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Captain Beefheart & The Magic Band – Lick My Decals Off, Baby

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«Madò, anche oggi non c’ho voglia di scrivere…»
«Ma che cazzo l’hai aperto a fare il blog, scusa?»
«Io volevo solo scrivere di quanto fosse figo Metal Machine Music e di quanto facesse cagare Bananas, però la cosa m’è sfuggita di mano.»
«Ma non ce l’hai una nuova band garage fresca fresca? Non hai ascoltato un tubo ultimamente?»
«Eh no, ho ascoltato parecchio, ma il 99% della roba è puro revival del cazzo, col riffino surf rock, la melodia canticchiabile sotto l’ombrellone, la chitarra distorta…»
«Allora fai un album non contemporaneo, che ne so, tipo Blanck Generation (che avevi promesso a gennaio 2013!), il primo dei Dead Boys, o qualcosa di più astruso, tipo i Cromagnon o i Godz! Quanto so fighi i Godz?»
«Potrei fare Lick My Decals Off, Baby
«E che cazzo è?»
«Hai le traveggole? Il quarto di Beefheart.»
«Aaaaah.»
«”Aaaaah” che?»
«No, dico, bello eh, quello dopo Trout Mask Replica, giusto? Molto simile, una specie di continuazione.»
«Ma l’hai mai ascoltato?»
«E che, no? Un capolavoro.»
«Qual’è il primo pezzo?»
«Come scusa? Vuoi andare a Cortina d’Ampezzo?»
«Il primo pezzo dell’album, qual’è?»
«Eeeeh, boh, l’ho ascoltato UN SACCO DI TEMPO FA, credo fosse… eh, insomma, The Host, The Ghost, The…»
«Se vabbè, ma quello è il secondo di Ice Cream for Crow!»
«Ah, unnè di Safe As Milk?»

Sì, perché “Lick My Decals Off, Baby” soffre di questa sindrome del “Trout Mask Replica 2 – la Vendetta” senza alcun motivo, ma che ne determina spesso la superficialità d’ascolto.

Perché fa tanto figo raccontare a giro che Captain Beefheart te lo rizza fino in cielo, ma poi c’hai a casa la discografia dei Nazareth quasi consumata dall’ascolto, e un “Safe As Milk” intatto in mezzo ai 33 dei Matia Bazar di tua madre.

Non è che sia un male se non ti piace Captain Beefheart, non hai peccato né verrai giustiziato, né tantomeno giudicato (se non dagli stronzi), però è cento volte peggio fare il fanboy del Capitano e poi conoscere a mala pena TMR e piuttosto bene l’esordio blues.

“Lick My Decals Off, Baby”, che d’ora in poi chiameremo LMDOB, è uno degli album rock più devastanti che avrete mai il piacere di ascoltare, un album che, occorre sfatare il mito, non è un proseguo di TMR, se non nella sconsiderata distruzione di ritmo, melodia, tonalità e qualsivoglia regola nel blues rock. LMDOB è molto più maturo, più compatto se vogliamo.

TMR è follia dadaista, una sorta di devastazione che poi ha generato le esperienze più travolgenti del rock (molta new wave deve tutto a quest’album, e non solo), uno sconvolgimento del blues, al quale si toglie la struttura ossea ma si mantengono intatte le budella.

In LMDOB Beefheart si fa più “serio” se vogliamo. Con l’uscita dalla Magic Band di Mascara Snake (clarinettista) e Doug Moon (chitarrista) si serrano le fila, e il sound è meno apocalittico e più uniforme, come un flusso di coscienza. Basta ascoltare il caos controllato di Bellerin’ Plain per rendersi conto di quanto rigido fosse Beefheart, e di quanto controllo ci fosse dietro la maschera dell’improvvisazione, un concetto lontanissimo dall’estetica beefheartiana.

Se in TMR era John French (detto Drumbo, il leggendario batterista) a mantenere stabile il castello di carte compositivo del Capitano, qua non c’è più bisogno di espedienti, libero dalla presenza di Zappa Beefheart doma la sua Magic Band come un vero direttore d’orchestra, e il sogno di un album senza strumenti protagonisti si realizza nei primi mesi del 1970.

Scompaiono i dialoghi tra chitarre da una cassa all’altra, scompaiono gli intermezzi parlati, e nemmeno Beefheart è protagonista, è forse l’album rock più musicale che ci sia, dove per musica s’intende una serie di musicisti del tutto asserviti a costruire qualcosa che non abbia NIENTE di loro.

Forse è difficile da afferrare per un neofita del Capitano, ma lo scopo di Beefheart era di estraniare il musicista dalla musica che stava suonando, per avere lui e lui soltanto il controllo totale di ogni nota. E difatti in quest’ottica vanno viste tutte quelle puttanate sulla telepatia che Beefheart rifilava ad ogni intervista dell’epoca, questa forma di comunicazione tra lui e i musicisti che non avesse bisogno della parola, un vero e proprio flusso di coscienza musicale.

Ogni pezzo di LMDOB si può virtualmente scomporre, ed ogni suo aspetto risulterà inevitabilmente affascinante e innovativo. Il ritmo, l’armonia, la sua evoluzione, la voce. Ci sono solo due pezzi totalmente rilegati alla chitarra acustica, Peon e One Red Rose That I Mean, i quali riportano coi piedi per terra l’ascoltatore, gli unici intermezzi concessi nel fluire incessante delle idee più strampalate.

In compenso a quanto può sembrare leggendo questa recensione, quello che colpisce maggiormente di questo quarto album del Capitano è la disciplina, come detto prima questa “compattezza” che in TMR era solo un’ideale qui diventa pratica. Ed è forse in questo che è minore, ma non di tanto, all’album precedente.

Per quanto il blues distorto di The Smithsonian Institute Blues (Or the Big Dig) sia alla pari con quello di Moonlight On Vermont dal punto di vista compositivo, cioè nella devastazione delle regole di base, manca l’energia prorompente e volutamente provocatoria di TMR. Ciò non toglie, sia ben chiaro, che sia un pezzo della Madonna.

Infatti in confronto all’epocale album che lo precede, LMDOB guadagna parecchio in termini di piacere all’ascolto, perché la Magic Band è in forma smagliante, e i pezzi sono TUTTI dei capolavori. Frenetica, assurda e delirante Lick My Decals Off, Baby, il pezzo che dà il nome all’album e che apre le danze come un’esplosione caleidoscopica, dando la sensazione che l’album non avrà un secondo di pausa.

Lo conferma il piglio storto di Doctor Dark, i testi di Beefheart dadaisti come al solito non vogliono evocare (come farà poche volte in carriera effettivamente, forse in Neon Meate Dream of a Octafish, sicuramente con Zappa nel testo di The Torture Never Stops) ma solo calpestare ogni barlume di buon senso, di melodia e di piacevolezza. Col cazzo che lo fischietti sotto la doccia il “motivetto” di Doctor Dark.

Già di tutto un altro pianeta è I Love You, You Big Dummy, col sassofono acido del Capitano che anticipa un dialogo classico negli album successivi (quello chitarra-sassofono che manterrà nel proseguo più commerciale degli album che seguirono LMDOB), una versione più coraggiosa di Frank Zappa, che due mesi prima aveva pubblicato “Hot Rats”, grande album, reso tale anche dalla voce del solito Capitano in Willie The Pimp, e che comunque non vale il Lato A di LMDOB.

Tra i pezzi che mi piacciono di più c’è sicuramente Woe-Is-Uh-Me-Bop, la perfetta presa in giro del rock soul da radio, del tutto destrutturato se non per il ritornello alla Sam & Dave gracchiato da Howlin’ Beefheart Wolf. Comunque si fa fatica ad non amarlo questo album, persino l’ormai odiato Zappa viene decostruito in I Wanna Find A Woman That’ll Hold My Big Till I Have to Go, a questo punto Beefheart non ha più punti di riferimento se non se stesso (c’è più Albert Ayler e Eric Dolphy che Delta Blues in questo album!).

Mi viene in mente adesso (cristo, che recensore professionista che sono!) l’attacco di The Buggy Boogie Woogie, perfetto, senza stranezze, e poi la voce del Capitano che distrugge la fragile melodia faticosamente conquistata a metà del Lato B. Il contrario di quanto fatto per esempio in Woe-Is-Uh-Me-Bop.

Insomma,  “Lick My Decals Off, Baby” non è “Trout Mask Replica”, forse non è bello altrettanto, ma è comunque un album nel quale l’unico difetto evidente è che, ineluttabilmente, finisce.