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Magic Cigarettes, Slift, Skeptics

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So di esser stato via per un po’ ma gli impegni reali, quelli che magari mi fanno persino campare, hanno avuto il sopravvento. Oggi vi propongo tre recensioni che non sono il MEGLIO di quello che ho ascoltato recentemente, ma semplicemente le uniche riflessioni che ero riuscito a buttar giù sul taccuino tra un treno e l’altro.

Dai dai dai.

Le Sigarette Magiche nella spirale della fattanza

Qualche secolo fa mi aveva scritto un componente dei Magic Cigarettes proponendomi l’ascolto del loro ultimo album, “Cooked Up Special”, ricordandomi della mia precedente stroncatura al loro esordio. Per dovere di cronaca: non ho mai stroncato “Magic Cigarettes”, semmai ne ho sottolineato le criticità. Vi va un riassuntino?

  1. I pezzi sono lunghi, ma senza particolari sviluppi che ne giustifichino i due o tre minuti in più di jam psichedelica.
  2. Non sono un fan del “pezzone”, cioè quella traccia che si staglia sulle altre e dirompe nel cervello stampandosi a fuoco, ma le Sigarette sembrava quasi che passassero il tempo a cercare quel riff, senza però riuscirci.
  3. Spesso i momenti più tecnici sono del tutto avulsi dal contesto.

Il tutto però in una cornice più che convincente, se vi piace il garage psichedelico.

Sinceramente preoccupato che “Cooked Up Special” non fosse dissimile dal suo fratellone, avevo già ampiamente sfiorato l’idea che la recensione non l’avrei mai scritta, perché non scrivo niente quando credo che non ci sia niente da dire. Ed invece siamo qua.

Il maggior pregio del lavoro d’esordio del 2015 qui permane, ovvero la commistione di più ambienti sonori e generi che impreziosiscono il percorso d’ascolto, stavolta esaltati dalla minor durata delle tracce. Ci sono stati dei momenti nella mia vita in cui ho creduto all’amore a prima vista, tipo nello strepitoso attacco scratch di Chill Out, o in quello garagista di Freak, che irrompe con una chitarra che ruggisce un electric-doo-wop alla Frights.

È chiaro persino ai sordi che le Sigarette, musicalmente parlando, sono sessualmente attratti dalla scena psych americana fatta di riverberi, raffinatezze sonore e fiumi di parole. Tipo i Growlers per intenderci. Effettivamente poco attratti dalla variante schiaffi-sul-muso-del-suono dei Thee Oh Sees, la loro fede si basa, più che sulle digressioni elettriche alla Barrett, sulla melodia. Se anche Rain Of Weed si presenta con quell’urletto acido che caratterizza John Dwyer e i suoi fantastici amici, ciò che segue è una canzone ballabile senza per forza rompersi una clavicola, senza insomma quei ritmi kraut indiavolati dei californiani, composta ed eseguita con eguale grazia, ma per ascoltatori diversi.

Chiaramente le Sigarette vogliono da parte del fruitore un ascolto più riflessivo, ma non per questo più ponderato. Il loro flusso non vuole frastornarti, ma piuttosto trascinarti dolcemente come la Crystal Ship dei Doors, giù negli abissi della fattanza. Può sembrare un paradosso che con dei pezzi più brevi si possa raggiungere più facilmente il risultato, ma se “lungo” è solo una scusa per dire “ganzo”, qualunque excursus diventa fine a se stesso e rompe la fluidità.

Per quanto mi riguarda non sono particolarmente preso da questo tipo di psichedelia, come per i Growlers le Sigarette per me sono troppo di tutto, riempiono lo spazio sonoro vivibile con sensibilità certamente, ma senza che la cosa susciti in me alcun ché se non un genuino interesse per la parte ingegneristica ed esecutiva.

Pezzi come Hunger Dance e Panc (una reminiscenza dei The Metopathics?) nella loro semplicità e idiozia quantomeno mi divertono e posso riascoltarle con piacere.

Sicuramente Cooked per le Sigarette rappresenta un passo avanti bello deciso, se in questo blog mettessi ancora i voti sarebbe un 7 su 10 pieno (il precedente un 6), ma non troverà la sua dimensione nella mia rete di ascolti. È come se dietro la magnifica copertina, la rilegatura preziosa e la forma elegante e forbita, non ci fossero poi dei concetti particolarmente interessanti.

Ci ascoltiamo un po’ di fantasy-garage? Ma anche no

Prodotti dalla Howlin Banana Records questa band di Toulouse è riuscita nell’intento di rovinarmi un perfetto weekend di birra-pizza-film della Troma, il tutto con il semplice ascolto del loro ultimo breve EP “Space Is The Key“.

L’hard-psych-garage degli Slift già subito dopo l’attacco al fulmicotone di Dominator aveva un che di già sentito, un olezzo di sudore ormai da quarantenne che ancora si veste con le magliette a righe, insomma ci stanno I SOLITI CAZZO DI THEE OH SEES. Ma stavolta siamo lontani dall’omaggio, perché qui siamo dalle parti del plagio più bieco.

Prendete i Oh Sees di Dwyer, metteteci un pizzico dei Fuzz col chitarrone di Moothart in bella vista, giusto una spolverata di Hawkwind ed eccovi servita una band dal grandissimo potenziale live, ma che è ontologicamente impossibilitata a scrivere qualcosa di originale.

Il pezzo forte di questo EP, la furibonda The Sword, dieci anni fa mi avrebbe esaltato come un tredicenne durante il suo primo sorso di birra con gli amici, oggi mi pare di averla già ascoltata cento volte prima ancora che cominci.

Ma la cosa che mi ha definitivamente rovinato ogni possibilità di godermi la mia double IPA Canediguerra è stato che gli Slift ci sanno fare eccome! Se i Fuzz sono una versione claudicante e a volte imbarazzante dei Blue Cheer, gli Slift sanno pienamente riprendere i fasti di band leggendarie come Cheer e Hawkwind, non compromettendone dunque le peculiarità tecniche, ma la loro musica è solo un misero copia-incolla, che non sperimenta ma al massimo assembla come con una costruzione Lego. O come un musicista vaporwave.

Le tensioni fantasy che stanno influenzando il genere (anche “Orc” dei Oh Sees la interpreta) è evidentemente arrivata anche in Francia. Il risultato, per ora, è decisamente dimenticabile.

Gli Skeptics nello spazio

Bart De Vraantijk dopo quattro-cinque anni di garagismo sixties derivativo ha deciso di cambiare rotta. Da queste parti ce ne siamo accorti tempo fa, quando l’ottima Frantic Records ha pubblicato lo split Skeptics/Prêcheur Loup, uno dei migliori split francesi degli ultimi anni.

È vero che questo primo LP omonimo non proponga poi chissà che, se non la piacevole sorpresa di ascoltare la creatura di De Vraantijk cambiare pelle come un serpente tropicale. Anche perché cos’ha di particolare una Skin of green? È un pezzo che potrebbe scrivere persino Sallusti per la sua banalità, EPPURE l’ascolto di questo album scorre in un modo davvero aggraziato.

La profonda conoscenza della band del garage sixties si sente dall’immediatezza dei riff e dalla semplicità della sezione ritmica, l’unica differenza sta nell’indirizzo cosmico che ha preso la chitarra di De Vraantijk. In pratica è come ascoltare la più banale delle surf-rock band che cerca di coverizzare qualcosa dei primi Black Mountain o dei soliti Hawkwind. Il risultato è… curioso.

Summa di tutto il lavoro i conclusivi 7 minuti di Zeeland, da ascoltare ad un volume decisamente problematico per il vostro condominio.

Davvero non so spiegarmi perché valga la pena di ascoltarsi un album che, nelle sue specificità, non rappresenta di certo un’uscita particolarmente originale né in alcun modo sperimentale. Eppure gli Skeptics nella loro immediatezza sono comunque diversi dal resto della scena garagista francese, che sebbene li accumuni delle volte una qual certa corrente estetica (penso alla psych cosmica che ha contaminato Volage, Anna, Madcaps, Baston, etc.) riesce comunque a non spersonalizzarli.

Un pezzo degli Skeptics lo riconoscono immediatamente, ed in questo marasma di uscite garagiste modaiole e sempre più svuotate di ogni necessità, non è una cosa che riesco a ignorare.