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Nastro – Nastro

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Etichetta: To Lose La Track
Paese: Italia
Pubblicazione: 2009

L’ho bruciato
l’ombrello col ferro da stiro
l’ho buttato
nella vasca da bagno il fono
camminavo
col piede sul filo del rasoio
elettrico!

«Però guarda che dal vivo erano mille volte meglio eh! Facevano un casino pazzesco, c’avevano un muro del suono che lo TOCCAVI diocristo, lo potevi imbiancà!» Non lo metto in dubbio, caro amico romano che vedo solo una volta l’anno (per fortuna), però ‘sto album è comunque una bomba, una cosa inaudita per il panorama italiano, sopratutto oggi. Peccato che sia uscito quasi 10 anni fa nella totale indifferenza di tutti noi.

Nastro” scorre (giustamente) come un nastro magnetico a 8 millimetri, con i suoi singhiozzi krautrock e testi epigoni di un Faust’o disincantato che non ha conosciuto il David Bowie berlinese. Teso nel cercare un compromesso tra melodia e rumore che non risulti imbarazzante come quello dei Subsonica, ma che piuttosto derivi dalla new wave più cerebrale, l’esordio dei Nastro ad un primo ascolto risulta sconclusionato e indigeribile. Poi, come una nebbia che si dirada, lascia scoperta la strada dalle quali convergono tantissime influenze senza prediligerne alcuna, risultando a tratti come un’opera dal profondo senso intellettuale e delle altre come una sonora cazzata, ma senza comprometterne mai la fruibilità.

Certi momenti, debitamente isolati, sembrano rifarsi ad una dimensione commerciale, tipo il secondo Beck per capirci (Blues e Cestino di frutta), altri rimandano al post-industriale, e ti ritrovi improvvisamente di fronte ad una versione spigolosa di “Dub Housing” (Ha Ha Ha), per cui orientarsi tra le influenze diventa inutile, perché lo spaesamento ti accompagna per ogni traccia.

Il punto però è: merita riscoprire questo album uscito ormai 10 anni fa? La faccenda per me è semplice in fondo, album come “Nastro” non hanno una data di scadenza perché non si rifanno a nessuna scena in particolare, non dialogano col loro contemporaneo ma spostano i confini di certe grammatiche che chiaramente li ispirano. Non siamo di fronte all’operazione di un Faust’o che in maniera programmatica decostruiva la canzone italiana portandola nella new wave, qui di programmatico non c’è niente perché ogni canzone è pensata, rimasticata ed eseguita con grande attenzione nei particolari, senza necessariamente però convergere verso un concetto legante che non sia il puro suono.

La componente rumoristica in questo esordio è forse una di quelle più peculiari che abbia mai ascoltato da parte di un gruppo italiano. Oggi il rumore è una costanza nell’underground nostrano. Album come “Φ” (2016) e “Stromboli” (2015) sono recensiti persino dalle riviste più mainstream, anche se magari non sono apprezzati quanto i nuovi eredi del cantautorato italiano (Young Signorino, Sfera Ebbasta, Stato Sociale, Thegiornalisti, Willie Peyote e il resto del circo equestre) in ogni caso stanno riscontrandosi con un pubblico progressivamente più eterogeneo e sempre meno di soli addetti ai lavori. Comunque, sebbene l’operazione portata avanti dai Nastro sia in linea con certe dimensioni caustiche italiche (penso all’esordio degli Arto, che avevo citato su Facebook tempo fa), riesce a dominare gli istinti radical-intellettuali del rumore fine a se stesso dentro una struttura-canzone che non scade nel melodismo adolescenziale, ma intercetta Neu! come J.G. Thirlwell, Alan Vega e gli Skiantos di “Pesissimo!” (Sul Parafulmine), risultando così mai accomodante ma comunque eccezionalmente piacevole.

Ho ricominciato ad intortarmi vero? Fottesega, blog mio, regole mie. Ora, per esempio, mi stapperò una bella birra ghiacciata da 66, la berrò, e poi finirò di scrivere questa recensione. Tra un rutto e l’altro.

Ecco, boh, in realtà non so cos’altro dire. Nell’invitarvi all’ascolto di questo disco non voglio instillarvi l’idea che questa sia la via per definire un sound underground originale, non bisognerebbe riprendere da dove i Nastro hanno lasciato (quello toccherebbe a loro), ma bensì assimilarne l’attitudine al cercare di spostare confini invece che superarli (spesso intellettualizzando eccessivamente) o peggio seguendone i bordi pedissequamente.

Per i più curiosi eccovi il link ad una splendida intervista su acquanonpotabile.

Big Naturals – Big Naturals

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Etichetta: Greasytucker
Paese: UK
Pubblicazione: 2015

With a sound like yours, what kind of shows d’you end up playing?
As long as we’re not pigeon-holed into any genre we are happy to play with literally any type of band or artist, or for anyone to enjoy or hate the music for that matter. I guess we’re just too damn old and jaded to be rockstars.
(da un’intervista della band al Bristol Live Magazine)

Un duo, basso elettrico e batteria, dove il basso può trasformarsi in un urlo come in un sibilo, dove il sound spazia dal kraut rock all’hardcore, dove la batteria da metronomo ineluttabile perde il senso del ritmo (e noi dello spazio), sperimentazione consapevole. In quel di Bristol lo chiamano krautpunk.

I Big Naturals non potevano che nascere a Bristol, e dove sennò, la città con la scena musicale più solida d’Europa dopo Torino con la sua Psichedelia Occulta. Jesse Webb, il batterista, dopo cinque anni a vagare di band in band si unisce al progetto Big Naturals nel 2014, quando il progetto era tutto sulle spalle di Gareth Turner, un bassista al quale le quattro corde stanno odiosamente strette. 

Ascoltare il loro esordio omonimo è un’esperienza totalizzante, sebbene la povertà dei mezzi di registrazione si percepisce eccome la potenza illimitata della loro musica, un flusso interrotto di drone e kraut, con un orecchio verso il garage californiano e le sue devianze europee (Pink Street Boys), la psichedelia c’è ma non la fa mai da padrona, al massimo, come in Neda, diventa parte integrante del flusso senza reminiscenze hippie alla cazzo buttate là per far revival.

Giocano i Big Naturals, con qualcosa che ancora non riescono a controllare pienamente. Islamaphobia è un accenno che dura poco meno di un minuto, eppure si percepisce da questo tutto il contesto: è un album sulla paranoia che ci circonda, sulle paure e le incertezze del futuro mentre il mondo attorno a noi sta cambiando, e non sempre in meglio.

Tribalismi, rituali, misteri, siamo ancora su una sponda europea, l’influenza brtistoliana dei The Heads è presente come quella contemporanea italiana (Squadra Omega, La Piramide Di Sangue, Mombu), ma anche degli americani Shooting Guns e di quel genere di sperimentazione lì, senza contare Can, Faust, Amon Düül II e, come fa notare giustamente SI TRUSS in un suo articolo per Drowned In Sound, i primissimi Oneida.

I Big Naturals vanno contestualizzati in una scena che vede la dub step come padrona assoluta, e mentre parte del metal commerciale e del jazz più avanguardista sono ben contenti di poter dialogare con questo genere, i rocker lo vedono come il nuovo nemico contro cui fare fronte comune (come ai tempi della disco music sempre in Inghilterra, che portò alla Factory e poi alla negazione dell’ideologia punk su cui essa fu fondata). Ma in USA il garage punk sta diventando una barzelletta, la Burger Records sforna sempre più band copia-incolla senza idee e con un sound tutto uguale, e tutti quelli che restano fuori da queste direttive psichedeliche diventano underground nell’underground. Come risponde a tutto questo il duo da Bristol? Con il ritmo kraut di A Good Stalker, con la paranoia fatta musica ed energia.

Ecco, energia, una parola abusata nel descrivere certo rock più veloce o più evocativo, a seconda delle sensibilità, quando invece l’energia è qualcosa di misurabile, di calcolabile. Nel caso dei Big Naturals si può parlare con cognizione di causa di energia intesa come joule, perché la potenza è il mezzo con cui arriva il concetto. Questa non è musica d’avanguardia, non vuole innalzasi nei confronti della scena rock mondiale, piuttosto copia tutto quello che a Gareth Turner sembra essere figo e lo ripropone tutto assieme, come in un flusso di coscienza, come un vomito liberatorio dopo una serata di bagordi e repressione.

Il kraut è presente nel drumming come nelle sperimentazioni con basso, il punk è presente nella sia nella sua essenza nichilista e auto-distruttiva, sia come sguardo disincantato sulla realtà.

Un album mastodontico, di proporzioni incalcolabili, di pura estetica rock, una musica che lascia i suoni evolversi al ritmo del pensiero, delle volte soffermandosi ostinatamente su un particolare, delle altre accennando e basta, ma senza mai fermarsi, come una mente in continuo fermento, come la febbrile paranoia che ci pervade tutti.

Un blog a puttane (Verma, The Ghetto Fighters)

Purtroppo è un bel po’ che non aggiorno il blog con la solita merda che vi consiglio, ma ci sono stati dei problemi di vario genere (che perlopiù si limitano alla persistente presenza di una vita reale, quelle con i progetti, il lavoro, lo studio, sì sì, tutte quelle stronzate là).

Ho ascoltato della musica ovviamente, ma senza porgli l’attenzione adeguata per delle recensioni. Sarebbe stato inutile buttarvi qua e là delle recensioni scritte di pancia, anche se ne ho molte nel cassetto, perché avrebbe poco senso. 

Comunque sia tra tutta la robaccia che ho ascoltato volevo consigliarvi qualche ascolto.

Intanto tre band krautrock contemporanee (sì, è tornato il kraut, probabilmente sarà il prossimo revival) che dovreste ascoltarvi, i “veterani” zZz, i miei amati Big Naturals (che sono quelli, a mio avviso, più interessanti in prospettiva) e i Verma.

Verma, il krautpunk moderno

Mi soffermo un attimo sull’esordio omonimo dei Verma, del 2011, un album diviso in tre tracce dove i Tangerine Dream rinascono nella nostra epoca, dove “kosmic rock” non è più un antico suono degli anni ’70, ma qualcosa che di tangibile anche per noi. La cosa bella dei Verma, come anche dei Big Naturals, è la fortissima influenza che il loro kraut ha subito dall’ultima ondata garage psych californiana (sebbene i Verma siano di Chicago e i Big Naturals siano degli stramaledetti inglesi da Bristol).

La sezione ritmica dei Verma è incredibilmente simile a quella dei Thee Oh Sees, che infatti ho sempre denominato kraut a tutti gli effetti, questa commistione tra ignoranza garage e freddezza kraut personalmente mi esalta non poco, spero di trovare nuove band da proporvi in tal senso. Ah, “EXU”, ovvero il secondo album dei Verma uscito nel 2012, sebbene sia meno space guadagna in qualità sei singoli pezzi (stavolta ben sei), e non ho ancora ascoltato gli altri due successivi. Fanno un cazzo di album all’anno questi, porcodemonio.

Il garage sanguigno dei The Ghetto Fighters

Stooges? MC5? Oblivians? Il Ty Segall di “Slaughterhouse”? Tutte favolette della notte in confronto al casino immondo dei The Ghetto Fighters nel loro credo esordio assoluto “The Lost Recording” uscito il mese scorso e il fautore di tutto questo macello è il solito Andy Macbain, lo stesso dei The Monsieurs e dei Marty Kings.

I quattro minuti e un secondo di Hollywood sono l’apertura più devastante dai tempi di “Metal Machine Music”, e io che credevo fossimo al limite con i Running. «Hollywood, that’s were I’m from/ I went out and I got me a gun/ Now I just gotta get outta Hollywood» urla alla Gerry Roslie di Andy Macbain, e a mala pena si capisce qualcosa mentre il riff ultra distorto della chitarra devasta il senso del gusto. Continuo a pensare che Macbain sia un pazzo assoluto, uno dei massimi esponenti del garage punk contemporaneo, dal vivo è una presenza volgare, quasi vomitevole, un cazzo di genio insomma.

Beh, che dire, prima o poi ritornerò a rifocillare il blog delle cose che mi passano per la testa, ma non so bene quando. Intanto vado a fare “le cose serie”.