Questo podcast è stata una delle cose più difficili che io abbia mai fatto, ma non è né un piagnisteo né una cazzata, è una cosa che io e Lorenzo sentivamo di fare e che avrà un seguito molto particolare Martedì 4 alle 21:30 su RadioValdarno. Non voglio aggiungere altro. Buon ascolto.
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L’inconscio e la musica della macchina di metallo
Articolo di: bfmealli
Se l’inconscio avesse un suono quello sarebbe il feedback della chitarra. E se l’Ego di questo strumento venisse filtrato da quel Super-Io che è il musicista allora il sibilo incontrollato dei pick-up troppo vicini all’amplificatore, sarebbe sicuramente l’Es. Non è un caso che tale tramestio venga percepito dalla massa come mero rumore, rigettato dai più come fastidio acustico e nulla più quando invece, alcuni artisti, ne hanno fatto un complesso argomento di studio musicale.
Prima che divenisse di dominio pubblico – tanto è vero che Paul McCartney si accreditò la paternità di essere stato il primo ad usarlo in una canzone – il feedback era qualcosa da evitare: la parte più fastidiosa della chitarra elettrica, quel difetto che invece la chitarra acustica non poteva giocoforza avere.
Per questi motivi posso tranquillamente affermare che Metal Machine Music sia il disco più psicanaliticamente interessante di tutto il panorama rock. Oltre alle premesse suddette prendo in esame anche le uniche parole presenti nel disco: le note di copertina scritte di proprio pugno da Lou Reed. E’ interessante, dunque, l’analisi che l’autore fa del suo disco come rock reale su cose reali mentre critica quel movimento ultimamente imbarazzante quale l’heavy metal rock etichettandolo effetto periferico nonché distorto di quella realtà che questo album possiede.
Se poi prendiamo un attimo in esame il privato di Lou Reed, nel 1975, anno di nascita di Metal Machine Music, ci troviamo davanti ad un povero musicista derelitto scarnificato, strafatto, insoddisfatto ed infelice reduce del suo ultimo disco di studio che lui stesso definiva mediocre (testualmente: “E’ incredibile. Più faccio schifo e più vendo. Se nel prossimo disco non compaio affatto arriverò al numero uno”) più due live ordinatigli dalla casa discografica; tra trans e pere di amfetamina scandiva la propria settimana con gli anni dei suoi fans ma, nonostante tutto, sentiva che doveva dare qualcosa a sé stesso, all’artista che pensava di essere: doveva dimostrare che i primi due dischi dei Velvet Underground non erano un caso isolato e, soprattutto, non erano prevalentemente merito di John Cale (anche se rimarrà sempre emblematico il distinguo che il gallese apportò alle composizioni di Lou Reed che, da band folk-blues con tematiche in netto contrasto col flower power di quegli anni, i Velvet Underground divennero la band di riferimento del Rock).
Così Lou Reed intuisce che persino la chitarra può mentire, può essere ipocrita, può nascondere e può venderti. L’unico modo per poterla davvero comprendere per quello che è realmente è il feedback: ovvero il corrispettivo strumentale di una seduta psicanalitica. In questi quattro lati di 16 minuti e 10 i dispari e di 15:55 i pari c’è l’inconscio che vaga come il flusso di Molly Bloom nell’ultima parte dell’Ulisse: niente punteggiature, nessun capoverso, nessun ritmo, nessuna nota; i pensieri sono sconnessi così come lo è l’ondata di rumori, non ha riferimenti, non ha una direzione, è memoria ed essenza. E’ per questo motivo che nell’intervista di Lester Bangs Lou Reed non fa provocazione asserendo che in questo disco puoi sentirci passaggi di Vivaldi, di Beethoven e di Mozart, qua dentro c’è tutto e di più, nella stessa forma distratta, distorta ed astratta che hanno i sogni.
E questo album usciva, guarda caso, solo pochi anni prima che esplose quel movimento rumoristico che fu chiamato No-Wave, dove il feedback veniva alzato come bandiera distintiva. Anche se fu un totale disastro commerciale tanto da venire ritirato dal commercio solo tre settimane dopo l’uscita, voglio credere che sia grazie a Metal Machine Music se poi il feedback è stato “accettato” dai musicisti come parte integrante della chitarra, nonostante la maggior parte dei chitarristi continui ad usare il feedback come elemento di disturbo e non come segmento di coscienza dello strumento.
Il secondo singolo degli Who, che precede di dieci anni esatti Metal Machine Music, Anyway, Anyhow, Anywhere, ha, a metà canzone, durante lo strumentale, come colonna portante un feedback switchato (che poi sarebbe diventato uno dei marchi distintivi di Pete Townshend) che sovrasta la sezione ritmica; sarà stata la giovane età del rock e della chitarra elettrica ma, come venne distribuito, i negozianti rispedirono al mittente quel disco reo di contenere un rumore infernale a metà canzone. Mi piace pensare che il vero motivo dell’incomprensione sia stato averlo riconosciuto più che un errore tecnico come un lapsus.
Se vuoi leggere altri deliri del buon vecchio bfmealli non hai che da cliccare qui:L’algebra del bisogno.
Zig Zags – Scavenger/Monster Wizard
[Sì, lo so, non è una recensione vera e propria, e quasi una presentazione, ma cazzo, ero in uno stato d’animo trascendentale allucinatorio mai subito prima!]
Quando mi sono ritrovato ad ascoltare il loro ultimo pezzo, uscito su bandcamp nel consueto formato 7’’ da punk rocker sfigato, sono saltato sulla sedia.
Ho pensato: ci siamo! Che gli Zig Zags fossero sulla strada giusta era già chiaro a quei quattro asociali tipo me, un sound potentissimo perfettamente in linea con il nuovo garage americano, ma qualcosa di più ha toccato questi ragazzi di belle speranze.
Non so bene cosa cazzo scrivere, perché li sto ascoltando a tutto volume proprio in questo momento, le mie casse ruggiscono di un rock spaventoso ed io sono chino su questo cazzo di quadernino e non capisco, non non non non non [seguono frasi sconclusionate qui censurate]
La mia testa è del tutto franata, i riff distorti all’inverosimile, un low fi non più nostalgico ma dettato da un imperativo categorico che ha trovato la sua dimensione in un determinato spazio metafisico tra garage, drone e psichedelia! Se i Fuzz riprendono i Blue Cheer e i Thee Oh Sees sono il nuovo ideale psichedelico, gli Zig Zags evolvono il garage rock contemporaneo slegandolo definitivamente col passato (altro che il compitino applaudito dalla critica di John Reis!).
La loro carriera probabilmente comincia attorno al 2009-2010, la loro prima pubblicazione risale a ottobre dell’anno scorso, sempre un EP da 7’’ dal sound molto drone e psichedelico. “Monster Wizard/Turbo Hit” è il rumore puro alla “Metal Machine Music” finalmente ritornato alle sue radici rock, controllato e addomesticato senza però perdere la sua forza primordiale.
Monster Wizard è mille volte più potente di qualsiasi cosa uscita in ambito garage, gli Zig Zags hanno probabilmente raggiunto la massima vetta in questo senso. Il sound degli Stooges e degli MC5 incontra finalmente i feedback lancinanti di Ty Segall e la musica drone, passando per “Carrion Crawler/The Dream” dei Thee Oh Sees. Nemmeno i Thee American Revolution raggiungono queste vette di devastazione sonora.
Già Turbo Hit sembra più “umana”, più “normale”, ma è solo perché ormai Monster Wizard ci ha aperto la mente a un mondo infernale di rumori e distorsioni talmente rock da far impallidire il 99% della produzione contemporanea.
Finalmente il 3 gennaio di quest’anno pubblicano il loro primo album, che per me è stato una mezza delusione al primo ascolto, ma cazzo, era solamente il primo ascolto.
“10-12” come si può intuire è una raccolta di tapes della loro finora breve ma straordinaria carriera.
Un fastidiosissimo rumore di sottofondo che mi insegue fin dalla breve Psychomania mi avverte subito che d’ora in poi le cose saranno un po’ diverse dal solito.
Prometto che farò presto una recensione di questo album, ma finora sono riuscito solo a subirlo passivamente, mi annichilisce del tutto.
Sempre nel 2012 avevano anche pubblicato un breve LP con Iggy Pop, “If I’m Luck I Might Get Picked Up”, la cosa migliore che abbia mai sentito cantare all’Iguana dai tempi di “Fun House”.
In realtà, come scoprirete da voi, l’ultimo 7’’ uscito dei Zig Zags sono due singoli già usciti tempo prima, uno nel disco sopra citato e uno nella loro prima pubblicazione ufficiale, si intitola infatti “Scavanger/Monster Wizard”.
Ma allora, se sono pezzi che ho già sentito tempo prima, perché saltare ancora una volta dalla sedia?
Perché gli Zig Zags rischiano di finire tra le mie band preferite di sempre, e forse non soltanto tra le mie.
- Pro: la miglior band garage contemporanea.
- Contro: se non vi piace la drone, il garage rock, la psichedelia, cazzo ci state a fare in ‘sto blog ancora non l’ho ben capito.
- Pezzo consigliato: sono solamente due e molto brevi, non essendo un album, quindi direi che potete fare lo sforzino di cuccarveli tutti e due.
- Voto: 9/10
The Monks – Black Monk Time
Primo: la band che prenderemo in considerazione in questa recensione spacca i culi con potenti dosi di rock, quindi dovete ascoltare questo dannato disco.
Secondo: sono in vacanza, quindi sono in uno stato di scazzo assolutamente giustificato, la recensione verrà di merda, potete dunque saltarla a piè pari e scendere dal vostro spacciatore di dischi di fiducia e comprare questo fottutissimo album.
Cominciamo.
Qual’è il ritmo dell’estate?
Non so il vostro ma il mio qua a Villagrazia di Carini, in provincia di Palermo, viaggia costantemente su fastidiose emissioni di musica latino-americana, Lunapop, Donna Summer e Muse sparati a palla dal carretto dei gelati. Preferirei un concerto dei Sonata Artica a tutto questo.
Detto ciò grazie agli straordinari ritrovati tecnologici contemporanei (le musicassette) riesco a sopravvivere quel tanto che basta per scrivere cagate sul computer e per leggere roba come “Lila” di Pirsig e “Please Kill Me” della premiata ditta McNeil-McCain. Inoltre il costante rompersi dello stereo fortifica la mia dolce ulcera.
Naturalmente sono al mare, ma la brezza marina non aiuta molto, non almeno quando, verso le due e mezzo del mattino, trasporta in camera mia assieme alla sua frizzante arietta anche le serate di karaoke a qualche isolato da qui.
Ci sono anche i vicini, ma a quelli cerco di contrattaccare. Ogni qual volta il mio gentile vicino tenta di inquinare il mio spazio vitale con oscenità sonore che vanno dai sempre verdi Backstreet Boys a Vasco Rossi io rispondo a mio modo, e quale modo migliore se non un album come “Black Monk Time”?
Se sapete già chi sono i Monks mi avrete mandato a cagare sù per giù alla seconda riga di questa sconclusionata recensione, ma se non li conoscete sappiate che vi siete persi (finora) una delle band più assurde e geniali dell’intera storia del rock & roll.
Intanto contestualizziamo (quindi mi stappo una birra), siamo nella prima metà degli anni ’60, i Monks credo comincino a suonare assieme intorno al ’64, e se i giovani virgulti dell’epoca ascoltavano i Beach Boys con i loro coretti che anticipavano i Village People e i cori ecclesiastici nella zona di Rignano sull’Arno, altri un po’ più furbi (come i Monks) ascoltavano le folli distorsioni del vero surf rock di Dick Dale (mentore di Hendrix), avevano in casa “The Standells In Person At Pjs” e si masturbavano al ritmo dei Vagrants e dei mitici Sonics (punk ante-litteram). Bei tempi in effetti.
Comunque questi cinque militari (!) americani di stanza a Francoforte avevano un’avversione per una band in particolare: i Beatles. Il che, molto stranamente, non gli è avvalsa la prima posizione in tutte le classifiche di Scaruffi.
I loro ritmi scanzonati [parlo dei Beatles], le loro canzoncine d’amore alternate a qualche sporadica considerazione sulla realtà al di fuori della loro gabbia dorata (che arriverà dopo “Rubber Soul”) facevano incazzare i Monks come Richard Benson davanti ad un pollaio. Così decisero, per motivi che non intendo sondare, di vestirsi da monaci (con tanto di chierica) e di provocare le masse con riff che facevano tremare le palle a tutti i vari Kings, Yardbirds e cazzi e mazzi.
Il sound che i Monks concepiranno è oggi oggetto di discussione tra i critici di DeBaser o di Onda Rock, i quali adorano come nessuno i discorsi intorno al nulla o sull’effimero.
Sicuramente troverete persone che vi diranno che i Monks anticipano il punk, il che è giusto parzialmente ma se consideriamo band come Sonics o i Troggs, i quali sono molto più proto-punk dei quattro frati americani, allora forse è meglio semplificare le cose e inserirli nel miglior garage rock di sempre (hanno qualche affinità per esempio con i Music Machine, se non fosse per il banjo elettrico!).
Qualche pazzo addirittura li inserisce tra i fondatori dei kraut rock, e io proprio non capisco. Se in I’m Waiting For The Man dei Velvet è più che mai doveroso parlare davvero di punk sia come sound che come testi e concetto, nei Monks il sound, per quanto ritmato e deciso, è comunque legato al garage ed è ben distante dai ritmi serrati del kraut che erano funzionali a negare concettualmente un certo tipo di rock (consapevolezza che manca ai monaci del garage). Quindi ci sta di ascoltarli e sentire quasi una predizione dei Neu! o dei Faust, ma se nel caso dei Velvet, come nei Sonics e nei Troggs, la volontà di essere punk esiste ben prima che il concetto possa essere espresso, nei Monks c’è solo una voglia di avversione ai Beatles e company che si vuole esprimere con il vero rock, il garage per l’appunto.
I Monks non solo ti aggrediscono con un rock davvero pesante e irriverente per il 1966 (data di pubblicazione del loro unico album, “Black Monk Time”) ma oltretutto non si risparmiano neanche nelle liriche. E qui siamo lontani dal sesso frenato dei Sonics o dei Troggs, siamo lontani dai riferimenti alla droga di inni come Here Come the Nice degli Small Faces (che è dell’anno successivo, ma ricordiamoci che sono in vacanza e sto cazzeggiando allegramente, ok?), in “Black Monk Time” si parla di politica, e in particolare di guerra.
Solo un’altra band, ancor più leggendaria dei Monks, aveva usato toni così diretti (e anche indiretti, siamo comunque nel ’66) nel parlare di guerra negli USA: i Fugs.
Se tutto ciò non vi basta ascoltatevi i riff veloci e sporchi di Higgle-Dy-Piggle-Dy (con un organo allucinato alla Brian Auger), innamoratevi di uno dei capolavori del rock: Complication, lasciatevi stupire dal banjo elettrico di Shut Up.
Volete zittire il vicino al mare che mette a tutto volume i suoi balli di gruppo latino americani (che poi ballerà la sera stessa con i parenti over 50) con un po’ di sano rock? Beh, dato che con “Metal Machine Music” vi becchereste una bella denuncia per inquinamento acustico, allora potete tranquillamente virare verso i Monks.
- Pro: semplice e incazzato rock. Vi pare davvero poco???
- Contro: boh.
- Pezzo consigliato: Complication.
- Voto: 7,5/10
Lou Reed – Metal Machine Music
Essenzialmente il più grande disco di tutti i tempi.
Peccato che non sia così semplice.
Intanto definendo così MMM non si può in qualche modo non interrogarsi su quanto Lester Bangs possa aver influito sul mio giudizio. Nutro una enorme stima per Bangs, l’unico critico che abbia mai letto che non faceva la critica al rock, ma vera e propria critica-rock. Per Bangs era molto importante la sincerità artistica, la musica rock era, ed è tutt’ora, il mezzo di comunicazione più potente che esista, e il più democratico, quindi l’unico modo per comunicare qualcosa di Vero col rock è, banalmente, essere se stessi.
Ognuno ha la sua musica, ed ognuno ha anche il suo rock, quello di Bangs non era il garage, il punk o un’altra stupida etichetta affibbiata alla nuova moda del momento, il rock di Bangs era quello che suonava dal cuore. Può sembrare una cazzata detta così, ma basta considerare il livore che accompagnavano le sue recensioni di gente come David Bowie, James Taylor e Elton John, cioè verso tutto quel rock che era prima di tutto immagine, moda, tendenza, spettacolo o emotività spicciola.
Comunque, prima di impantanarmi e scrivere un articolo su Lester Bangs, volevo solo dire che sì, Bangs ha influito sul mio giudizio ma quando lessi la sua recensione su MMM sapevo bene cosa fosse MMM, e sinceramente la lessi come una gigantesca presa per il culo.
Cosa mi ha fatto cambiare idea?
Nel 1975 ne sono successe di cose importanti, cioè ragazzi, è uscito “Neu! ’75” dei Neu, è uscito nientepopodimenoche “Discreet Music” di Brian Eno, insomma tutta roba che smuoverà non poco le acque, tutta roba buona e sopratutto ASCOLTABILE, cazzo dovrebbe avere MMM che questi due album qua usciti lo stesso anno non hanno?
Quello che non capivo di MMM è che questo album di Lou Reed, deus ex machina di tutto il fottuto rock come lo conosciamo, non è soltanto due pezzi di plastica che suonano più o meno come un officina metalmeccanica, ma è Arte.
Dai gente, lo sappiamo tutti molto bene, Lou Reed non è John Cage. Non è Luigi Nono, non è La Monte Young, Lou Reed è un cazzone, anche perché solo un cazzone può essere il padrino adatto per il rock.
Nessun musicista rock fa Musica con la M maiuscola, proprio per questo ci piace da matti. Certo, in molti lo credono, come lo stesso Reed, ma in questa loro cieca opera masturbatoria in realtà ci donano la più bassa di tutte le forme d’arte possibili.
Tutti sappiamo cos’è “Sally Can’t Dance”, un aborto musicale degno di MTV, ma “Sally Can’t Dance” vendette milioni di copie. Perché? Perché c’era Lou Reed.
Si potrebbe dire a questo punto che l’operazione MMM sia l’equivalente della “merda d’artista” di Manzoni, ma non è affatto così! Se proprio vogliamo fare un parallelo dovremmo farlo proprio con Sally, un disco vuoto, anzi: pieno di merda, dove Reed non sapeva nemmeno cosa stava facendo. Invece MMM è il passo successivo, un passo che Manzoni non poteva fare, perché lui non era l’icona intoccabile che Reed invece incarnava e incarna per il rock.
MMM fa quello che i Kraftwerk non sono mai riusciti a fare, Lou Reed ha davvero eliminato l’uomo, il suo apporto al disco è stato quello di poggiare delle chitarre accordate come Dio-solo-sa e lasciarle piangere, ridere, scherzare fino all’annichilimento più totale.
Perché qualcuno dovrebbe ascoltare MMM?
Non c’è niente di realmente pensato in quell’album, Reed era probabilmente più fatto di quanto ci confessi oggi, allora perché, perché mi piace così tanto?
Riascoltando MMM, dopo una carrellata lunghetta sui Velvet e il primo Reed solista, mi sono come paralizzato. Il primo lato, potente, carismatico, dissonante, mi ha spaventato, ma allo stesso tempo mi ha comunicato tanto. Il terzo l’ho trovato quasi simpatico, il quarto addirittura elegiaco e monumentale.
Ma poi: chissene se ha influenzato la new-wave, la rumoristica nipponica (per inciso: io odio Merzbow) e cazzi e mazzi, e mazzi e cazzi, MMM non è musica, è un monumento al rock.
Lou Reed, l’uomo che con i Velvet Underground ha posto le basi per tutti i stramaledetti generi e sotto-generi del rock, compie la discesa dal suo trono splendente e si rivela per quel che è: un perfetto idiota. Ma se lo è lui, gli altri cosa sono?
E da qui si giunge alla verità finale: nessuno nel rock è un genio, sono tutti musicisti falliti in partenza (detto con simpatia), idioti con la presunzione di azzeccare un riff e divenire immortali. Certo, ci sono le differenze, artisti come Eno o Fripp non possono vedersi attraverso una cotale semplificazione, ma loro non sono il rock, Lou Reed invece è sempre stato il rock per eccellenza.
Ma se Lou Reed è il rock allora cos’è MMM?
MMM non è musica, ma ascoltandolo mi ha comunicato emozioni reali, MMM non l’ha suonato per davvero Lou Reed, eppure è un disco di Lou Reed, MMM è arte, ma di che tipo? Dada? Surreale? O forse è un tipo a sé, un qualcosa di unico e irripetibile?
Ecco: per me MMM è un evento irripetibile.
Lou Reed sconfigge il rock, sconfigge la barriera di idolatria smodata e becera, sconfigge “Sally Can’t Dance”, sconfigge l’industria e si denuda di fronte a noi.
MMM è una merda perché Lou è una merda, un’idiota che credeva davvero di fare dell’arte e di ispirarsi ai grandi compositori moderni. Eppure così facendo ci ha donati l’opera rock che più rock non si può, è così rock da trascenderlo, diventa il rock puro, perfetto.
MMM è il capolavoro del padrino di questo genere musicale così basso, diretto, sincero. È un urlo di dolore, di gioia, è come dice lo stesso Reed un vaffanculo, è l’estensione massima del suo ego.
Se quanto ho imparato è giusto, allora “Sally Can’t Dance” è un insulto bello e buono a chi ha amato Reed e il rock in generale, mentre MMM è la sua esternazione più sincera e tragica. Per questo è il più grande disco di tutti i tempi.