Etichetta: Castle Face Records
Paese: USA
Anno: 2022
Archivi tag: John Dwyer
Thee Oh Sees – Mutilator Defeated At Last
Davvero una carriera strana quella di John Dwyer e dei suoi Thee Oh Sees. I primi album interessanti, ma non particolarmente memorabili, alla fin fine ci si ricorda di “The Master’s Bedroom Is Worth Spending A Night In” giusto per quattro tracce, come anche di “Dog Poison” e via dicendo, eppure ‘sta band di depravati garagisti, figli di Syd Barrett, Can e Deviants, nel 2011 riescono a sfornare un quasi-capolavoro: “Carrion Crawler/The Dream”.
Nato dall’unione di due EP, Carrion Crawler è l’album della consacrazione, quello dove i Thee Oh Sees prendono solo il meglio della loro produzione passata (come Go Meet the Seed, Grease, The Sun Goes All Around, MT Work) fuzzandola all’inverosimile, raddoppiando la batteria, e tirando fuori dei pezzi memorabili, inventandosi di sana pianta un nuovo garage rock.
Escono raccolte, collezioni dei singoli, le fottute musicassette, e la leggenda diventa sempre più mondiale e meno californiana. Seguono un eccezionale (e molto acustico!) “Castlemania” e “Putrifers II” con una certa Lupine Dominus, un grande garage strumentale, ma è l’anno successivo quello in cui tirano fuori un altro coniglio dal cilindro ripieno di speed, il magniloquente “Floating Coffin”, un album devastante, dove l’estetica dei Oh Sees trova la sua definizione, nel 2013 sembrava che ormai non li potesse più fermare nessuno. Tranne Dwyer stesso.
E difatti l’anno scorso parlavamo di quella merda di “Drop”, un album anemico, senza i veri Thee Oh Sees ma con dei comprimari che accompagnavano ossequiosi le nenie psichedeliche-beat di Dwyer, passato da Syd Barrett a Jeffrey Novak senza pensarci troppo sopra. Manca il nerbo dei Thee Oh Sees, ma sopratutto mancano le idee, i riff sembrano tutti riciclati dagli album precedenti, come le melodie e i rumori, ma compressi in un formato più appetibile a tutti, meno claustrofobico e ipnotizzante.
Meno di un mese fa è uscito “Mutilator Defeated At Last”, l’ultima fatica di Johnny D., dove registriamo il ritorno di Brigid Dawson, e un timido accenno alle origini della band dopo la derapata di “Drop”.
Quello che mi lascia perplesso di questo album è che trova i suoi momenti migliori quando Dwyer evita di coverizzare se stesso, ma piuttosto si butta su sonorità nuove.
Sticky Hulks è sicuramente il piatto forte di Mutilator che per il resto, ve lo dico subito, non sa di un cazzo. Sticky Hulks si basa su un continuo rimando ai settanta, con assoli micidiali, il ritmo e il cantato alla Pink Floyd (Waters, purtroppo), cambi di tempo prevedibili fin dal primo secondo di ascolto, ma riuscendo forse in quello che Tame Impala e compagnia revival cantante non è riuscita finora, ovvero a far proprio un sound di quarant’anni fa.
La cosa tragica è che le prime cinque tracce sono tutte delle pseudo-cover dei Thee Oh Sees, e non se ne proprio capisce il motivo. Roba riciclata all’infinito quando poi dimostri che puoi fare altro, e meglio!
Anche Holy Smoke si staglia sul resto, perché non sembra un pezzo dei Thee Oh Sees, una fuga acustica che non ha nulla a che fare con “Castlemania”, con un mellotron incantevole.
Quello che si può dire è che l’arrivo di Chris Woodhouse (al sintetizzatore, mellotron e anche al missaggio finale) ha cambiato non poco il sound della band, ma non è bastato di fronte al bisogno ontologico di Dwyer di ripetersi all’infinito. Sebbene pezzi come Withered Hand e Palace Doctor siano eccezionalmente camuffati dal prodigioso lavoro di Woodhouse, ci vuole poco per capire che è già tutta roba vecchia solamente tirata a lucido.
Prima che qualcuno se ne risenta perché «che cazzo vuol dire tirata a lucido, scrivi come mangi stronzo» maledetti fangirl & boys, metto le mani avanti: le sentite più quelle linee di basso hardcore? No, perché invece di Dammit qua abbiamo Tim Hellman, che punzecchia le quattro corde come nel Mersey Beat si ‘sto cazzo. Vi ricordate il ritmo kraut-apocalittico del duo Finberg-Shoun alla batteria? Niet, c’è spazio solo per Nick Murray, che al massimo scimmiotta la forza trainante di Finberg.
Ma poi cazzo l’avete sentita quella roba di Poor Queen? Sembrano i Thee Oh Sees versione Top of the Pops, col canto da sciacquata di ascelle sotto la doccia e il piglio dei Monkees.
C’è chi la chiama maturità, per me sono solo i vecchi album missati da Woodhouse, che è quello che ne esce meglio di tutti da questo sperpero di energie (che fra l’altro dura giusto mezz’ora, perché nel 2015 si ragiona ancora con lo standard dei 33 giri, porcatroia).
Colgo l’occasione di questa ultima recensione per annunciare l’arrivo di un nuovo collaboratore nel blog! La cosa bella è che ho aperto questo ricettacolo di cazzate sul web proprio grazie a ‘sto tipo, appassionandomi alla critica leggendo le sue funamboliche recensioni su Splinder. Ne vedrete delle belle!
Thee Oh Sees – Drop
Sono ormai settimane che ascolto “Drop” volenteroso di scriverci sù una recensione decente, ma non è facile.
Sicuramente, come i miei lettori affezionati sanno bene, molto è dovuto dalla mia palese incapacità di scrivere recensioni comprensibili. Ma ci amiamo lo stesso. Credo. Comunque non è questo il punto, il punto è che questo “Drop” è davvero un album controverso per la band californiana per eccellenza.
Probabilmente si parla dell’ultimo lavoro in assoluto per i Thee Oh Sees, ed io mi aspettavo i fuochi d’artificio per l’occasione ed invece…
Beh, partiamo da una constatazione troppo poco ribadita, se non proprio volutamente censurata, in molte recensioni: questi non sono i Thee Oh Sees. L’unico nome che accomuna il penultimo album “Floating Coffin” a questo è quello di John Dwyer, il deus ex machina della band, ok, ma dove sono finiti gli altri?
Non è un caso se quindi “Drop” è un miscuglio indefinibile di Thee Oh Sees, Coachwhips e gli esperimenti solisti di Dwyer, con un pizzico di White Fence, ma invece di essere un mix delizioso come vodka e frutti di bosco questo è più come uno di quei frullati di Maurizio Merluzzo.
Senza Lars Finberg alla batteria i ritmi restano blandi, manca la voce acida di Brigid Dawson e ovviamente la furia al basso di Petey Dammit a dare corposità ad un suono etereo e francamente soporifero. In compenso c’è un sassofono baritono (Casafis) e un sassofono contralto (Mikal Cronin? Sul serio? Ora può pure rubarmi il nome del blog!) che non sfigurano.
Piuttosto apprezzabile The Penetrating Eye, un pezzo vecchio scuola, mentre già con Encrypted Bounce i nodi vengono al pettine. Non c’è potenza né coinvolgimento, la canzone in sé non è una merda, ma non c’è il mordente di una Sweets Helicopters o di una Maria Stacks.
Savage Victory per esempio rientra nei canoni estetici, ritmici e melodici che contraddistinguono il sound dei Thee Oh Sees, ma è davvero lontano dagli standard con cui la band ci aveva abituato.
Forse l’acuto dell’album arriva alla fine del primo lato con Put Some Reverb On My Brother, un pezzo ispirato dall’enfant prodige Tim “White Fence” Presley, che mescola bene la psichedelia soft del primo con il sound di Dwyer. Mi piacciono i cambi di velocità e quel ritmo da disco rotto, quantomeno la posso ascoltare senza distrarmi un secondo sì a l’altro no.
Divertente il surf garage di Drop, inutile Camera (Queer Sound), mentre è davvero strana The King’s Nose. Sì, lo so, “strano” è un termine esageratamente tecnico. Intendo dire che è una roba a metà tra l’indie dei Raconteurs (vi prego, prendete questa affermazione con le pinze, non fracassatemi i coglioni) e i Thee Oh Sees ma in generale si può dire che non sa di un cazzo.
Il primo minuto e mezzo di Transparent World conia un nuovo genere, la porn-drone. Lascio a voi le dovute conclusioni.
Si finisce con The Lens, una prova di assoluto spessore per Dwyer per quanto riguarda la costruzione di un pezzo più appetibile per un mercato diverso dai festival psych garage. Si parla del pezzo più “pop” dei Thee Oh Sees, ma è quantomeno un lavoro quadrato, beatlesiano al punto giusto lasciando Syd Barrett come padrino spirituale degli album precedenti, qui dimenticato.
Il problema principale di questo album dei Thee Oh Sees è, come dicevo, che non è dei dannati Thee Oh Sees. Dwyer poteva benissimo farsi un progetto parallelo, come ne ha già fra l’altro, e pubblicare questo album senza infangare l’ottima discografia della sua band più famosa.
Una delusione su tutti i fronti, un album poco più che mediocre.
- Lo Consiglio: se proprio adori John Dwyer ci sono comunque due o tre spunti interessanti.
- Lo Sconsiglio: a tutti, sopratutto a chi vorrebbe approcciarsi per la prima volta a questa ottima band. Ascoltatevi “Carrion Crawler/The Dream” (2011), “Floating Coffin” (2013) e “Castlemania” (2011) piuttosto.
E ora qualche video:
Due singoli dall’ultimo album.
Qualche live per ricordarne i recenti fasti.
Thee Oh Sees – Carrion Crawler/The Dream
Gentili lettori,
quanto vi propongo oggi è un album di una band che fa stracciare i vestiti di dosso anche ai critici più testardi. Peccato che i voti mediamente alti e i complimenti strascicati vengano spesso rilegati alle ultime pagine, lasciando in copertina gli ultimi aborti degli Arcade Fire.
I Thee Oh Sees sono, e tremo al dirlo, la miglior rock band dell’ultima generazione. Se tremo nel dirlo è per molte ragioni.
La prima è certamente il fatto che oggi definire cosa sia “rock” è sempre più difficile. Non per me, ma il resto della critica che pur di recensire undici miliardi di album al giorno più dell’altra rivista musicale fanno diventare rock anche “AM” degli Arctic Monkeys (per loro la linea di confine è sempre più confusa).
Dimenticandoci di punto in bianco che fare rock non è imbracciare una chitarra e vomitare ovvietà da un microfono, ma è farlo in un certo modo e con dei validi motivi. E il modo e i motivi si sentono parecchio da quelle casse, cazzo se si sentono!
Per i confusi e gli anfetaminici: i motivi non devono per forza essere “alti”, come i modi non devono essere per forza virtuosistici, basta che non siano artificiali. Puoi anche voler diventare i nuovi Beatles, fare un mucchio di soldi e raccatarre figa in ogni angolo, ma se da questi propositi vengono fuori i Ramones è una cosa, ma se invece vengono fuori gli Strokes significa che qualcuno sta mentendo. E i Ramones erano troppo fatti per per riuscirci in modo credibile.
Il rock vero si sente.
Quando ascolto un pezzo qualsiasi degli Strokes non sento niente, a parte una smodata voglia di raccogliere fiorellini in giardino e guardare in TV X-Factor. Quando ascolto i Thee Oh Sees mi si rizzano a porcospino tutti i peli delle palle, vorrei spaccare tutti poster di Frank Zappa in camera con la tavoletta del cesso e guardare Beavis and Butt-Head in streaming.
La storia dei Thee Oh Sees è davvero strana.
Se gran parte delle rock band cominciano coverizzando qualche pezzo con gli strumenti comprati qualche natale di troppo fa da mamma e papà, John Dwyer (leader della band) comincia con esperimenti noise allucinanti.
Il primo nucleo della band si forma nel 1997, denominati Orinoka Crash Suite pubblicheranno tre album che ad oggi ascoltiamo in tutto il mondo solo io e John Dwyer.
“34 Reason Why Life Goes On Without You / 18 Reason To Love Your Hater To Death” meglio conosciuto come “1” è una di quelle cose per cui o hai una mente aperta all’esperienza emotiva REALE oppure dopo due minuti fuggi dalla stanza violentato mentalmente. L’esperienza noise non è da tutti, ma se vi piace il genere i primi tre album degli Orinoka vi faranno esplodere il cervello.
Dopo questa avventura composta di rumori, fruscii e ambienti sonori al limite dell’umana sopportazione, la band si volge a sonorità più garage e al formato canzone universalmente riconoscibile. Formano così gli The OhSees che nel 2007, con l’arrivo di Petey Dammit possono trasformarsi nei definitivi Thee Oh Sees.
Con quella chitarra che suona come un basso Dammit dona a Dwyer il sound definitivo, un ponte trascendentale che unisce Syd Barrett, Soft Boys, Fuzztones e Ty Segall.
Non c’è un album che si possa definire “poco riuscito”, dal primo (“The Master’s Bedroom is Worth Spending a Night In”, 2008) all’ultimo (“Floating Coffin”, 2013) eppure ne hanno fatto uno che forse forse è “il più riuscito di tutti”.
Ecco: “Carrion Crawler/The Dream”, uscito nel 2011 qualche mese dopo “Castlemania”, è la sintesi di tutto il sound, delle idee e della follia dei Thee Oh Sees.
Concepiti come due EP diversi Carrion e Dream vengono fusi in unico album, unendo così la vena puramente psichedelica a quella più spiccatamente garage della band. La prima parte apre proprio con Carrion Crawler (chi gioca a D&D sa già a cosa si riferisce) monumento del rock psichedelico, un nuovo classico indimenticabile.
Segue Contraption/Soul Desert, fusione di un loro vecchio pezzo con Soul Desert, fra l’altro la mia preferita dei Can pre-”Tago Mago”. I ritmi ripetitivi, perfetta sintesi di acidi e introspezione, si confermano con la successiva Robber Barons.
Una specie di space-garage quello di Chem-Farmer, con un lavoro portentoso delle due batterie di Lars Finberg e Mike Shoun. Un surf-rock indemoniato.
La breve Opposition (With Maracas), formula garage che sembra la versione velocizzata e sbarazzina di The Whipping Continues (un geniale, acido e rumoroso pezzo contenuto nel precedente “Castlemania”) ci apre alla seconda parte. Il tema musicale sta cambiando repentinamente, portandoci da altri lidi ben più duri e molto meno introspettivi.
The Dream, anticipata da quei brevi accordi così geniali da imprimersi nella mente per sempre, è il cavallo di battaglia di questo album, la sua potenza garage-caotica dal vivo è inebriante, un’orgia sonora che prolunga un orgasmo per sette-otto minuti di furiosa live.
Seguono velocemente perle di saggezza garage impressionanti (Wrong Idea, Crushed Grass), molto più imprevedibile e camaleontica Crack in Your Eye. Degna conclusione la scalmanata Heavy Doctor.
Non c’è bisogno di aggiungere altro, il rock dei Thee Oh Sees è un buco nero che risucchia tutta la storia mantenendo una propria originalità, la quale deriva da una mente geniale e da dei compagni altrettanto degni, un sound unico perché vecchio ma estremamente moderno. Da ascoltare esclusivamente senza cuffie.
La musica di questa band avrà (e già ha) delle ripercussioni decisive nel sound della California. E oltre.
- Pro: tutto quello che c’è di buoni dietro la parola rock.
- Contro: se vi piace il rock in tinta pop vi sconsiglio vivamente i loro album, vi risulterebbero inutilmente noiosi.
- Pezzo consigliato: vi consiglio i due title track, Carrion Crawler e The Dream.
- Voto: 8/10