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Neil Young – “Live At Massey Hall 1971”

Etichetta: Reprise Records
Paese: USA
Pubblicazione: 2007

Non so perché, ma Neil Young è una testa di cazzo naturale. È l’amico che ne sa sempre più di te, che ti deride l’impianto stereo non-valvolare e che sa sempre qual’è la giusta posizione in camera tua dove ascoltare “Larks’ Tongues in Aspic” – probabilmente sarebbe capace di farlo anche con Robert Fripp in persona. Va comunque detto, a onor del vero, che l’ossessione di Young per la qualità del suono e dell’esecuzione lo ha portato a regalarci alcune delle live più epiche della storia del rock, roba da far accapponare la pelle anche al cinquantesimo ascolto. Oggi però non vi scriverò di una di queste, bensì di qualcosa che ha aspettato ben 36 per uscire nei negozi, rinfiammando il fandom youngiano come nessun album dopo “Harvest Moon” sarebbe riuscito a fare. “Live At Massey Hall 1971” fotografa Neil Young poco prima della sua esplosione commerciale, di fronte ad un pubblico caldissimo che lo ama e lo inneggia ininterrottamente. È da solo, senza band, seduto su una sedia che si prende tutto il tempo del mondo per accordare la chitarra, o che strimpella il piano per trovare le note giuste prima di cominciare il pezzo. È un chiacchierone, delle volte rimprovera (figurati), della altre si lascia andare a ricordi recenti, scherza. L’aria è quella delle grandi occasioni, il musicista da Nashville però non è permeabile alle richieste del pubblico, più che i classici propone canzoni nuove perché «non riesce a pensare ad altro», sono canzoni spoglie e ruvide in un modo che non sembra nemmeno davvero lui.

Young si concede il lusso di arrivare non preparato, con qualche canzone ancora da ricamare. Proprio lui, quello tutto fissato con la precisione e la qualità, che abbassava o tagliava del tutto le voci del pubblico in post-produzione per lasciare la purezza dell’interpretazione intatta, testardo fino all’inverosimile, ma in questa specifica occasione magnificamente impreciso, nervoso, emozionato. Certo, ormai ci siamo abituati a questo tipo di uscite, il celebre “Unplugged” dei Nirvana ad MTV trovava le sue vette nelle reinterpretazioni emotive di Cobain di Meat Puppets e di Leadbelly, o il bellissimo “Skonnessi” degli Skiantos, dove la poesia demenziale di Freak Antoni suonava molto meno ironica e significativamente più malinconica. Ma “Live At Massey Hall” è diverso perché non è Neil Young che interpreta acusticamente Neil Young, è Neil Young che mette in scena l’origine delle sue canzoni, l’intuizione melodica soggiacente ad ogni cosa.

La banalità delle prime note di Journey Through the Past si eleva appena la voce ci cade sopra, come se la stesse improvvisando per la prima volta, con quella freschezza che scompare quando ci ripensi l’istante dopo averla suonata. Così anche in See the Sky About to Rain è come percepire l’aria fredda che annuncia la fine dell’estate, mentre in Cowgirl In the Sand albeggia il calore della primavera, è l’esperienza più empirica che un’artista possa provocare per esprimere la caducità dell’ispirazione. Non è un album che ha segnato un’epoca, come potrebbe poi, è uscito talmente in ritardo da sembrare più un reperto archeologico, quando ancora il folk aveva ricordi vividi dei suoi maestri, in compenso è la cristallizzazione di un passaggio storico traumatico per il rock, al massimo della sua popolarità e in piena frammentazione tra sottogeneri, ed è – chiaramente – un momento chiave per Neil Young, popolarissimo cantante canadese, ormai ad un passo dal diventare un’icona, con quello che ne consegue. Tutte queste tensioni sembrano incontrarsi per un attimo a Massey Hall, tra un sorso di birra e una chiacchierata tra amici, prima che le note di On The Way Home spazzino via tutto il quotidiano e fissino quel momento per sempre.  

Dopo aver ascoltato questo album ammetto che mi ci vuole un po’ per riprendere in mano “Harvest”, “Zuma”, ma anche “Rust Never Sleeps” che sebbene sia un’altra live, soffre di quell’epica forzata e retorica del rock ormai alla fine degli anni ’70. In questo disco c’è tutta la grandezza di un artista immenso, che con una voce e una chitarra può far ballare centinaia di persone mentre fuori ulula scuro il vento, oppure può farle piangere al chiuso delle loro case, a cinquant’anni di distanza, e senza nemmeno capire bene il perché.

Squadra Omega – Squadra Omega

squadra-omega (2)

Quando nel 2009 ascoltai “Rennes Le Chateau” non sapevo chi fossero la Squadra Omega, non sapevo dell’esistenza della psichedelia occulta (e forse nemmeno lei sapeva di esistere ancora), ma non potei comunque non amarli.

In Italia più o meno cinque anni fa c’era una valida scena shoegaze, almeno per i critici e gli appassionati, band come Klimt 1918 e Arctic Plateau tiravano davvero tanto, ma all’epoca non mi interessava il genere, ricordo solo dei vaghi e annoiati ascolti, nulla di più. Se c’era una roba che mi sconfinferava intorno al 2009 era il kraut rock. Dopo il prog canterburyano e quello italiano, ineluttabile come la spada di Damocle mi colpì il kraut, tra capo e collo, con quei ritmi martellanti, le progressioni cosmiche, le campionature improbabili dei Faust, quella musica così universale. Tra le altre cose scoprì anche Squadra Omega.

Mi sembrava la cosa più kraut che avessi mai sentito in Italia, con quella sperimentazione ordinata anche quando sembrava un vero baccanale. Però era solo un breve EP “Rennes Le Chateau”, e tra EP e mini-album dovetti aspettare fino al 2012 per avere un cristo di disco.

Ma poi a voi che cazzo vi frega delle mie paturnie, ora che ci penso… Boh, immagino sia un modo come un altro di scrivere una recensione. Dite che dovrei cominciare a pensarci prima di scrivere? Eeeeh, però sai che fatica. Meglio così. A braccio. Come viene viene. Poi la rileggo, ci inserisco le immagini, ci metto qualche citazione se è il caso (melius abundare quam deficere) e poi la posto senza rimorsi. O quasi.

Ok, torniamo a noi. Nel 2008 esce – gratuitamente – “Tenebroso”, un mp3 live di un jazz rock pesantemente lisergico (ma mica anarchico alla Harsh Toke, è tutto molto controllato, tutto maledettamente ordinato) e chiunque lo abbia ascoltato lo ama a dismisura. C’è poco da fare, non puoi mica resistere, anche perché l’energia live della band è conturbante e la sinergia tra i musicisti è affascinante, ascoltandoli sembra proprio che non possano fare altro se non quello.

Il loro «assalto frontale» questa musica «from the third eye» citando il regista indie M.A. Litter, convince appieno. Giusto per non smentire la buona nomea delle band psichedeliche kraut anche loro sono muniti di nomi criptici, tipo OmegaG8, OmegaKakka, Omega4stagioni e così via. Diciamo solo che sono un ensemble di cinque elementi (che io sappia) che tra sfiatate di sax, chitarra distorta e il ritmo martellante della batteria sono la band dal vivo più potente che in questo momento solchi i palchi italiani. Tanto vi basti.

Squadra Omega è il frutto incestuoso di parecchie band, delle quali ne conosco solo due: The Mojomatics e Movie Star Junkies. Entrambe, sempre nel periodo delle band shoegaze italiane che vi dicevo prima, suonavano folk e blues in chiave alternative rock. Sebbene il plauso della critica a me fanno scendere parecchio le palle, ma dato che a molti sono  piaciute almeno una passata su YouTube fatevela, inoltre credo che alcune (le altre sono With Love, Be Maledetto Now!, Be Invisible Now!, Apoteosi del Mistero e The Intelligence) siano ancora in attività.

Se ci sono delle date nelle uscite degli album che non vi tornano fatemelo sapere nei commenti, secondo la pagina Facebook (che vi linkerò in fondo all’articolo) della band è tutto uscito tra il 2009 e il 2011, ma il resto di internet non è d’accordo e io sono troppo poco professionale per farlo per voi.

Sebbene nella suddetta pagina Facebook esca nel 2010, per la Boring Machines che li produce esce nel 2011 “Squadra Omega” il cd self title che manda in sollucheri chi aspettava con ansia un disco con tutti i crismi.

Sebbene momenti felicissimi, come nell’egiziana fuga psichedelica di Hemen! Hetan! – Hemen! Hetan!, manca il mordente delle focose prestazioni live, la furia ancestrale che muove i fili della band. Senza nulla togliere ai magniloquenti 16 minuti e mezzo di Murder In The Mountains, che fa piangere d’invidia tutta la scena psych (con qualunque accezione, doom, metal, garage,…) americana e europea, va detto che è nella dimensione live che Squadra Omega esprime tutte le sue potenzialità, insomma dal vivo manco sanno che cazzo andranno a suonare cinque minuti prima si salire sul palco.

Al contrario di band come La Piramide Di Sangue e di Architeuthis Rex manca un collante che dia a questa meravigliosa forma una sostanza. Certo, fa figo da morire dire che la tua musica è:

Spaceage Cubist-Free-Jazz clashes with Pygmy-Percussion-No Wave-Kraut Rock causing a sonic fusion leading to a complete derangement of the senses, an assault on the frontal lobe and permanent hallucination. This is music from the third eye.

Sì, ma che cazzo vuol dire? Poco. Personalmente non sono un sostenitore della psichedelia fine a stessa, band come Acid Mothers Temple mi annoiano a morte, però Squadra Omega ha qualcosa in più, ha una vivacità e un retrogusto mediterraneo che si sposa meglio con un’idea di un rock criptico, misterioso, ancestrale. Lo provano senza ombra di dubbio le ermetiche Hemen! Hetan! – Hemen! Hetan! e Ermete (con un finale alla Hawkwind davvero eccelso).

Ragazzi, siamo sulle frequenze dell’irraggiungibile Sun Ra e della sua Arkestra, ma Sun Ra la sua filosofia cosmica l’ha espressa compiutamente negli anni ’50, cosa c’è da aggiungere o aggiornare?

Detto questo è difficile non inebriarsi della musica prodotta da questa band italiana. Del lotto “Nozze Chimiche”, il 10 pollici uscito nel 2011 e finora la loro ultima fatica (che io sappia c’è solo una live che non ho ancora trovato), ed è un passo indietro. Ci sono echi di alternative rock (Copper), un kraut folk ipnotico magistrale (Murder in the Country) però il risultato finale mi sembra meno compatto di “Squadra Omega”, come se fosse un collage di idee scartate.

Insomma ragazzi, questa è una grande band, di quelle che tra trent’anni ricorderemo sbeffeggiando quelle dei ggiovani.


Beh, dopo la recensione di Architeuthis Rex mi sono un po’ scrollato di dosso la paura di non riuscire a recensire della musica, a mio avviso, più alta del solito. Certo, faccio schifo come prima, ma perlomeno parlo di altre cose invece del solito cazzo di garage rock. Grazie per la pazienza.

  • Link utili a voi navigatori del web: se volete spulciare sulla pagina Facebook della band cliccate QUI, se invece volete ascoltare l’album in questione (dato che, fra le altre cose, ne parlo solo in due righe) cliccate con decisione QUI.

Potevano mancare i video?

Qui il secondo cd live di una edizione (quale?) del s/t: