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Podcast – Puntata commemorativa per Francesco Mealli

Questo podcast è stata una delle cose più difficili che io abbia mai fatto, ma non è né un piagnisteo né una cazzata, è una cosa che io e Lorenzo sentivamo di fare e che avrà un seguito molto particolare Martedì 4 alle 21:30 su RadioValdarno. Non voglio aggiungere altro. Buon ascolto.

L’inconscio e la musica della macchina di metallo

Articolo di: bfmealli

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Se l’inconscio avesse un suono quello sarebbe il feedback della chitarra. E se l’Ego di questo strumento venisse filtrato da quel Super-Io che è il musicista allora il sibilo incontrollato dei pick-up troppo vicini all’amplificatore, sarebbe sicuramente l’Es. Non è un caso che tale tramestio venga percepito dalla massa come mero rumore, rigettato dai più come fastidio acustico e nulla più quando invece, alcuni artisti, ne hanno fatto un complesso argomento di studio musicale.

Prima che divenisse di dominio pubblico – tanto è vero che Paul McCartney si accreditò la paternità di essere stato il primo ad usarlo in una canzone – il feedback era qualcosa da evitare: la parte più fastidiosa della chitarra elettrica, quel difetto che invece la chitarra acustica non poteva giocoforza avere.

Per questi motivi posso tranquillamente affermare che Metal Machine Music sia il disco più psicanaliticamente interessante di tutto il panorama rock. Oltre alle premesse suddette prendo in esame anche le uniche parole presenti nel disco: le note di copertina scritte di proprio pugno da Lou Reed. E’ interessante, dunque, l’analisi che l’autore fa del suo disco come rock reale su cose reali mentre critica quel movimento ultimamente imbarazzante quale l’heavy metal rock etichettandolo effetto periferico nonché distorto di quella realtà che questo album possiede.

Se poi prendiamo un attimo in esame il privato di Lou Reed, nel 1975, anno di nascita di Metal Machine Music, ci troviamo davanti ad un povero musicista derelitto scarnificato, strafatto, insoddisfatto ed infelice reduce del suo ultimo disco di studio che lui stesso definiva mediocre (testualmente: “E’ incredibile. Più faccio schifo e più vendo. Se nel prossimo disco non compaio affatto arriverò al numero uno”) più due live ordinatigli dalla casa discografica; tra trans e pere di amfetamina scandiva la propria settimana con gli anni dei suoi fans ma, nonostante tutto, sentiva che doveva dare qualcosa a sé stesso, all’artista che pensava di essere: doveva dimostrare che i primi due dischi dei Velvet Underground non erano un caso isolato e, soprattutto, non erano prevalentemente merito di John Cale (anche se rimarrà sempre emblematico il distinguo che il gallese apportò alle composizioni di Lou Reed che, da band folk-blues con tematiche in netto contrasto col flower power di quegli anni, i Velvet Underground divennero la band di riferimento del Rock).

Così Lou Reed intuisce che persino la chitarra può mentire, può essere ipocrita, può nascondere e può venderti. L’unico modo per poterla davvero comprendere per quello che è realmente è il feedback: ovvero il corrispettivo strumentale di una seduta psicanalitica. In questi quattro lati di 16 minuti e 10 i dispari e di 15:55 i pari c’è l’inconscio che vaga come il flusso di Molly Bloom nell’ultima parte dell’Ulisse: niente punteggiature, nessun capoverso, nessun ritmo, nessuna nota; i pensieri sono sconnessi così come lo è l’ondata di rumori, non ha riferimenti, non ha una direzione, è memoria ed essenza. E’ per questo motivo che nell’intervista di Lester Bangs Lou Reed non fa provocazione asserendo che in questo disco puoi sentirci passaggi di Vivaldi, di Beethoven e di Mozart, qua dentro c’è tutto e di più, nella stessa forma distratta, distorta ed astratta che hanno i sogni.

E questo album usciva, guarda caso, solo pochi anni prima che esplose quel movimento rumoristico che fu chiamato No-Wave, dove il feedback veniva alzato come bandiera distintiva. Anche se fu un totale disastro commerciale tanto da venire ritirato dal commercio solo tre settimane dopo l’uscita, voglio credere che sia grazie a Metal Machine Music se poi il feedback è stato “accettato” dai musicisti come parte integrante della chitarra, nonostante la maggior parte dei chitarristi continui ad usare il feedback come elemento di disturbo e non come segmento di coscienza dello strumento.

Il secondo singolo degli Who, che precede di dieci anni esatti Metal Machine Music, Anyway, Anyhow, Anywhere, ha, a metà canzone, durante lo strumentale, come colonna portante un feedback switchato (che poi sarebbe diventato uno dei marchi distintivi di Pete Townshend) che sovrasta la sezione ritmica; sarà stata la giovane età del rock e della chitarra elettrica ma, come venne distribuito, i negozianti rispedirono al mittente quel disco reo di contenere un rumore infernale a metà canzone. Mi piace pensare che il vero motivo dell’incomprensione sia stato averlo riconosciuto più che un errore tecnico come un lapsus.

Se vuoi leggere altri deliri del buon vecchio bfmealli non hai che da cliccare qui:L’algebra del bisogno.

Zig Zags – Scavenger/Monster Wizard

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[Sì, lo so, non è una recensione vera e propria, e quasi una presentazione, ma cazzo, ero in uno stato d’animo trascendentale allucinatorio mai subito prima!]

Quando mi sono ritrovato ad ascoltare il loro ultimo pezzo, uscito su bandcamp nel consueto formato 7’’ da punk rocker sfigato, sono saltato sulla sedia.

Ho pensato: ci siamo! Che gli Zig Zags fossero sulla strada giusta era già chiaro a quei quattro asociali tipo me, un sound potentissimo perfettamente in linea con il nuovo garage americano, ma qualcosa di più ha toccato questi ragazzi di belle speranze.

Non so bene cosa cazzo scrivere, perché li sto ascoltando a tutto volume proprio in questo momento, le mie casse ruggiscono di un rock spaventoso ed io sono chino su questo cazzo di quadernino e non capisco, non non non non non [seguono frasi sconclusionate qui censurate]

La mia testa è del tutto franata, i riff distorti all’inverosimile, un low fi non più nostalgico ma dettato da un imperativo categorico che ha trovato la sua dimensione in un determinato spazio metafisico tra garage, drone e psichedelia! Se i Fuzz riprendono i Blue Cheer e i Thee Oh Sees sono il nuovo ideale psichedelico, gli Zig Zags evolvono il garage rock contemporaneo slegandolo definitivamente col passato (altro che il compitino applaudito dalla critica di John Reis!).

La loro carriera probabilmente comincia attorno al 2009-2010, la loro prima pubblicazione risale a ottobre dell’anno scorso, sempre un EP da 7’’ dal sound molto drone e psichedelico. Monster Wizard/Turbo Hit” è il rumore puro alla “Metal Machine Music” finalmente ritornato alle sue radici rock, controllato e addomesticato senza però perdere la sua forza primordiale.

Monster Wizard è mille volte più potente di qualsiasi cosa uscita in ambito garage, gli Zig Zags hanno probabilmente raggiunto la massima vetta in questo senso. Il sound degli Stooges e degli MC5 incontra finalmente i feedback lancinanti di Ty Segall e la musica drone, passando per “Carrion Crawler/The Dream” dei Thee Oh Sees. Nemmeno i Thee American Revolution raggiungono queste vette di devastazione sonora.

Già Turbo Hit sembra più “umana”, più “normale”, ma è solo perché ormai Monster Wizard ci ha aperto la mente a un mondo infernale di rumori e distorsioni talmente rock da far impallidire il 99% della produzione contemporanea.

Finalmente il 3 gennaio di quest’anno pubblicano il loro primo album, che per me è stato una mezza delusione al primo ascolto, ma cazzo, era solamente il primo ascolto.
“10-12” come si può intuire è una raccolta di tapes della loro finora breve ma straordinaria carriera.

Un fastidiosissimo rumore di sottofondo che mi insegue fin dalla breve Psychomania mi avverte subito che d’ora in poi le cose saranno un po’ diverse dal solito.
Prometto che farò presto una recensione di questo album, ma finora sono riuscito solo a subirlo passivamente, mi annichilisce del tutto.

Sempre nel 2012 avevano anche pubblicato un breve LP con Iggy Pop, “If I’m Luck I Might Get Picked Up”, la cosa migliore che abbia mai sentito cantare all’Iguana dai tempi di “Fun House”.

In realtà, come scoprirete da voi, l’ultimo 7’’ uscito dei Zig Zags sono due singoli già usciti tempo prima, uno nel disco sopra citato e uno nella loro prima pubblicazione ufficiale, si intitola infatti “Scavanger/Monster Wizard”.

Ma allora, se sono pezzi che ho già sentito tempo prima, perché saltare ancora una volta dalla sedia?

Perché gli Zig Zags rischiano di finire tra le mie band preferite di sempre, e forse non soltanto tra le mie.

  • Pro: la miglior band garage contemporanea.
  • Contro: se non vi piace la drone, il garage rock, la psichedelia, cazzo ci state a fare in ‘sto blog ancora non l’ho ben capito.
  • Pezzo consigliato: sono solamente due e molto brevi, non essendo un album, quindi direi che potete fare lo sforzino di cuccarveli tutti e due.
  • Voto: 9/10

La mia (modesta, inutile e annoiata) opinione sui Beatles

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[ALERT: Questo articolo è brutto e invecchiato male, leggiti QUESTO QUI che è meglio!]

LA PREMESSA NECESSARIA:

La prima cosa che vorrei eliminare da questa discussione è la figura di Piero Scaruffi. E con essa quella di qualsiasi altro critico. Non tanto perché io non creda nel valore della critica musicale, o della critica in senso lato.

Vorrei ricordare che la figura del critico serve per comprendere meglio un dato fenomeno artistico tramite gli studi, le comparazioni e il giudizio quanto più obbiettivo dello stesso. Chiunque creda davvero di comprendere un’arte, qualsiasi essa sia, senza studiarla perché a suo dire: “l’arte è un qualcosa che ci viene donato dall’artista è dev’essere universalmente comprensibile” è meglio che giri a largo da questo blog e dal suo blogger, che se m’alzo male lo lego alla sedia e lo costringo ad ascoltarmi mentre faccio una orrenda disamina di sedici ore su La Mariée mise à nu par ses célibataires, même di Duchamp. Fidatevi, riesco a mala pena a sopravviverci io.

In questo caso particolare lascio stare la critica, come lascio stare anche ogni idea di giudizio soggettivo.

A me piacciono un casino, ma davvero un casino, gli Spirit. Avete presente Fresh Garbage? Ecco, per me I’m Truckin’ è uno di quei pezzi che potrei ascoltare giorno e notte. Ma non per questo se dovessi fare una disamina storica degli Spirit sparerei solo i miei segoni mentali su quanto questa band mi ecciti sessualmente, no, dannazione, proprio no!

Il mio pezzo dei Pere Ubu preferito è Blow Daddy-O, quello del rock in generale Kick Out The Jams!, sono malato? Non lo so, secondo mia madre certamente, ma in questi anni che studio rock da un punto di vista leggermente più serio e storico oltre a scoprire altri pezzi che me la alzano ho anche scoperto che, come nella grande arte, ci sono vari livelli di godimento.

«Ehi stronzetto, ma ancora non stai parlando dei Beatles!»
Sì, lo so, sto cercando di tirare fuori un concetto invece del solito stronzo.
«Ok, ok, amico, pensavo solo ti fossi perso tra le tue solite menate.»
Grazie che mi tieni d’occhio.
«Non c’è di che.»

Dicevamo dei vari livelli di godimento.
Tutti possiamo apprezzare le doti tecniche di un pittore rinascimentale, ma non tutti possono capirne il valore effettivo.

Pala-di-BreraMi stupivo quando alle mostre molta gente snobbava gente come Paolo Uccello, Piero della Francesca, Masaccio per pittori magari minori ma che in alcuni casi erano più realistici. Per quanto uno possa apprezzare La Pala di Brera di Piero della Francesca, vorrei sapere quanti conosco il modo con cui l’opera fu accolta, per cosa e da chi fu commissionata, se fu commissionata da qualcuno (a qualcuno il dubbio potrebbe anche sorgere), se oltre la mera raffigurazione c’è qualcos’altro, che tipo di simbologia e iconografia vengono usate, in che modo e perché la tecnica di questo quadro è la fusione delle esperienze dell’artista e via dicendo.

Al passante che apprezza l’arte nella sua forma più effimera non gli importa un fico secco di tutte le questioni che incorniciano un’opera d’arte figurativa. E questo è giusto, se gli piace da impazzire già così dove sta il problema?

A me dà fastidio vedere certi “critici” insultare appassionati amatoriali solo perché gli sfugge il significato del corallo rosso su Gesù Bambino o dell’uovo di struzzo appeso che pende sulla testa della Madonna (/Battista Sforza). Ognuno ha il diritto di poter apprezzare l’arte anche senza uno studio approfondito.

Ma mi dà molto, molto più fastidio, quegli appassionati che vogliono fare i “critici” perché conoscono un paio di date, oppure vita, morte e miracoli di un artista, come se la biografia fosse l’unica cosa che abbia un valore.

Badate bene: per ogni artista di ogni campo, la biografia ha un valore minimo quando non nullo per definire le caratteristiche della sua opera. È ovvio che I’m Waiting for the Man descrive l’esperienza diretta di Lou Reed, ma il suo valore storico e musicologico sono altra cosa, e hanno ripercussioni e significati diversi dall’esperienza dell’artista.

Inoltre ricordate sempre di non ascoltare mai il giudizio degli artisti stessi, sulla propria e sull’opera altrui. Sono rarissimi i casi di artisti intellettualmente validi al di fuori della loro sfera di competenza. Detto in parole povere, Scorsese potrà dire che Bellocchio è il regista più importante della storia, ma ciò non significa che lo sia, sebbene Scorsese sia uno dei registi più influenti della storia.

«Ma se tu c’avessi rotto il cazzo?»
Oh, non è mica una cosa semplice! Sto cercando di fare un discorso serio!
«Oh, ma stai calmino! Hai mica mangiato pane e allegria a colazione?»
Sigh…

La gente tende ad apprezzare l’arte figurativa e a dispregiare l’arte contemporanea perché se in una può leggere una abilità tecnica (che è solo una caratteristica, non sempre fondamentale, per giudicare un’opera d’arte, in mezzo a mille altre altrettanto importanti) nell’altra non ha la chiave di lettura adeguata, ovvero: non ha studiato. Pochi cazzi.

Se credete che certa arte sia sempre stata grande vi ricordo che anche a Leonardo Da Vinci e a Michelangelo gli rifiutavano opere già concluse o progetti in via di sviluppo, e che Leonardo ha dipinto L’Ultima Cena in una mensa per frati affamati e le più grandi intuizioni di Michelangelo (il non-finito) ancora oggi sono quasi del tutto sconosciute ai “critici” amatoriali.

Parliamo di rock?
Bene, per il rock vale tutto il discorso fatto sopra, come vale per la musica in generale e tutte le arti di ‘sta ceppa.

The-Beatles-the-beatles-33526367-500-492Sui Beatles abbiamo la fortuna di possedere una quantità di dati critico-biografici a dir poco esaustivi. Come per tutti i fenomeni artistici non ancora storicizzati anche per il rock è ancora difficile riuscire a trovare un metro di giudizio oggettivo per giudicare le opere e gli artisti.

Di quanta gente, come per molti artisti del passato, è stata rivalutata l’opera a posteriori? 
Velvet Underground, Fifty Foot Hose, Fugs, Replacements, Captain Beefheart, Death, Sonics (non comincio a fare liste adesso perché se no non finiamo più) e quanti ancora sarebbero da riscoprire (sì, anche più di adesso).

Altri invece, grazie alle vendite smodate, hanno dalla loro una maggiore storicizzazione, anche se spesso viziata dall’influenza delle majors sui mass media, e dunque sulla narrazione popolare che viene fatta e della insulse agiografie che costellano il mercato editoriale.

Il fatto che i Bay City Rollers abbiano venduto milioni di album li rendono importanti per la storia del rock? Non vi immaginate quante biografie esistano di questa band, e quanti fan si strappassero i capelli per andarli a vedere spendendo cifre astronomiche. Pensate davvero che questi fan siano scomparsi? Non è affatto così! Non è che ignorando un fenomeno commerciale che esso scompare!

Beyoncé vende milioni di album, gli Strokes pure, senza parlare dei Muse, dei Black Eyed Peas e moltissimi altri gruppi che molti ignorano, o che credevano sarebbero durati un paio di dischi ed invece continuano a vendere milioni di album sfondando record su record.

Ancora mi ricordo quei profeti che dicevano che “Britney Spears non ha contenuti, vedrai che scomparirà, un paio d’anni e nessuno se la cagherà” peccato che il settimo profilo Twitter più seguito AL MONDO sia quello della Spears con 33.761.000 followers. Quindi qualcuno che la valuta ancora c’è.

Come vedete è inutile valutare in modo positivo un artista per l’universalità del suo linguaggio o per il suo successo commerciale. Britney faceva musica di merda e continua a farla. Non è bello da dire, perché così facendo insulto in maniera indiretta chi la ascolta e la ama. Però il 99% di chi ascolta (anche a livello superficiale) rock odia i fenomeni pop in modo del tutto irrazionale.

COMINCIAMO:

I Beatles, come stavo dicendo, hanno venduto moltissimo. È un dato di fatto. È rilevante ai fini di una critica musicale? Sì, ma non così tanto.

Partiamo subito dicendo che i soldi sono indiscutibilmente una delle caratteristiche fondanti per la band. Ringo Starr entrò sotto la pressione di Epstein, non sotto quella degli altri membri della band, e George Martin controllò l’azione creativa della band fino al 1965, ovvero fino a “Rubber Soul”, perfino storici amanti della band come John McMillian ne descrivono le vicende interne come molto conflittuali, ma non per motivi artistici quanto di avarizia.

Fin qui ho detto solo delle ovvietà, e continuerò probabilmente a dirne altre.

Per molti i Beatles sono stati:

  • abili mistificatori, bravi solo a seguire le mode e a fornicare groupies stra-bonissime;
  • il più grande complesso di sempre, gli anticipatori di tutto, anche della dubstep;

Definire in due modi così diversi una sola band è sintomo di come la critica rock sia ancora agli albori per quanto concerne una scientifica storicizzazione. Da entrambi gli schieramenti ci sono molti critici affermati e tantissimi, troppi, appassionati.

La mole dei fans e degli haters dei quattro di Liverpool è tale da rendere semplicemente impossibile un ragionamento di tipo storico sul web, perché tanto è il cuore che comanda e ci trascina verso il baratro delle pernacchie via email.

È facile infatti trovarsi di fronte a milioni di fan di Piero della Francesca, che vedono nella sua unione ideale tra l’iconografia rinascimentale e la tecnica fiamminga il massimo raggiungimento di un genio (anche teorico), mentre altrettanti milioni lo ritengono sopravvalutato, un conservatore in confronto ad artisti più sperimentali come Paolo Uccello (e anche un po’ borioso).

Sinceramente tutte queste critiche fatte “per passione” trovano il tempo che trovano, e mi procurano solamente un gran mal di testa (altro che quelli di Morgan o degli Windopen).

I Beatles sono stati solamente moda?
No.

I Beatles sono stati i più rivoluzionari?
No.

I Beatles sono stati un avanguardia?
No, cazzo.

I Beatles sono la peggior band del pianeta?
No, no e no cazzo!

I Beatles sono stati una grande band pop! Letto bene? POP! Tutta la musica popolare di massa contemporanea  (che forse inizia con la musica folkloristica che con le radio è divenuta di massa) deve la sua struttura musicale, produttiva, distributiva, aziendale e pubblicitaria a quel fenomeno pop che sono stati i Beatles.

La band assimilava gli impulsi dall’America e li trasformava in qualcosa di loro. Prima tramite la grande esperienza di Martin, poi grazie alle doti acquisite da Lennon&McCartney e dalle loro eclettiche passioni musicali che spaziavano da Buddy Holly al blues del Delta.

I Beatles, fino al 1969, non solo assimileranno tanta roba a giro, ma saranno anche quelli che con le loro hit definiranno il sound di una breve epoca. Dal ’67 in poi i Beatles saranno ampiamente superati come fenomeno musicale (ma non come fenomeno di massa), mentre loro traducevano in pop il rock psichedelico le band proto-punk (Troggs, Sonics, Velvet Underground, Stooges, MC5) stavano cominciando ad avere le prime influenze sulla scena internazionale, l’hard rock era ormai prossimo ad affacciarsi, e la psichedelia negli UK invece che trasformarsi nel pop di Sgt. Pepper’s si stava evolvendo nel prog (l’esplosione arriverà nell’anno successivo con Henry Cow, Family, Move e senza considerare gli americani It’s a Beautiful Day, da alcuni considerati come i padrini nobili del progressive rock).

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Inoltre dire che all’inizio il fenomeno dei Beatles fosse seguito perlopiù da ragazzini e molte ragazzine quindicenni non è una bestemmia! Ricordo una bellissima testimonianza di Franco Fabbri (musicologo, chitarrista dei mitici Stormy Six) che racconta di come i “duri e puri” all’inizio preferivano gli Shadows ai commerciali Beatles. Anche nel libro che McMillian dedica allo smitizzare certe scemenze sulla biografia dei quattro, si ricorda come nelle prime tournée il pubblico fosse composto al 90% da ragazzine sovreccitate. Questo perché i Beatles nascono come un fenomeno più pop che rock. Non capisco però perché per alcuni questo dovrebbe essere offensivo!

A me piacciono davvero gli album degli Earth, Wind & Fire, se qualcuno mi dice: ma sono fenomeni da baraccone disco-pop! ci sto alla grande, l’importante è che mi piacciano! C’è gente che ti insulta la mamma se gli fai notare che sì: i Beatles sono una band che ha avuto delle grosse influenze sul rock (come su tutta la musica leggera) anche perché vendevano a palate, ma sono una band profondamente pop prima che rock. Qualcuno mi spiega dov’è il problema? Le categorie esistono per un motivo, non solo di semplificazione nell’ambito della divulgazione, ma anche per specificare le declinazioni estetiche.

Un’altra grande dote della band è ovviamente quella di essere riuscita a creare un formato canzone altamente fruibile. Le geniali melodie di Eight Days A Week sono semplici quanto trascinanti per gran parte delle persone. Poi ci sono strani episodi come quello di Taxman l’unica vera canzone politica della band, ma un po’ ridicola nei contenuti. Ricordo a tutti che le lamentele dei quattro non erano mica sulla pressione fiscale che attanagliava gli inglesi, ma su quella che attanagliava loro! Pressione ingiusta, e lo era sì, ma cazzo, se una cosa del genere me l’avesse scritta un Bob Dylan altro che le rappresaglie per la svolta elettrica!

Lo stesso Fabbri che prima ho citato definisce I Feel Fine come “complessa e sorprendente” ma al contrario di qualche sciroccato sa bene che non è un esempio di proto-prog, perché è un dannato musicologo che di rock ne sa e ne ha ben studiato (oltre che ben suonato e dunque masticato).

Ho seguito tantissimi congressi (o volevo dire sedute degli Alcolisti Anonimi? Non ricordo…) e discussioni di esperti impantanarsi su Tomorrow Never Knows. Definirla come la prima canzone psichedelica, solo perché vengono usati degli effetti con una qualità che nessuno si poteva permettere, e perché Ringo la suona “strano-strano” è a dir poco snervante. Sì, la struttura del pezzo propone soluzioni interessanti, ma non è mica l’unico pezzo interessante dei Beatles! Però per definirlo proto-psichedelico ci vuole una fantasia davvero fervida. La psichedelia non è semplicemente uno stile, non è un caso se è esistita una scena texana che è considerata fondante di quella americana e una inglese con componenti sia musicologiche che ci concetto molto diverse tra di loro.

Poi è abbastanza avvilente che canzoni straordinarie come Isolation di John Lennon non vengano riviste dal punto di vista del binomio biografia-artista (qui, una volta tanto, non solo rilevante ma chiave di lettura imprescindibile di uno dei pezzi più autentici della storia di questo musicista), mentre su molte biografie ci sono intere pagine sull’origine di Ob-La-Di, Ob-La-Da.

Dunque.
Grandissima band pop forse la più grande (ma non mi piace fare classifiche), fino al 1969 hanno prodotto un pop-rock da antologia collezionando canzoni allucinanti, battendo record su record e riuscendo a comunicare a tantissime generazioni. Contenuti pochini, perlopiù buonisti – e sui quali si dividerà proprio la coppia d’oro Lennon-McCartney, però siamo lontani da esempi di musica seminale come Bob Dylan, Fugs e Frank Zappa (per dirne tre a caso). Grazie ad uno studio di registrazione, quello sì all’avanguardia, doneranno alla discografia mondiale album di pura perfezione ingegneristica, con effetti e suoni stralunati per l’epoca davvero eclettici. Come ogni band hanno avuto momenti davvero bassi e momenti più alti, ma col merito di essersi sciolti prima che arrivassero album indecenti.

Non hanno inventato tutto, ma nella storia del rock  c’è un prima e c’è un dopo i Beatles.

È morto Lou Reed

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Chi ha davvero cambiato il rock, non tecnicamente – ovvero quei cambiamenti che non cambiano proprio un cazzo, ma nella sostanza, nel messaggio, sono pochissimi eletti che si possono contare sulle dita di una mano.

Tutte quelle inutili classifiche con “le prime cento band” sono sfilate pop di cento inutili complessi che hanno prodotto dischi notevoli, per bellezza e anche autenticità, ma che in una intera discografia non hanno avuto il peso di una singola canzone contenuta in “The Velvet Underground & Nico”.

Diffidate da quegli osceni libri che si intitolano “500 dischi fondamentali”, “2000 album imprescindibili”, inutili compendi di critici in piena crisi auto-erotica, i quali dato che ormai le gare a chi piscia più lontano o ce l’ha più lungo sono diventate desuete allora fanno a chi ha ascoltato più dischi. Gente più ridicola di questa è solo quella che queste baggianate se le compra. E io l’ho capito dopo averne comprate tante.

Lou Reed è stato uno dei pochi ad essere davvero fondamentale, imprescindibile, un profeta che semplicemente voleva tutta l’attenzione su di sé.

Non mitizzate Lou Reed. Un brutto carattere, un idiota borghesuccio tutto orgoglioso del suo nulla, conobbe John Cale che era praticamente analfabeta. Ma è anche per tutto questo che è stato, è sempre sarà, tra i più grandi.

E per Dio, non ricordatelo per “Berlin”, non piangetelo sulle note di Walk on the Wild Side, o sui terribili “pow pow pow” di Satellite of Love, ma a ritmo di I’m Waiting for the Man, quando non era ancora Lou Reed ma un semplice drogato qualsiasi, col chiodo, ad aspettare una nuova dose per tirare avanti, e per sognare.

Arctic Monkeys – AM

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Trovo che tutta l’attesa che ha preceduto questo album sia sintomatica di come il mainstream stia cercando (inutilmente) di uccidere il rock, e penso che sia anche rivelatore di tutti questi finti rocker o critici di rock i quali a casa ascoltano Oasis, Arctic Monkeys, Franz Ferdinand, Strokes, Foo Fighters e compagnia cantante, però commentano e criticano album dei Faust, dei Pere Ubu o chennesò dei Thee Oh Sees*.

Grazie ad internet tutto va più veloce, in particolare la comunicazione. Il rock definito giustamente e onorevolmente “underground” ha trovato la sua rivalsa a 196 kbps. I vari Captain Beefheart, Can, Amon Düül II, si sono rinsaviti come mai nella loro vita discografica e hanno cominciato a girare in quelle bancherelle (o librerie di iTunes) dove prima si spacciavano solo Muse, Kaiser Chiefs e Queen of the Stone Age.

E quindi, dai primi eroi dell’underground a 196 kbps, molti hanno potuto percorrere una strada che continua tutt’ora: quella del rock autentico, quella di quel genere così particolare da ispirare i sentimenti più bassi fino alle riflessioni più alte.

Cos’abbia dunque a che fare il rock col brit-pop o con l’indie da classifica proprio non l’ho afferro. È un mio limite, lo ammetto.

Gli Arctic Monkeys non provocano, non feriscono, il loro linguaggio da bulletto di strada inglese fa però breccia in una intera generazione (come ci dimostrano gli straordinari dati di vendita) ma nel momento stesso in cui si rivelano in tutta la loro bellezza, evaporano. Gli album di questa band sono come i nastri di 007, dopo che li hai ascoltati si auto-distruggono.

Dall’indie che strizza l’occhio al fenomeno brit-pop ai ritmi da rock discotecaro di questo ultimo album, i Monkeys si sono affermati come La band inglese per eccellenza, le loro songs sono una sfilza allucinante di hit per caratteri sensibili e indie e critici con vergognose pulsioni verso “The Next Day” di David Bowie.

Di colpo gli album usciti quest’anno di Thee Oh Sees, Has A Shadow, Fuzz, Harsh Toke,  scompaiono e le bocche si riempiono di lodi sdolcinate verso “RAM” dei Daft Punk (un dannato disco funk, oltretutto innocuo e spudoratamente commerciale, alla faccia dei Monophonics) , verso “Right Thoughts, Right Words, Right Action” dei Franz Ferdinand, e ora su quest’ultimo gingillo pop degli Arctic Monkeys.

Spero non mi fraintendiate, la musica della band di Alex Turner merita il plauso della critica. Un gioiello perfetto che ritrae con i suoi accordi spensierati tutto il nulla che ci circonda, il solito album autistico di chi guarda il mondo dall’alto del suo piedistallo. A livello filmografico lo si potrebbe tranquillamente accostare ad un blockbuster di enorme successo, ma senza la ricercatezza o la profondità di chi con il blockbuster, o col mainstream come usa adesso dire, cerca di veicolare messaggi un po’ più profondi (le differenze tra Transformer e Pacific Rim vi dicono niente?).

Perché fare una bella revisione dei dischi meno conosciuti dell’hardcore anti-reganiano quando puoi fare l’ennesima lista degli album che preferisci di David Bowie? Perchè non proporre numeri speciali di riviste sugli Amon Düül II o su Arthur Brown quando puoi fare l’ulteriore review da ottomila pagine sui Led Zeppelin o addirittura lo specialone sui Green Day? 

La verità è che sia anche a 33 o 45 giri, o a 196 kbps piuttosto che a 320, il rock autentico rimane una passione per pochi sfigatissimi, che non voglio chiamare “eletti”, perché per essere uno sfigato che adora Moonlight On Vermont e la favorisce a qualsiasi canzone dei Toto, o che preferisce “MMM” a qualunque album degli Strokes, o che venera i Sonics a discapito dei Franz Ferdinand di ‘sta ceppa non c’è bisogno di una spada regale poggiata sulla spalla, ma solo di una birra economica in mano e un film di Kevin Smith in VHS.

Arctic-Monkeys-AM-recensione

Prodotto dalla Domino e col titolo di “AM”, voluta ma quanto mai disgraziata citazione ai cari Velvet Underground del finito Lou Reed, l’album si apre con la super-hit Do I Wanna Know?. Già da questa piccola perla indie-pop possiamo riflettere sui generi che sono stati accostati a questo album, ben riassunti dalla sintetica scheda della sempre inutile Wikipedia: indie rock, rock psichedelico (!), garage rock (!!), post-punk revival (!!!). Ci mancava il folk-metal ed eravamo a posto.

Una cosa alla volta. Do I Wanna Know? sono le riflessioni di un invertebrato verso una bonazza qualsiasi, il che, sia chiaro, potrebbe anche andarci bene, se non fosse la conclamata mancanza di palle nel genere indie che ci fanno rimpiangere i tragici testi dei Deep Purple o dei Led Zeppelin, che tra il nonsense e i riferimenti a Tolkien erano comunque un po’ più dignitosi. La musica è il solito brit-pop-indie che già i Monkeys hanno sperimentato nei primi album, con un tono più “elettronico”.

R U Mine? potrebbe essere una demo perduta di “Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not”, il primo e più riuscito album dei Arctic Monkeys. L’unico problema sono questi coretti davvero troppo brit-pop per essere sparati a cassa piena. La sensazione è che dal primo album ad oggi i Monkeys siano sempre più attratti dalle classifiche piuttosto che dalla musica.

One For The Road è una hit pop che gioverebbe di una bella cover degli Scissor Sister.

La “rockeggiante” Arabella dovrebbe essere la prima e “pesante” nota rock dell’album, ma qui mi sono messo le mani nei capelli. Intendiamoci, questo album l’ho comprato perché ne parlano come il nuovo Salvatore, e il primo mi piacque a sedici anni (anche se ora fatico ad ascoltarlo), ma qui siamo su un piano davvero diverso. Tralasciando i testi, perché nel rock sono importanti in modo piuttosto relativo, io sono rimasto sconvolto da chi mi definisce tutto ciò “rockeggiante”! Sembra la parodia di un pezzo rock, non rivoluziona i paradigmi del genere, né li rispetta a pieno perché altrimenti i Dirty Streets quest’anno avrebbero sfornato un album capolavoro mentre è semplicemente un album hard-rock che sfiora la sufficienza.

Passiamo a I Want It All, e qui mi faccio delle domande. Se “AM” è il disco dell’anno cos’era “Carrion Crawler/The Dream (2011) dei Thee Oh Sees? Porto spesso questa band ad esempio perché non sono dei fenomeni, ma fanno del rock con le palle, e neanche tanto scontato, ma qui stiamo parlando di canzoncine da classifica. Ma solo l’unico che se ne accorge?
Arriviamo ad un pezzo sulla bocca di tutti ‘sti “critici”: No. 1 Party Anthem mi fa riflettere ancora più del precedente. Mentre ascoltavo questa bestemmia mi viene in mente che una roba del genere, però decente, l’avevo già sentita. Queste sonorità molto più mature, molto più quadrate e sviluppate e con un romanticismo nei testi ben più aulico lo troviamo in un recente album rock ITALIANO, ovvero “Midnight Talks” (2010) degli A Toys Orchestra! L’album sforna un indie molto vicino a quello di “AM”, ma molto meno imbarazzante.
Inutile Mad Sounds, con quei “ullallallà” che mi fanno venire l’orticaria più o meno come come i “powpowpow” di Satellite Of Love. Altrettanto prevedibile e pop Fireside, finora questo album non ci pone di fronte né un sound nuovo, né delle idee nuove, né qualcosa che possa essere categorizzato nel rock, al massimo lo inquadrerei bene in quelle classifiche che vedono Strokes, Justine Timberlake, Rihanna e versioni riviste degli Oasis spadroneggiare senza concorrenza.

Why’d You Only Call Me You’re High non scappa alle precedenti critiche. Mi diverte il fatto che You’re High si possa tradurre in un gergo della mia zona: perché mi chiami solo quando ce l’hai alta? che a Firenze vorrebbe dire l’esatto contrario del senso inteso da Turner.

In questo sconcertante contesto Snap Out of It è solo ridicola. Cosa rappresenta della contemporaneità in modo così efficace questo album? 
If that watch don’t continue to swing
Or the fat lady fancies having a sing
I’ll been here
Waiting ever so patiently for you to
Snap Out Of It

Adesso le lyrics di Black Dog mi sembrano scritte da Bob Dylan.

A ritmo di marcia con Knee Socks, si rallenta con la conclusiva I Wanna Be Yours. Un organo elegiaco, la voce da piacione alle esibizioni on stage di MTV o dell’Hard Rock Café e finisce qui.

Il pregio maggiore di questo album è la sua compattezza, se un album comunque più rilevante come “MCII”, uscito sempre quest’anno del californiano Mikal Cronin, suona più o meno come un infinito copia-incolla di due idee, “AM” invece propone nel suo ambiente sonoro lineare tante sfaccettature di un sound molto meno genuino dei primi album, ma più maturo e studiato.

Vorrei riprendere il discorso lasciato in sospeso qualche paragrafo fa e soffermarmi per valutare i generi proposti da Wikipedia per definire “AM”, (per alcuni Wikipedia dovrebbe essere l’enciclopedia definitiva, spero che Jena Plissken ci salvi tutti facendoci saltare in aria prima che ciò diventi ufficiale):

  1. indie rock: sacrosanto.
  2. rock psichedelico: mah. I Black Angels fanno rock psichedelico, La Piramide di Sangue pure, ma come si fa ad inserire questo album nel filone psichedelico? Davvero: non capisco.
  3. garage rock: Ty Segall, Thee Oh Sees, Crystal Stilts, anche il rock sporco e noise dei Action Beat è garage sotto molti punti di vista, ma “AM” manco per un sordo.
  4. post-punk revival: un momento! Cosa intendiamo per post-punk? Pere Ubu? Pop Group? Suicide? Va bene che è un genere vasto e che comprende molte cose (come tutti i generi rock, alla fine sono soltanto classificazioni a posteriori che si affibbiano un po’ a casaccio) ma cazzo, tra “Dub Housing” e “AM” c’è un abisso più profondo dello sconcerto e dell’orrore che ho provato ascoltando “Glitter”!

Concludo affermando senza ombra di dubbio che gli Arctic Monkeys sono la band pop più valida d’Europa, con un background culturale invidiabile e una testa a capo che sforna hit che valgono milioni. Ma non sono una band rock.

  • Pro: in assoluto il miglior brit-pop, gli fanno le seghe Kaiser Chiefs, Franz Ferdinand, Killers e gli altri compagni di picnic.
  • Contro: se vi piace il rock inteso come musica autentica, e vi masturbate non su You Porn ma con le pagine di Creem dei primi ’70 allora potrebbe procuravi un infarto, o peggio le infamate degli amici (come nel mio caso).
  • Pezzo consigliato: R U Mine? credo sia il meno peggio, Arabella invece è un gioiello trash da serata goliardica.
  • Voto: 3,5/10 (vi consiglio di leggere la guida ai voti e solo dopo insultarmi)

*non voglio insinuare che se ti piacciono gli Strokes allora non puoi recensire “Orgasm” dei Cromagon, dico solo che probabilmente sei un pazzo bipolare. Tutto qua.

Lou Reed – Metal Machine Music

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Essenzialmente il più grande disco di tutti i tempi. 
Peccato che non sia così semplice.

Intanto definendo così MMM non si può in qualche modo non interrogarsi su quanto Lester Bangs possa aver influito sul mio giudizio. Nutro una enorme stima per Bangs, l’unico critico che abbia mai letto che non faceva la critica al rock, ma vera e propria critica-rock. Per Bangs era molto importante la sincerità artistica, la musica rock era, ed è tutt’ora, il mezzo di comunicazione più potente che esista, e il più democratico, quindi l’unico modo per comunicare qualcosa di Vero col rock è, banalmente, essere se stessi.

Ognuno ha la sua musica, ed ognuno ha anche il suo rock, quello di Bangs non era il garage, il punk o un’altra stupida etichetta affibbiata alla nuova moda del momento, il rock di Bangs era quello che suonava dal cuore. Può sembrare una cazzata detta così, ma basta considerare il livore che accompagnavano le sue recensioni di gente come David Bowie, James Taylor e Elton John, cioè verso tutto quel rock che era prima di tutto immagine, moda, tendenza, spettacolo o emotività spicciola.

Comunque, prima di impantanarmi e scrivere un articolo su Lester Bangs, volevo solo dire che sì, Bangs ha influito sul mio giudizio ma quando lessi la sua recensione su MMM sapevo bene cosa fosse MMM, e sinceramente la lessi come una gigantesca presa per il culo.

Cosa mi ha fatto cambiare idea?
Nel 1975 ne sono successe di cose importanti, cioè ragazzi, è uscito “Neu! ’75” dei Neu, è uscito nientepopodimenoche “Discreet Music” di Brian Eno, insomma tutta roba che smuoverà non poco le acque, tutta roba buona e sopratutto ASCOLTABILE, cazzo dovrebbe avere MMM che questi due album qua usciti lo stesso anno non hanno?

Quello che non capivo di MMM è che questo album di Lou Reed, deus ex machina di tutto il fottuto rock come lo conosciamo, non è soltanto due pezzi di plastica che suonano più o meno come un officina metalmeccanica, ma è Arte.

Dai gente, lo sappiamo tutti molto bene, Lou Reed non è John Cage. Non è Luigi Nono, non è La Monte Young, Lou Reed è un cazzone, anche perché solo un cazzone può essere il padrino adatto per il rock.

Nessun musicista rock fa Musica con la M maiuscola, proprio per questo ci piace da matti. Certo, in molti lo credono, come lo stesso Reed, ma in questa loro cieca opera masturbatoria in realtà ci donano la più bassa di tutte le forme d’arte possibili.

Tutti sappiamo cos’è “Sally Can’t Dance”, un aborto musicale degno di MTV, ma “Sally Can’t Dance” vendette milioni di copie. Perché? Perché c’era Lou Reed.

Si potrebbe dire a questo punto che l’operazione MMM sia l’equivalente della “merda d’artista” di Manzoni, ma non è affatto così! Se proprio vogliamo fare un parallelo dovremmo farlo proprio con Sally, un disco vuoto, anzi: pieno di merda, dove Reed non sapeva nemmeno cosa stava facendo. Invece MMM è il passo successivo, un passo che Manzoni non poteva fare, perché lui non era l’icona intoccabile che Reed invece incarnava e incarna per il rock.

MMM fa quello che i Kraftwerk non sono mai riusciti a fare, Lou Reed ha davvero eliminato l’uomo, il suo apporto al disco è stato quello di poggiare delle chitarre accordate come Dio-solo-sa e lasciarle piangere, ridere, scherzare fino all’annichilimento più totale.

metal-machine-music

Perché qualcuno dovrebbe ascoltare MMM?
Non c’è niente di realmente pensato in quell’album, Reed era probabilmente più fatto di quanto ci confessi oggi, allora perché, perché mi piace così tanto?

Riascoltando MMM, dopo una carrellata lunghetta sui Velvet e il primo Reed solista, mi sono come paralizzato. Il primo lato, potente, carismatico, dissonante, mi ha spaventato, ma allo stesso tempo mi ha comunicato tanto. Il terzo l’ho trovato quasi simpatico, il quarto addirittura elegiaco e monumentale.

Ma poi: chissene se ha influenzato la new-wave, la rumoristica nipponica (per inciso: io odio Merzbow) e cazzi e mazzi, e mazzi e cazzi, MMM non è musica, è un monumento al rock.

Lou Reed, l’uomo che con i Velvet Underground ha posto le basi per tutti i stramaledetti generi e sotto-generi del rock, compie la  discesa dal suo trono splendente e si rivela per quel che è: un perfetto idiota. Ma se lo è lui, gli altri cosa sono?

E da qui si giunge alla verità finale: nessuno nel rock è un genio, sono tutti musicisti falliti in partenza (detto con simpatia), idioti con la presunzione di azzeccare un riff e divenire immortali. Certo, ci sono le differenze, artisti come Eno o Fripp non possono vedersi attraverso una cotale semplificazione, ma loro non sono il rock, Lou Reed invece è sempre stato il rock per eccellenza.

Ma se Lou Reed è il rock allora cos’è MMM? 
MMM non è musica, ma ascoltandolo mi ha comunicato emozioni reali, MMM non l’ha suonato per davvero Lou Reed, eppure è un disco di Lou Reed, MMM è arte, ma di che tipo? Dada? Surreale? O forse è un tipo a sé, un qualcosa di unico e irripetibile?

Ecco: per me MMM è un evento irripetibile.

Lou Reed sconfigge il rock, sconfigge la barriera di idolatria smodata e becera, sconfigge “Sally Can’t Dance”, sconfigge l’industria e si denuda di fronte a noi.

MMM è una merda perché Lou è una merda, un’idiota che credeva davvero di fare dell’arte e di ispirarsi ai grandi compositori moderni. Eppure così facendo ci ha donati l’opera rock che più rock non si può, è così rock da trascenderlo, diventa il rock puro, perfetto.

MMM è il capolavoro del padrino di questo genere musicale così basso, diretto, sincero. È un urlo di dolore, di gioia, è come dice lo stesso Reed un vaffanculo, è l’estensione massima del suo ego.

Se quanto ho imparato è giusto, allora “Sally Can’t Dance” è un insulto bello e buono a chi ha amato Reed e il rock in generale, mentre MMM è la sua esternazione più sincera e tragica. Per questo è il più grande disco di tutti i tempi.