Davvero una carriera strana quella di John Dwyer e dei suoi Thee Oh Sees. I primi album interessanti, ma non particolarmente memorabili, alla fin fine ci si ricorda di “The Master’s Bedroom Is Worth Spending A Night In” giusto per quattro tracce, come anche di “Dog Poison” e via dicendo, eppure ‘sta band di depravati garagisti, figli di Syd Barrett, Can e Deviants, nel 2011 riescono a sfornare un quasi-capolavoro: “Carrion Crawler/The Dream”.
Nato dall’unione di due EP, Carrion Crawler è l’album della consacrazione, quello dove i Thee Oh Sees prendono solo il meglio della loro produzione passata (come Go Meet the Seed, Grease, The Sun Goes All Around, MT Work) fuzzandola all’inverosimile, raddoppiando la batteria, e tirando fuori dei pezzi memorabili, inventandosi di sana pianta un nuovo garage rock.
Escono raccolte, collezioni dei singoli, le fottute musicassette, e la leggenda diventa sempre più mondiale e meno californiana. Seguono un eccezionale (e molto acustico!) “Castlemania” e “Putrifers II” con una certa Lupine Dominus, un grande garage strumentale, ma è l’anno successivo quello in cui tirano fuori un altro coniglio dal cilindro ripieno di speed, il magniloquente “Floating Coffin”, un album devastante, dove l’estetica dei Oh Sees trova la sua definizione, nel 2013 sembrava che ormai non li potesse più fermare nessuno. Tranne Dwyer stesso.
E difatti l’anno scorso parlavamo di quella merda di “Drop”, un album anemico, senza i veri Thee Oh Sees ma con dei comprimari che accompagnavano ossequiosi le nenie psichedeliche-beat di Dwyer, passato da Syd Barrett a Jeffrey Novak senza pensarci troppo sopra. Manca il nerbo dei Thee Oh Sees, ma sopratutto mancano le idee, i riff sembrano tutti riciclati dagli album precedenti, come le melodie e i rumori, ma compressi in un formato più appetibile a tutti, meno claustrofobico e ipnotizzante.
Meno di un mese fa è uscito “Mutilator Defeated At Last”, l’ultima fatica di Johnny D., dove registriamo il ritorno di Brigid Dawson, e un timido accenno alle origini della band dopo la derapata di “Drop”.
Quello che mi lascia perplesso di questo album è che trova i suoi momenti migliori quando Dwyer evita di coverizzare se stesso, ma piuttosto si butta su sonorità nuove.
Sticky Hulks è sicuramente il piatto forte di Mutilator che per il resto, ve lo dico subito, non sa di un cazzo. Sticky Hulks si basa su un continuo rimando ai settanta, con assoli micidiali, il ritmo e il cantato alla Pink Floyd (Waters, purtroppo), cambi di tempo prevedibili fin dal primo secondo di ascolto, ma riuscendo forse in quello che Tame Impala e compagnia revival cantante non è riuscita finora, ovvero a far proprio un sound di quarant’anni fa.
La cosa tragica è che le prime cinque tracce sono tutte delle pseudo-cover dei Thee Oh Sees, e non se ne proprio capisce il motivo. Roba riciclata all’infinito quando poi dimostri che puoi fare altro, e meglio!
Anche Holy Smoke si staglia sul resto, perché non sembra un pezzo dei Thee Oh Sees, una fuga acustica che non ha nulla a che fare con “Castlemania”, con un mellotron incantevole.
Quello che si può dire è che l’arrivo di Chris Woodhouse (al sintetizzatore, mellotron e anche al missaggio finale) ha cambiato non poco il sound della band, ma non è bastato di fronte al bisogno ontologico di Dwyer di ripetersi all’infinito. Sebbene pezzi come Withered Hand e Palace Doctor siano eccezionalmente camuffati dal prodigioso lavoro di Woodhouse, ci vuole poco per capire che è già tutta roba vecchia solamente tirata a lucido.
Prima che qualcuno se ne risenta perché «che cazzo vuol dire tirata a lucido, scrivi come mangi stronzo» maledetti fangirl & boys, metto le mani avanti: le sentite più quelle linee di basso hardcore? No, perché invece di Dammit qua abbiamo Tim Hellman, che punzecchia le quattro corde come nel Mersey Beat si ‘sto cazzo. Vi ricordate il ritmo kraut-apocalittico del duo Finberg-Shoun alla batteria? Niet, c’è spazio solo per Nick Murray, che al massimo scimmiotta la forza trainante di Finberg.
Ma poi cazzo l’avete sentita quella roba di Poor Queen? Sembrano i Thee Oh Sees versione Top of the Pops, col canto da sciacquata di ascelle sotto la doccia e il piglio dei Monkees.
C’è chi la chiama maturità, per me sono solo i vecchi album missati da Woodhouse, che è quello che ne esce meglio di tutti da questo sperpero di energie (che fra l’altro dura giusto mezz’ora, perché nel 2015 si ragiona ancora con lo standard dei 33 giri, porcatroia).
Colgo l’occasione di questa ultima recensione per annunciare l’arrivo di un nuovo collaboratore nel blog! La cosa bella è che ho aperto questo ricettacolo di cazzate sul web proprio grazie a ‘sto tipo, appassionandomi alla critica leggendo le sue funamboliche recensioni su Splinder. Ne vedrete delle belle!