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The Buttertones, The Frights, Death Lens, The Prefab Messiahs, Rubber Eggs, Bodies That Matter

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Come quando la batteria ormai scarica dell’auto ti lascia in mezzo al nulla così le cose accadono nel mio quotidiano, con quella meravigliosa tempestività che, un’altra persona, trasformerebbe in un romanzo pieno di colpi di scena dove il lettore, incantato dalla mia suadente scrittura che come un serpente si muove a filo delle dune di sabbia, lascerebbe tramontare la ragione a favore della freneticità della lettura. Ma io sono pigro, per cui mi stappo una birra e tiro l’ennesimo bestemmione.

Come fare a sopportare tutte le batterie scariche che si accumulano sotto il letto, ormai quasi a contatto col soffitto? Ci vuole la cara vecchia musica, quella che mi fa sudare e incazzare in camera mia senza dover strozzare qualcuno, insomma, il sano e giusto rock di cui stiamo sempre qui a parlare!

E infatti gli album che vi propongo oggi non hanno alcun collegamento tra di loro, se non che sono quella sbobba che mi ha aiutato nei momenti più stressanti di queste settimane.

Le recensioni brevi non mi fanno impazzire, le faccio solo per un motivo: poco tempo. Mi piace sparlare di qualunque album, anche del più brutto, per sviscerarne ogni aspetto, dalla copertina spieghettata dal rivenditore che me l’ha imbustata, a quel suono opaco della post-produzione che fa figo ma copre le palesi mancanze tecniche, però a far andare quest’auto con il solo ausilio delle mie mani poggiate sul cofano, mentre le mie gambe spingono il peso del mio corpo contro di esso, sono rimasto un po’ a corto di fiato.

Beh, la birra è fredda al punto giusto, direi che possiamo iniziare.

The Buttertones – For the Head and For the Feet (2015)

Da Hollywood a Los Angeles, cinque ragazzi con le idee chiare e un sound che spacca in modo travolgente. C’è chi lo chiama “thriller-rock”, ma al vostro blogger preferito sembra più centrato come termine “drama-rock”, una commistione di indie, alternative, garage e quanto serva a creare un’atmosfera con una potenza narrativa palpabile.

Infatti anche se fossero strumentali i 4 pezzi che compongono questo EP avrebbero un carattere e una connotazione emotiva davvero cinematografica. All’inizio mal sopportavo quel piglio indie, sopratutto alla voce, ma continuavo a mandare Bad Girl perché, da una parte, le liriche erano stranamente piacevoli nella loro semplicità, e perché… quella musica ci stava cazzutamente bene, porcomondo!

Fu quasi inevitabile passare a She’s At Ease, molto in linea con la precedente, ma che succhia dal seno putrefatto di band nate già morte come i Franz Ferdinand e gli ignobili Strokes, pescandone i pochi buoni spunti subito sfruttati in quel sound così compatto e comunque pieno di sfaccettature.

L’attacco psychobilly di Jabber Jaw immediatamente trasformato dalla chitarra new-new wave in un meraviglioso riff alternative mette in luce i muscoli della band, nemmeno te ne accorgi che sono in cinque e che la sezione ritmica fa un lavoro perfetto e pulitissimo. Cristo, c’è un dannato flauto traverso e non da nemmeno fastidio in tutto questo tripudio gggggiovanile, è come se queste canzoni fossero state concepite-scritte-suonate-registrare al stesso tempo!

Giustamente deflagrante l’omaggio all’indimenticabile Ritchie Valens, una La Bamba festosa e veloce, zeppa di elettricità e scevra di ogni manierismo.

The Frights / Death Lens – DeathFrights Split EP (2014)

Uno Split questo molto atteso perché tra due band molto amate dal giovane pubblico underground californiano.

Anche stavolta siamo sul versante del drama-rock, un genere emergente che forse dovremmo iniziare a prendere sul serio, e sul quale certamente cercherò di farvi una sintesi nei mesi che seguiranno.

Sebbene il loro prossimo album sarà prodotto da Zac Carper dei FIDLAR (una band che sta riscuotendo molto successo, senza motivo apparente) i Frights hanno un retaggio musicale molto diverso dal resto della scena californiana, sì beh c’è il surf rock, ma anche un’anima scanzonata Do-wop anni ’50 che li tiene lontani dal solito retaggio garage-punk-DIY ormai talmente abusato da essere una parodia dei suoi stessi valori.

I Death Lens dal canto loro sono più punk e garage, una band californiana fino al midollo, con una grande capacità di mescolare melodia a rumore senza sembrare i Bass Drum of Death. Se ne fregano del lo-fi e già solo per questo Dio (aka Iggy Pop) dovrebbe salvarli dalla sofferenza eterna; che non si può fare garage senza suonare come una scoreggia vestita? E basta co ‘sto cristo di lo-fi, NON È FIGO, semplicemente non ci si capisce un cazzo!

Che dire di questo Split? Le due band sintetizzano le loro rispettive caratteristiche in un vero e proprio drama-rock, che forse trova i suoi momenti migliori quando si da spazio all’istrionica voce di Mikey Carnevale dei Frights.

Sei pezzi travolgenti, irriverenti, sarcastici, delle volte ha la meglio il surf-garage abrasivo (come nell’interludio strumentale Nights of Orlando) ma in generale quello che salta all’orecchio è un sound che ammicca espressivamente al cinema di serie B anni ’80, e lo fa senza sintetizzatori e facendo un casino della madonna. Mica male.

Questo drama-rock viene fuori sopratutto quando conducono i Frights, come in Kids e Just Call It Balls, ma anche in pezzi dove la sezione ritmica punk dei Death Lens è da fare la padrona (Rats e No Colt, No Johnny) il sound resta compatto come un mattone.

Come in ogni buon Split le sue band si scambiano due cover, i Frights scelgono Drag da“Trashed” (2013), che trasformano praticamente in una loro creatura, mentre i Death Lens si cimentano in una Wow, Ok, Cool resa incredibilmente cazzuta dalla band californiana.

Ciliegina sulla torta il gioiello acustico finale, She Makes Me Gay, un pezzo decisamente poco politically correct di rara bellezza, che dimostra che anche sul songwriting lineare queste due band hanno qualcosa da dire. Semplicemente geniali le liriche.

Un album che scorre leggero senza pretese, ma che nella sua apparente semplicità nasconde ingegno e arroganza, un buon mix per un EP rock.

The Prefab Messiahs – Keep Your Stupid Dreams Alive (2015)

Album garage psych di maniera, ma che all’appassionato può riservare qualche soddisfazione.

I The Prefab Messiahs non sono molto conosciuti, anche se sono del giro in quel di Worcester (Massachusetts) dai primissimi anni ’80, ma solo negli ultimi tempi il web li ha eletti a salvatori della patria garage, anche grazie alla solita Burger Records.

Il problema di questa band, per quanto mi riguarda, è che nella meravigliosa tavolozza di colori che ogni album esprime con chiarezza e una certa qualità tecnica, ci si assuefà facilmente.

Sarà che a me tutto il versante garage e psych più legato alle droghe mi annoia a morte, e che i Prefab ne siano un baluardo inestimabile un po’ mi indispone, però non è prevenzione la mia!

Pezzi come College Radio che mescolano Ramones e Electric Prunes sulla carta sono molto più interessanti che sparati dalle casse. Non c’è l’energia travolgente che suggerisce il tentativo di fare del ritornello un inno punk, e non c’è neanche lo spaesamento psichedelico, perché gli effetti e gli effettini sixties fanno un po’ ridere per la loro prevedibilità, rendendo il tutto caricaturale e ridondante.

Io capisco che i quattro siano gente in gamba con anche una cultura musicale notevole, con un sound ben costruito e una tecnica cristallina quanto vuoi, però se questi sono i padrini della Burger non c’è poi tanto da stupirsi se il garage californiano sta diventando tutto uguale.

Rubber Eggs – Bootleg at vintage market 26​/​09​/​15 (2015)

From Sicily with (a) Farfisa, rinati dalle ceneri degli Ipotonix, ennesima band post-rock che esaltata dalle sofisticatezze dei Radiohead tentava una strada già percorsa da molti in Italia (e che non ha fruttato di certo grandi soddisfazioni in termini musicali per noi ascoltatori) adesso si riscopre più garage, più sporca, più interessante.

Che sia a causa di una illuminazione ascoltando il sound retrò dei Calibro 35 o il deflagrante flusso di coscienza degli Inutili non si sa, comunque sia la band palermitana si tuffa nel garage rimescolando le carte del genere senza troppe remore.

Summer Hate si staglia tra il suono mastodontico e impastato dei Mind Garage (anche grazie al dialogo tra la chitarra piuttosto heavy di Giuseppe Taormina e i tasti doloranti del farfisa di Davide Orsi) e una chiara reminiscenza rock-italiano anni ’70, sopratutto nell’impostazione vocale dello stesso Orsi.

Non tardano però le vecchie cattive abitudini a venir fuori, nascoste tra il lento incalzare di Irrevelation, che comunque riesce a mescolare sapientemente indie (c’è un po’ di Raconteurs nel «uuuh-uuuh» quasi sussurrato a fine ritornello) e un certo post-rock nineties però sporco, sincero, c’è un songwriting banale e seccante forse, ma tutto sommato digeribile.

Sapore europeo, anzi, tedesco direi, nell’attacco heavy-stoner di Doom, curiosa via di mezzo tra Black Sabbath, Fuzz, Kadavar, Alice In Chains e qualcosa che colgo ma che la birra non mi aiuta a mettere a fuoco, cinque minuti che la band sa tenere fino all’ultimo secondo.

Dello stesso piglio Illusion, ma molto meno riuscita, troppo caricaturale di un certo heavy-metal teutonico già bellamente superato dal doom metal, un genere che dagli ultimi anni ’90 ad oggi ha assimilato stoner, heavy, sludge e ambient, creando una della scene più fertili di questi anni (tra le band più rappresentative ci sono anche i nostrani Ufomammut).

Ma a parte questa caduta di stile l’EP si sorregge beneCheeze For My Rat è un bel garage strumentale, Revenge of Mother Earth sembra un po’ uscita fuori da “Attack & Release” dei Black Keys ma non sfigura nel complesso, non mancano di coraggio i Rubber Eggs, che alla faccia del DIY e del retaggio punk, buttano nel calderone garage indie rock e alternative italiano e a tratti riuscendoci molto bene.

Bodies That Matter – Glorify! Glorify! Glorify! (2015)

Non è dicerto il miglior album noise che abbia mai ascoltato, ma questo lavoro dei Bodies That Matter mi ha accompagnato assieme a “New Picnic Time” dei Pere Ubu nei miei ritorni notturni in treno. Solo, per interi vagoni, appoggiandomi alla mia spalla riflessa sul vetro, stremato, l’auto con la batteria scarica parcheggiata malamente fuori dalla stazione, il ritmo dolce ed etereo di “Glorify! Glorify! Glorify!” nelle orecchie, i pensieri accuratamente inscatolati nello zaino nel sedile accanto al mio, sale cullandomi il calore del sonno mentre il treno mi riporta a casa.

WTF-did-I-just-read

Sto solo tentando di dare una narrazione alla critica, di elevarla come fanno i critici pagati di Blow Up e Rumore! Non è mica una scusa perché sono stanco di scrivere e voglio spararmi una sessione 12h-no-stop su Bloodborne! A voi una cosa del genere non la farei mai… assolutamente… ma neanche per sogno… ma vi pare…