take Me With You When You Go e On And On And On per capirlo.
DiscreteI’m Shakin’ e I Guess I Should Go To Sleep.
Una volta persa la furia giovanile Jack White si è immediatamente posato sugli allori. Si può essere immuni al fascino del denaro e del successo, ma non lo si può essere all’età.
Sta per uscire il nuovo album che, temo, non comprerò. Su internet potete trovare i nuovi singoli che presentano “Lazaretto”, ascoltandoli non posso che dedurre che sarà un lavoro nettamente inferiore al sufficiente “Blunderbuss”, ma di certo non vale l’acquisto con tutta la roba che c’è a giro.
L’impatto di Jack White sul rock è stato deciso e limitato. Si è imposto subito per creatività, fruibilità e le vendite spropositate, non si può di certo dire che il suo peso storico sia notevole. Il garage rock dei White Stripes non ha mosso eccessivamente le acque, ad oggi i gruppi garage (principalmente della scena californiana) hanno altri punti di riferimento, piuttosto che rifarsi al blues del Delta preferiscono la psichedelia e lo space rock, niente Son House insomma, ma tanti Hawkwind e Blue Cheer.
Oltre ade averci regalato tre album garage di rara potenza (“The White Stripes”, “De Stijl”, “White Blood Cells”) e un album rock monumentale come non se ne vedevano dagli anni ’70 (“Elephant”) Jack White non ha dato altro. Non che sia poco, anzi, è stato uno degli ultimi rocker degni di questo nome, e i White Stripes la miglior band rock del post-Nirvana (nel mainstream ovviamente), ma di seminale non c’è stato niente o niente è ancora fiorito, sta di fatto che ad oggi le band più influenti nel garage rock (Thee Oh Sees, Crystal Stilts, Ty Segall e compagnia cantante) hanno già bellamente dimenticato i White Stripes.
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2003-2004: IL PROFETA DALLA FREDDA MONTAGNA
Dopo l’esperienza del terzo album e l’esibizione folgorante al David Letterman Show, arrivano contratti decisamente più vantaggiosi e con la tanta voglia di stupire Jack White mette mano a due progetti ambiziosi, la già citata Third Man Records e sempre nel 2001 pubblica “Sympathetic Sounds of Detroit” una collection in cui White dona maggiore visibilità al garage rock di Detroit tirando fuori nomi come The Hentchmen (avete mai ascoltato di loro Beat That da “Three Times Infinity”?), The Detroit Cobras (autori dell’ottimo “Baby” del 2005), The Von Bondies, i Come Ons e altri.
Ma è il 2003 l’anno in cui Jack White diventa, almeno per i mass media, il nuovo profeta del rock.
Il suo apporto alla colonna sonora del film di successo “Ritorno a Cold Mountain” (dove recita, altra sua passione finora espressa solo a sprazzi) lo lancia come star a tutto tondo, è amato dai presentatori e dal pubblico statunitense, il gossip attorno a lui arriva a livelli da VIP di Hollywood. Tanto per capire come delle volte le note biografiche servano solo a riempire le pagine di recensioni altrimenti vuote e banali tutti questi fatti non hanno alcuna influenza in “Elephant”, quarto e acclamatissimo album della premiata ditta Jack&Meg.
Anche qui c’è poco da dire, ormai Jack conosce il mestiere, anche se qualche scivolone stavolta si fa sentire. Soporifera You’ve Got Her in Your Pocket, opulenta e ripiena di effetti del tutto inutili There’s No Home For You Here (peccato perché il pezzo è una bomba), un po’ troppo ammiccante The Hardest Button to Button, sebbene il testo mi spezzi e il riff mi piaccia è davvero una traccia un po’ troppo scritta a tavolino. Detto questo per il resto l’album contiene i soliti pezzi da paura, riff micidiali e qualche idea davvero notevole.
La parte che preferisco è certamente il trittico punk: Hypnotize, The Air Near My Finger e Girl, You Have No Faith In Medicine. Tre pezzi che valgono da soli l’acquisto. Poi ci sono i riff di Seven Nation Army, Black Math, il blues esaltante di Ball and Biscuit, fino ad alcune perle fuori dagli schemi come la minimale In The Cold, Cold, Night cantata da Meg, la folle e potente Little Acorns, la cover ancora una volta definitiva di un classico di Burt Bacharach (!) I Just Don’t Know What to Do with Myself, supportata da uno dei pochi video musicali che ho davvero apprezzato fino in fondo. Per la seconda volta si conclude l’album con un pezzo acustico (It’s True That We Love One Another, ambiguo e bellissimo) cantato da Jack, Meg e Holly Golightly, che non chi sia e mi sta alquanto fatica cercare.
Tra le altre cose al duo di Detroit capita pure di partecipare al cult movie “Coffee and Cigarettes” di Jim Jarmusch, il corto a loro dedicato è inferiore solo a quello della coppia Iggy Pop–Tom Waits.
Nel 2004 esce finalmente un DVD che porta nelle case degli hipster e dei garagisti le prodezze live di questa band, “Under Blackpool Lights”, e con il DVD arrivano nuove cover spezza-fiato. Pesca ancora dalla foce del Delta Jack White con Leadbelly (Take a Wiff on Me, De Ballit of de Boll Weevil quest’ultima a chiudere il concerto), c’è una Outlaw Blues di dylaniana memoria, un giusto tributo al grandissimo Screaming Lord Sutch (anche se qui la cover definitiva di Jack the Ripper è dei Fuzztones) e l’altrimenti introvabile cover di Jolene di Dolly Parton.
Jack dal vivo tramuta e distorce le sue stesse creazioni, rallentandole o velocizzandole, suonandole con la pianola piuttosto che con la chitarra o viceversa, ma sopratutto fa un casino memorabile.
Sempre nel 2004 escono i già citati “The Legendary Lost Tapes”, con chicche del calibro di una Ain’t Superstitious suonata nei The Upholsterers, inediti degli Stripes live come Little Red Book, One & Two, House Of The Rising Sun e una tragica versione funk di Seven Nation Army. Da avere solo per i completisti, altrimenti è una roba assai inutile.
Nel 2005 invece succede di tutto, dalla nascita dei The Raconteurs alla sperimentazione d’avanguardia. E non son mica tutte rose e fiori.
2005-2006: “LUNGI DA ME, SATANA” (MATTEO 16,23)
“Get Behind Me Satan” è solo la punta dell’iceberg, e per uno che comincia sempre i ringraziamenti negli album con “thank you to: God, family, etc.” non c’è da stupirsi se al quinto album ti cita in copertina il Vangelo, è pur sempre un dannato bluesman. Ma come un vero profeta Jack White non si dà pace e pubblica ben due album in un anno.
Il 16 Maggio esce “Broken Boy Soldiers” album di debutto per i The Raconteurs, la sua nuova creatura che unisce il tiepido Brendan Benson (chitarra, seconda voce) ai garagisti di vecchia data Jack Lawrence (il bassista più hipster della storia del rock) e Patrick Keeler (batteria).
Un passo avanti e due indietro questo debutto, non tanto per la qualità musicale che resta piuttosto alta, risulta piuttosto difficile trovare dei difetti in “Broken Boy Soldiers”, i pezzi sono tutti ben costruiti e suonati, persino il video di Steady, As She Goè girato da Jim Jarmusch! Ma senza la vena mefistofelica che contraddistingue il blues di White (in parte rilegato a Blue Veins) o la furia garage, quel che resta è davvero poco.
Intendiamoci bene: Jack White non ha scritto capolavori della musica rock, non ha distrutto stilemi né inventato nulla, la sua caratura si misura in termini di sound, stile, melodia, genio creativo, ma mai di concetto. Una volta che al garage rock sporco e furioso di “The White Stripes” e “De Stijl” si sostituisce l’indie rock di “Broken Boy Soldier” ne guadagnano l’immediatezza e la fruibilità, ma si perde la forza e la potenza di pezzi allucinanti come The Big Three Killed My Baby, Astro, When I Hear My Name e via dicendo.
Il garage trasognato di Hands, la psichedelia velatissima di Boy Broken Soldiers, l’indie spinto di Intimate Secretary sono tutte ottime idee ben realizzate, con un velo di malinconia latente estraniante (e che purtroppo scomparirà nel secondo album della band), sottolineato in Together.
Level è chiaramente il momento più alto dell’album, un riff spaziale e una struttura che si presta di brutto alle variazioni live del nostro. Store Bought Bones è un misto fritto di prog e glam rock, piacevole tutto sommato. Yellow Sun e Call It A Day proseguono la linea indie rock malinconica che caratterizza l’album. Chiude un blues quieto, lontanissimo da quello di una Suzy Lee o di Little Bird, è Blue Veins che solitamente chiude i loro concerti.
Il 29 Marzo esce “Guero” la nona fatica di Beck (tra le meno apprezzate dalla critica) in cui White compare suonando il basso (!) in Go It Alone.
A Giugno esce “Get Behind Me Satan”, quinta fatica dei White Stripes. Se con i Raconteurs Jack dà sfogo ad un indie più spensierato e manierista con il suo quinto album assieme alla ex moglie sputa fuori il suo inferno interiore.
Nettamente inferiore a qualsiasi album precedente, Get Me si sviluppa almeno in modo originale, lasciando al garage rock un ruolo di comprimario e lasciando scorrere il country, il blues e il twist.
L’opening, celebre, con quella Blue Orchid esageratamente MTV-style, è una falsa partenza, l’album comincia con le note di marimba di The Nurse, le rapide incursioni di pianoforte e chitarra garage che la destrutturano la rendono il pezzo forte di questo album.
Il genio melodico viene fuori con la scanzonata My Dorbell, il country con Little Ghost, il twist si presenta con la frizzante The Denial Twist, un po’ deboli le note sdolcinati di Forever For Her (Is Over For Me) e la poco ispirata White Moon.
Il blues mefistofelico (che poi è quello che ci piace di questo residuo di Delta Blues vivente) fa la sua gloriosa comparsa con una micidialeInstinct Blues, e di colpo si ritorna ai White Stripes di “Elephant”. La sensazione permane decisamente nel divertissement con Meg protagonista: Passive Manipulation, per poi rilassarsi con Take, Take, Take ennesima prova delle innate qualità melodiche di White. Inutile invece l’acustica As Ugly As I Seem.
È ancora una volta il blues a far soffrire le casse, Red Rain con i suoi riff diabolici e l’incedere esoterico della batteria è il terzo picco di questo album dopo The Nurse e Instinct Blues. Chiude una I’m Lonely (But I Ain’t That Lonely That) inadeguata per la voce acuta e spezzata di Jack White, forse per taluni è proprio questo che la rende unica, a me sembra solo un bel pezzo cantato con difficoltà.
Da segnalare la cover diWalking with a Ghost contenuta nell’omonimo EP, solo l’ultima di una serie di cover perfette.
Nell’Ottobre del 2006 esce anche l’indecifrabile “Aluminium”, progetto di musica d’avanguardia che vede Richard Russell (tizio della XL) e Joby Talbot (compositore) accompagnati da un’orchestra rivisitare alcuni dei successi dei White Stripes. Personalmente l’ho trovato assai indecente, ma Jack White stesso ha appoggiato il progetto che è poi sfociato in uno spettacolo a Londra. L’album è quasi introvabile (a causa della sua tiratura limitata), ma su eBay se ne trovano ancora delle copie. Se potete evitatelo.
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Tra i musicisti più conosciuti e apprezzati al mondo, John Anthony Gillis (aka Jack White III) ci piace perché oltre tutte quelle puttanate da marketing spicciolo (vestirsi di bianco rosso e nero indossando una chitarra bianca rossa e nera su un palco bianco rosso e nero e ora vomito) è un tipo vero, autentico, che aveva qualcosa da dire.
Sia chiaro fin da subito che se volete sapere vita, morte e resurrezioni varie di questo chitarrista di Detroit vi comprate una biografia o vi spulciate Wikipedia. Delle note biografiche a me frega un cazzo. Bene.
1990-1999: I PRIMI RUMORI
Tra il 1990 e il 2000 Jack White comincia a dimenarsi tra diverse band tutte inerenti il suo principale interesse: il garage rock. Sebbene le note e più volte ribadite dallo stesso origini da puro bluesman, non c’è mai stata una band in cui White non producesse del dannato rumore con chitarre di seconda mano e registrazioni malandate, puro garage rock d’antan. Mischiando quel buon vecchio blues allo scalmanato garage delle giovani band di Detroit in cui suonava, comincia a sviluppare le sue caratteristiche come chitarrista, riff semplici ma efficaci, strutture basilari quando non banali, volume altissimo e un’energia da paura.
Tra Goober & the Peas, The Go, Two-Star Tabernacle e The Upholsterers Jack White comincia a farsi le ossa, intanto tutti gli input che band come The Dirtbombs stavano distribuendo a giro con i loro graffianti album vengono ben accolti nella città degli MC5 e degli Stooges.
Tra tutte queste esperienze nel 1997 comincia anche quella dei The White Stripes. Come tutte le cose notevoli nel rock si comincia per gioco, Meg alla batteria si limita a tenere un ritmo mentre Jack può ricamarci sù con tutta la sua creatività. Non c’è alcun dubbio su chi sia la mente della band, ma sopratutto non c’è dubbio su quali siano i meriti di Jack White e cosa abbia portato al rock. Tecnicamente niente, ma la sua mente ha creato alcuni dei riff più potenti e sorprendenti degli anni ’10 del 2000.
Sebbene il progetto in duo The Upholsterers (unico album pubblicato: “Makers Of High Grade Suites”, 2000)sia la più famosa delle collaborazioni di White prima dei White Stripes, anche grazie alla citazione contenuta in “It Might Get Loud” il documentario di Davis Guggenheim del 2008, con tanto di storiella sul suo lavoro di tappezziere e menate varie, certamente la band più importante per il suo sviluppo sono stati i Two-Star Tabernacle in compagnia di Dan John Miller dei Blanche (band dove al banjo militava un certo Jack Laurence). Un po’ country, un po’ blues e un po’ garage, ma soprattutto tante idee buttate qua e là dal nostro raccolti in due bootleg: “Live At Gold Dollar Set List” (1998) e “Live At Paychecks Set List” (1999).
Se nei The Upholsterers c’era molto del sound degli Stripes nei Two-Star Tabernacle ci sono le prime idee: Hotel Yorba, Now Mary e Who’s To Say (scritta in collaborazione con Dan John Miller) sono tre indistinte perle che prospettano solo in parte l’esplosione del genio creativo. C’è già il rumore, la distorsione, l’unica è la batteria non ancora minimale anche se il twist di Damian Lang che di solito si scatena nei suoi Detroit Cobra è qui del tutto asservito alle grette ritmiche garage.
Un po’ di Son House, un po’ di Oblivians e un pizzico di Captain Beefheart, dopo una serie di b-sides che verrano ripescati solamente nel 2004 in “The Legendary Lost Tapes”, arriva nel 1999 “The White Stripes”, un debutto col botto.
1999-2000: DA CAPTAIN BEEFHEART A MTV C’È UN PASSO
Avevo già parlato di questo album in una recensione, le cose da dire sono poche ma essenziali per capire non solo il perché questo sia il miglior album di Jack White in assoluto, ma anche come questo sia uno degli album “più rock” degli ultimi 20 anni.
Le idee sono poche e riciclate, i riff minimali e l’uso della batteria al limite del ridicolo, ma l’energia e la facilità con cui White inventa o reinventa riff della Madonna ha dell’incredibile. Dall’esplosività (manco a dirlo) di Jimmy The Exploder al blues distorto e mefistofelico di Suzy Lee a delle cover pazzesche. La versione di White di Stop Breaking Down di Robert Johnson rende quella dei Rolling Stones quanto meno inadeguata, One More Cup Of Coffee di Bob Dylan è l’unica cover di Dylan che non soffre di sudditanza verso il Maestro, lo standard blues St. James Infirmary trova in questo album la sua più alta interpretazione. Già questo basterebbe a renderlo un album notevole.
C’è il garage ignorante e cattivo di Cannon,Astro, When I Hear My Name, Broken Bricks e Little People, i riff devastanti di The Big Three Killed My Baby e Slicker Drips, e infine il solito blues (I Fought Piranhas) che grazie a Jack White torna a quel sound infernale delle origini.
L’album non conosce ancora il successo mondiale, ma già col secondo aggiusteranno il tiro.
Nel 2000 esce “De Stijl”, omaggio sia nel nome che nella copertina al grande e breve movimento artistico olandese, omaggio che forse poteva anche risparmiarsi il buon White, dato che a parte gli orpelli e l’evidente fascinazione per il design minimale di PietMondrian, Gerrit Rietveld, Van Doesburg non si va di certo in alcun modo verso il senso di questo movimento. Ma fa figo, e quindi…
Acidità a parte il secondo album dei White Stripes è una bomba, anche se meno esplosiva della precedente. Il primo lavoro era stato dedicato al leggendario Son House, questo invece ad altri due grandissimi: Blind Willie McTell e Gerrit Rietveld, il primo ovviamente uno dei massimi esponenti del Delta Blues, il secondo un designer ante-litteram del neoplasticismo (detto anche De Stijl) autore della famosissima sedia rossa e blu, oltre che architetto di importanza non indifferente.
Non mancano gemme in questo album, minore al primo solo perché non può più sfruttare quell’elemento di novità che è il carisma e il rumore di Jack White. La triade iniziale è da lasciare senza fiato, il garage rock puro e semplice di You’re Pretty Good Looking (For a Girl), la sua versione minimale (quasi a voler mimare lo stile olandese neoplastico, peccato che concettualmente ci sarebbe qualche problemino, ma lasciamo stare) nella spettacolare Hello Operator e infine il solito blues strascicato e diabolico di Little Bird.
La prima cover è di Son House, Death Letter, ed è di nuovo una cover definitiva, che porta il blues di Son House a vette fino a quel momento inesplorate.
Lo slide sporco di Sister, Do You Know My Name? e di A Boy’s Best Friend lascia il posto alla chitarra acustica di Truth Doesn’t Make A Noise, il primo vero esempio del Jack White maturo che si esprimerà al meglio con i The Raconteurs.
Si torna al garageincazzato con Let’s Build A Home, Jumble Jumble e con lo splendido riff di Why Can’t You Be Nicer to Me?. Conclude l’album una divertente cover di Blind Willie McTell, Your Southern Can Is Mine, cantata da i due membri della band.
È sempre del 2000 il 7” pubblicato dalla Sub Pop “Party of Special Things to Do” con tre ottime cover di Captain Beefheart dei nostri, tra cui China Pig tratta da “Trout Mask Replica”.
Ma è nel 2001 che i The White Stripes diventano un fenomeno mondiale, grazie alla solita MTV. La cosa interessante è che al contrario di QUALUNQUE band nella storia dell’universo ad aver sbancato con MTV gli Stripes saranno gli unici a mantenere sia la fama che la buona musica.
Sempre per la Sympathy for the Records, ma stavolta col supporto di V2, XL e sopratutto dell’etichetta di Jack White stesso, la Third Man Records, esce “White Blood Cells”. Ormai la vena garage esplode in tutto il paese, l’importanza di band come i Von Bondies e di altre ora supportate dall’etichetta di White comincia a seminare qualcosa che oggi ragazzi come Ty Segall invece non raccoglieranno come potrebbe sembrare in un primo momento. Ma del lascito di questi White Stripes parleremo più avanti.
Si ripescano Hotel Yorba e Now Mary dai Two-Star Tabernacle, si continuano a fare passi avanti verso una maturazione del sound, ma con poca creatività. Jack White comincia chiaramente a ripetersi, sebbene abbondino i riff nuovi e indimenticabili (Dead Leaves And The Dirty Ground, I’m Finding It Harder To Be A Gentleman, Aluminum, la garage-punk Fell In Love With A Girl, il rock minimale di Expecting) si aggiunge poco a quanto già detto negli album precedenti, e se adesso si comincia a scrivere canzoni più “complesse” si perde l’immediatezza di una Astro, o la potenza di The Big Three Killed My Baby. Si intuisce già questo comunque ottimo album che la propensione di White verso il pop e una canzone più appetibile alla MTV potrebbe prendere il sopravvento sul garage scomposto e minimale di questi anni.
Divertente la parentesi sessuale-minimale di Little Room, dolcissime le note di We’re Going To Be Friends, ma la perla è This Protector, Jack al piano che duetta con Meg praticamente in presa diretta su quell’otto piste che finora ha accompagnato il duo di Detroit, con errori e voci del tutto lontane dallo standard “di plastica” alla MTV.
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Dopo un mese di balli latino-americani e discoteche all’aperto con folle adoranti il Casto Divo tutti abbiamo bisogno di spurgarci con del sano rock.
O di bestemmiare, dipende dalla sensibilità.
Comunque tra una birra e l’altra ho avuto modo di ascoltare un po’ di roba a giro, tra cui questi Ipotonix.
“Storie di un mondo a-parte” oltre ad essere il titolo del loro primo EP uscito quest’anno è anche il manifesto involontario di un modo di fare rock. Sì perché il rock inteso come comunità in Italia è un po’ un tabù, così è più facile rifugiarsi in un mondo a-parte, un altrove dove i nostri suoni e le nostre passioni si esprimono sorde a tutto quello che ci circonda.
Eppure il rock è emanazione del suo tempo, dei suoi moti, delle sue speranze e anche delle sue focose e futili espressioni sociali. Cazzo, i Velvet Underground rappresentavano una intera comunità underground, gli MC5 addirittura politica, è impossibile scindere i White Stripes da Detroit come è impossibile slegare Nick Cave dalla poesia contemporanea americana.
In Italia questo è più difficile da percepire anche se con le tecnologie di cui oggi disponiamo non è più un alibi. Fin da subito abbiamo scopiazzato le impressioni musicali che ci arrivavano dagli USA attraverso l’Inghilterra (con notevole ritardo), però un minimo di contesto, diocristosantissimo, glielo vogliamo dare?
Gli Ipotonix non fanno eccezione, convergendo in sé molte caratteristiche del brit-pop/rock di ultima generazione (più Radiohead che Klaxons, più Gotye che Franz Ferdinand). Il loro primo EP è composto da impressioni che hanno il valore di essere unite da un sound ben preciso, il quale però non è contestualizzabile (porcodemonio!).
Molti sostengono che l’unicità sia un elemento positivo per l’arte, ma è chiaro che questi “molti” si drogano dalla mattina alla sera di UnoMattina e X-Factor, bevono TG1 a colazione e hanno un poster di Pippo Baudo in topless sopra il letto.
L’opera d’Arte non assume il suo valore specifico nell’unicità (nemmeno come elemento in sé, come ci insegna la Pop-art) ma nel contesto con cui dialoga. Essendo l’Arte comunicazione deve saper comunicare in un linguaggio comprensibile, o quantomeno deve contenere una chiave di lettura che ne permetta la decifrazione.
Il rock è una forma di comunicazione più bassa dell’Arte quindi i suoi elementi di lettura sono molto più limitati, essi in seguito possono anche essere spezzati e creare una diversa idea di rock, la quale però potrebbe potenzialmente rivelarsi in antitesi con il concetto di rock stesso – sì, ora la finisco di farmi le seghe.
Gli Ipotonix in questo senso non fanno rock, ma un riflesso di esso.
Se gli strumenti ci sono tutti e le strutture sono quelle manca però la forza di collante sociale o di rottura che contraddistingue questo genere che vive solo di estremi.
Il Teatro Degli Orrori propone un rock già sentito nel secondo hardcore e quindi ha perso essenzialmente il treno con il momento storico in cui quella musica aveva un motivo preciso per esistere, in pratica è una imitazione di rock.
I Fleshtones, sebbene facessero revival, lo contestualizzavano e finirono per definirsi super rock perché sapevano di aver iconizzato il rock delle origini come nessuno prima di loro aveva mai fatto.
Fare rock non è semplicemente prendere una chitarra in mano, entri all’interno di una comunità che ha una storia breve ma densa di eventi fondamentali. Puoi farne parte (Fleshtones) o anche rinnegarla (il punk) ma non puoi esprimerti a-parte, perché se no non riuscirai mai a comunicare quello che credi sia importante che gli altri ascoltino.
Ovviamente se vivessimo in un mondo dove la gente non compra quello che le major impongono sarebbe meglio, ma questo non fa che nobilitare ancora di più chi fa rock davvero, senza compromessi.
Ah, già, gli Ipotonix, la recensione, eccetera eccetera, come sono sbadato, se continuo così entro la fine dell’articolo sarò cieco.
Guidati dalla voce e dal sintetizzatore di Davide Orsi gli Ipotonix si muovo attorno ai Radiohead e ad impressioni che derivano perlopiù dal soft rock britannico degli anni ’70. Il sound a tratti ci appare in effetti un po’ ammuffito ma non così tanto da farci desiderare delle scimmie di mare per natale, il synth spazia sfiorando momenti jazz quasi alla Sun Araw o quasiindustrial alla Fuck Buttons (senza ovviamente la loro vena dark e noise), peccato che con i “quasi” non si combina poi molto.
L’EP si apre con il ritmo serrato ci City Line – Primo incontro, uno strumentale che rivisita le atmosfere del primo Mike Oldfield. Una traccia che, va detto, è piuttosto notevole per una prima demo.
Segue Reazione Chimica, un pezzo che D.Orsi ha perfezionato nel corso degli anni, qui entra in gioco la voce ma sopratutto il sax di Marco Marotta, il sound complessivo risulta come una specie di inedito brit-pop-jazz.
Supertramp non ha nulla della famosa band inglese, una accozzaglia di idee appiccicate una dopo l’altra dalle quali si esce piuttosto storditi. Il momento più basso dell’EP.
Si riprende con City Line – Secondo incontro, e della prima parte resta solo il sound perché le atmosfere si fanno più scure, richiamando ai momenti più felici di Moroder; un taglio a tratti epico, poi manierista ma senza masturbazione. City Line in realtà nasce come un pezzo unico, ma questa divisione ne accentua i cambi di tono e i diversi mood, in assoluto i due pezzi pregiati dell’EP.
Si conclude con una cover: Missing Pieces di Jack White. Stentano quasi tutti in realtà, ma le sferzate garage della chitarra di Giuseppe Taormina valgono il prezzo dell’EP (e ricordano i wall of sound dei Thee American Revolution).
Cosa ci rimane alla fine dell’ascolto?
Buona musica (City Line), buone idee (Reazione Chimica), un po’ di confusione dovuta all’inesperienza (Supertramp) ma manca l’anima, la forza sciamanica che ti fa alzare dalla sedia completamente posseduto dal demone del rock, che ti fa spaccare sedie e desiderare che ci sia ancora altra birra in frigo.
È anche vero che con queste basi si mescolasse anche un po’ di sano rock allora… beh, allora sarebbero cazzi.
Pro: per essere una band nata da così poco hanno già un bel affiatamento.
Contro: ma che genere è? Non saprei proprio a chi consigliarlo!
Pezzo consigliato: le due City Line sono un lusso per questo EP, che senza sarebbe stato anche da 3,5/10.
Voto: 5,5/10
Ultime considerazioni:
mi sembra dovuto, almeno per onestà intellettuale, farvi partecipi della mia microscopica partecipazione alla realizzazione di questo EP, avendone curato una sorta di “post-produzione” (per la quale, difatti, compaio nei ringraziamenti). Ovviamente ciò non ha in alcun modo interferito con la recensione, tanto che a Davide ne ho mandata una diversa, mentre qui ne pubblico un’altra. Che fottuto bastardo, eh?
[AGGIORNAMENTO ALLUCINANTE: in un momento di noia ho recensito l’intera discografia di Jack White, la quale contiene una versione aggiornata di questo post, se volete farvi un giro non avete che da cliccare QUI.]
Il primo disco è sempre il migliore. A volte il secondo, e a volte persino il terzo, ma dal quarto in poi sono casi davvero rarissimi. A questa statistica non si sottraggono nemmeno i White Stripes di Jack e Meg White, due nomi (d’arte) che hanno attirato attorno a sé una montagna di gossip di cui, sinceramente, non ce ne frega una benamata mazza.
Appena una band diventa famosa parte a bomba la divinizzazione della stessa, con la conseguente “fame” di gossip: di che si fa Jack White?Ma Meg se la scopa?Perché chiamarsi Jack White se poi non fai una band con Jack Black? E via discorrendo.
Peccato che la musica non c’entri un bel niente con queste idiozie. C’è da dire che è nato a Denver, il che è fondamentale per comprendere i vari perché della sua musica. White è un bianco che si sposa con il blues dei neri mischiandolo con una buona dose di garage-rock, cresciuto nella città dove poteva meglio conoscere i classici dei due generi.
Le sue prime uscite come musicista non sono certo formidabili, ma pian piano Jack inizia a trovare uno stile tutto suo, già percepibile in “Makers Of High Grade Suites“, tre pezzi registrati assieme a uno dei fratelli Muldoon dei The Muldoons, usciti soltanto nel 2000.
Probabilmente “Makers Of High Grade Suites” è il lavoro che segnerà in maniera indelebile il sound della chitarra di White nei White Stripes, suono che perderà progressivamente con i The Raconteurs, e poi con i Dead Weather(dove spesso suonava la batteria) e infine nel suo ultimo lavoro da solista, “Blunderbuss“(2012), dove riecheggia qualcosa del suo retaggio garage in Sixteen Saltines, anche se l’esecuzione è una delle più anonime del focoso chitarrista.
La voglia di spaccare i culi, comunque, sembra ormai persa. Intuibile forse già ai tempi di un suo flirt poco conosciuto con Beck in “Guero” (2005) dove suona il basso in Go It Alone con fare tragicamente blues sulla solita verve noise-intellettuale del bravo Beck. La sua attenzione per una musica meno intuitiva del garage trova la sua totale definizione in un progetto assieme a Alison Mosshart, l’eclettica cantante dei The Kills.
I Dead Weather sono stati un po’ la negazione di un percorso fin lì fatto da White. Non c’è una reale evoluzione in “Horehound” (2009) e in “Sea Of Cowards” (2010), al massimo una unione di intenti nel far convergere il sound dei Kills, dei Queens Of The Stone Age, dei The Raconteurs e dei White Stripes. Il solito super-gruppo insomma, un primo disco interessante (perché propone suoni interessanti) e un secondo noiosissimo (perché li ripropone spudoratamente).
Il dramma di White è quello di non aver trovato una valvola di sfogo ideale per la sua straordinaria creatività dopo l’esperienza degli Stripes. In generale trovo che il suo meglio lo dia proprio in quel garage-rock con tinte blues che caratterizzano i suoi lavori iniziali, piuttosto che in questa sua veste moderna di vate del rock and roll in tinta twist, che sebbene produca dei bei pezzi non hanno nemmeno l’ombra dell’energia e della potenza di dischi come “De Stijl” (2000) e “White Blood Cells” (2001).
Poi ci sono i premi, le collaborazioni, i film (abbastanza divertente il corto dove Meg e Jack interpretano se stessi) e tantissima altra roba, però per la lista della spesa esistono le biografie.
Una di cosa di cui invece proprio non mi capacito è lo schieramento netto che si è creato contro il primo disco degli Stripes (che spesso si allarga ai primi tre). Ho letto addirittura che “White Blood Cells” sarebbe un disco studiato a tavolino perché è il terzo disco di una serie di album tutti uguali (che è una spiegazione del cavolo, a questo punto gente come Zorn, Segall e Zappa vanno a farsi friggere).
Il primo disco degli Stripes risente ancora tantissimo dell’esperienza con “Makers Of High Grade Suites”, è sopratutto garage, e di certo non è così banale come lo vogliono far passare. Inoltre parlare di banale nel garage è qualcosa di talmente idiota che è difficile da categorizzare. Dai The Castaways ai The Datsuns sono cambiati gli strumenti, sono migliorate le sale di registrazione, ci sono state tantissime influenze che hanno cambiato il sound tipico di questo genere, e il garage nei primi del 2000 ad un certo punto divenne un’accozzaglia di cose spesso difficilmente definibili (con questo non voglio certo dire che è tutta merda, diosanto! Cioè, quanto amo io “Electric Sweat” dei The Mooney Suzuki pochi al mondo!).
Quello che hanno fatto gli Stripes è stato portare indietro le lancette, riportare il garage ad essere diretto, sincero e ingenuo, quando ancora i metri di paragone erano Son House e gli Stooges. Se poi prendiamo in esame proprio questi anni c’è nel garage un ritorno alle origini pazzesco, si ruba ai MC5 ma anche al primo garage di origine psichedelica, si riprendono i Rats, si riprende Kim Fowley, si riprende anche gente fuori dagli schemi come Syd Barrett!
I primi tre dischi, sputtanati dalla critica italiana, hanno anticipato di almeno cinque-sette anni questa tendenza. Ty Segall, oggi, lo dimostra abbastanza bene.
Detto questo il garage degli Stripes si esaurirà ad una velocità sorprendente, e il minimalismo voluto da Jack White verrà ripreso solo in parte, anche se credo sia una delle cose più belle mai fatte nel garage, perché unica nella sua semplicità. Alla faccia dei detrattori.
Il disco è prodotto dalla Sympathy for the Record Industry, una delle più gloriose etichette americane, che annovera talenti del calibro dei Bad Religion, dei Suicide, i Von Bondies (con i quali White ha avuto un forte diverbio tempo fa), i New York Dolls e addirittura i The Gun Club. Non male!
L’album è decisamente eterogeneo nel sound, la chitarra troneggia con riff minimali, nessuna distorsione barocca, niente assoli da undici minuti, zero virtuosismo, siamo proprio tornati alle basi, solo energia.
Jimmy The Exploder è questo ed altro. Il punto di forza di White è certamente la facilità con cui introduce riff su riff. Il ragazzo non si prodiga in copia-incolla, è piuttosto ispirato, semmai.
Consideriamo un attimo la questione della batteria di Meg. Non è Meg che suona male, Meg suona semplicemente da cani, ma è questo quello che sa fare, ed è questo quello che Jack vuole da lei. White non fa la sua musica e poi ci mette Meg, ma costruisce i pezzi partendo proprio dai suoi ritmi da “scimmione” (definizione sua, mi astengo da giudizi estetici), in pratica utilizza i ritmi di questa batteria minimale per non uscire fuori dagli schemi, si pone un auto-limite antro il quale fare esplodere la sua creatività.
Poco originale?
Va bene…
Bellissime Cannon e Astro, un paio di accordi, potenza e quella vocina straziante di Jack che urla al microfono.
I pezzi sono tutti i ottima fattura, come anche la cover di Dylan (One More Cup Of Coffee) e l’ennesima versione del classico blues St. James Infirmary, che, udite udite, trova in questo disco degli Stripes la sua consacrazione, almeno per me (mi fa tremare le budella, che ci posso fare?).
Il disco si chiude con la luciferina I Fought Piranhas, bellissima prova di slide e potenza.
C’è poco da dire su questo disco, ma molto da ascoltare.
Magari stavolta con un po’ più di umiltà.
Pro: garage non purissimo, un ritorno alle origini del genere nelle sue venature più blues.
Contro: troppo leggero. Sebbene ci siano delle sferzate anche importanti, pezzi come When I Hear My Name sono potenzialmente delle bombe, ed invece sembra che White preferisca la versione light.
Pezzo Consigliato: amo Astro. Lo so che ho qualcosa di sbagliato dentro, ma sono fatto così!
Voto: 7/10
[approfitto degli Stripes per informarvi che ho un nuovo blog (ancora???) di recensioni cinematografiche, Alla Ricerca Del Bellerofonte]