Archivi tag: John Cale

Kamikaze Palm Tree – Good Boy

Etichetta: MUDDGUTS
Paese: USA
Pubblicazione: 2019

Dylan Hadley fa parte di quel giro magico che ha ridestato interesse nel rock underground, ovvero White Fence, Mikal Cronin, Ty Segall e tutta la banda. In un’intervista per KEXP John Dwyer ha raccontato della fantastica impressione che gli fece la Hadley come cantante e batterista per la sua band, i Kamikaze Palm Tree, probabilmente una delle realtà più divertenti del panorama rock mondiale – eppure ancora semi-sconosciute.

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John Cale – Fear

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Etichetta: Island Records
Paese: UK
Pubblicazione: 1974

You know it makes sense
Don’t even think about it
Life and death
Are things you do when your bored

Che un album rock cominci con un bell’accordo di pianoforte non è certo una roba inusuale, anzi, è un elemento che ha caratterizzato in parte le origini del genere, ma se la chitarra elettrica possiede nell’immaginario collettivo un ruolo leader nel sound rockettaro è certamente dovuto a quel calderone lisergico che furono gli anni ’60. Il pianoforte tornerà ad infuocare i solchi di plastica nera in modo massiccio negli anni ’70, ma se per gli americani il piano era rimembranza di personaggi come Little Richards, Jerry Lee Lewis, Memphis Slim (e tanti altri) in Europa non potevi mica prescindere da Chopin! Il pianoforte, come l’uso degli archi o dell’orchestra, era un tassello per la legittimazione culturale del rock in Europa, quasi mai pestato e vituperato, semmai coccolato da mani consapevoli, fresche di studi classicisti – con tutte le eccezioni del caso che sicuramente non mancherete di segnalarmi.

Le naturali forme di resistenza a questa delle volte eccessiva deriva “classicista” (ben rappresentate dal prog e da certo hard rock) c’erano eccome ovviamente, ma alcuni artisti più sensibili di altri riuscirono in questo contesto a creare opere che sostenevano entrambe le istanze senza contraddirsi. John Cale forse è quello che ne è uscito meglio, o quanto meno che ha saputo trovare un punto di contatto originale, ben invecchiato come un buon Dà Mhìle.

Seduto su questa panchina fredda in attesa del treno in italico ritardo, pensando ad un album degli anni ’70 con un iconico accordo di piano, mi sale sù per il cervelletto “Hunky Dory” di David Bowie. Changes è un pezzo gioviale, scevro dalle tensioni erotico-fantascientifiche successive, coacervo di intuizioni che seguono le nuove tensioni melò nel pop. Cale invece principia il suo album con un piglio storto e ambiguo, senza il taglio wagneriano di certo prog né con cadenza di fiaba, Fear Is a Man’s Best Friend ti scaraventa in faccia i Velvet Underground (Standing waiting for the man to come) e lo fa con uno stile tra il poppettaro e il Bernard Herrmann di Taxi Driver.

Il pianoforte, suonato con trascinante minimalismo, viene disturbato da una chitarra elettrica nevrotica, a destra compare un basso dal suono netto e pieno che verso l’irrequieto finale dialoga disperatamente con la voce quasi strozzata di Cale. Per quanto sia trascinate l’idea melodica di base, Cale inserisce consapevolmente delle interferenze alla piacevolezza totale, lasciando con pochi ma sostanziali accorgimenti un senso di disagio ed incompletezza su cui si regge l’intero impianto dell’album.

L’apporto di Brian Eno è evidente e fondamentale, la cura della timbrica è sofisticatissima, i suoni dei singoli strumenti catturano l’attenzione del nostro orecchio traghettandolo in direzioni contrapposte all’appeal della canzone. Questo si nota in maniera ancor più drastica in Barracuda. L’estetica surf e reggae si mescolano al kraut in un lavoro di sottrazione, le liriche di Cale sembrano volersi lanciare nel tentativo di definire gli stilemi di una hit estiva pre-apocalittica. Detta così sembra una roba pesantissima da Effervescente Brioschi, me ne rendo conto, ma fare blogging nel 2019 vuol dire anche questo, se ci pensate bene è un diritto di tutti supercazzolare liberamente, basta che il limite della tua supercazzola non travalichi la mia supercazzola, altrimenti sono cazzole.

Non è un album perfetto “Fear”, tutt’altro, ma nei suoi difetti più evidenti (come in certe ballate molto prevedibili) trova comunque un equilibrio estetico che rende piacevole l’ascolto a rotta di collo. Un po’ come se fosse uno di quei film in cui di tanto in tanto cala di tensione e ci si perde in dialoghi poco incisivi, ma qualcosa di inspiegabilmente malinconico ti lega a quelle immagini, per cui continui a guardalo e riguardarlo sprofondando sempre di più nel divano.

Al limite dell’auto-plagio ma comunque miglior pezzo del lotto è certamente Gun con i suoi 8 minuti di martellamento velvetundergroundiano, marchiato da un’indimenticabile assolo/trapano di Phil Manzanera che assoggetta sessualmente Arto Lindsay. La ricerca pop di Cale si svela nella sua semplicità compositiva, ma al contempo mostra l’enorme lavoro dietro ogni suono ed ogni parola proferita. Il musicista gallese toglie tutti gli elementi che appesantiscono la forma canzone degli anni ’70 anticipando così l’algidità di certo post-punk (ne sanno qualcosa i The Modern Lovers) riuscendo a tenere sù un groove decisamente rock ’n roll.

Ovviamente è il miglior album di Cale come solista, perché sposta i suoi limiti con l’accortezza di un musicista navigato, ormai all’apice della sua carriera, lo sentiamo infatti scazzare, rimpastare, incollare, scherzare, lo sentiamo inabissarsi nel torpore di una ballad per poi tagliare gli angoli di un potenziale singolo pop da classifica. È un treno John Cale che deraglia continuamente solo sui suoi binari, un viaggio nervoso e certamente scomodo, ma anche per questo perlopiù indimenticabile.

Podcast – Rock & Chicks

Chi lo ha detto che il rock è una roba da maschietti? Beh, fanculo, sappiate che tra i momenti più importanti della storia del rock spesso c’è stato lo zampino di una dolce signorina, non solo riff ma riflessioni sul rock al femminile da Nico a Pj Harvey.

So che dovrei scrivere di più, e ho della roba scottante da postarvi che FINALMENTE non c’entra un cazzo nulla col garage rock, non sapete che sollievo. Però prima dovrei trovare il tempo per farlo. Ah. Eh.

Intanto sparatevi questo podcast allucinante, il terzo ed elettrizzante episodio di Ubu Dance Party!

«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»

È morto Lou Reed

Beck+21

Chi ha davvero cambiato il rock, non tecnicamente – ovvero quei cambiamenti che non cambiano proprio un cazzo, ma nella sostanza, nel messaggio, sono pochissimi eletti che si possono contare sulle dita di una mano.

Tutte quelle inutili classifiche con “le prime cento band” sono sfilate pop di cento inutili complessi che hanno prodotto dischi notevoli, per bellezza e anche autenticità, ma che in una intera discografia non hanno avuto il peso di una singola canzone contenuta in “The Velvet Underground & Nico”.

Diffidate da quegli osceni libri che si intitolano “500 dischi fondamentali”, “2000 album imprescindibili”, inutili compendi di critici in piena crisi auto-erotica, i quali dato che ormai le gare a chi piscia più lontano o ce l’ha più lungo sono diventate desuete allora fanno a chi ha ascoltato più dischi. Gente più ridicola di questa è solo quella che queste baggianate se le compra. E io l’ho capito dopo averne comprate tante.

Lou Reed è stato uno dei pochi ad essere davvero fondamentale, imprescindibile, un profeta che semplicemente voleva tutta l’attenzione su di sé.

Non mitizzate Lou Reed. Un brutto carattere, un idiota borghesuccio tutto orgoglioso del suo nulla, conobbe John Cale che era praticamente analfabeta. Ma è anche per tutto questo che è stato, è sempre sarà, tra i più grandi.

E per Dio, non ricordatelo per “Berlin”, non piangetelo sulle note di Walk on the Wild Side, o sui terribili “pow pow pow” di Satellite of Love, ma a ritmo di I’m Waiting for the Man, quando non era ancora Lou Reed ma un semplice drogato qualsiasi, col chiodo, ad aspettare una nuova dose per tirare avanti, e per sognare.