Etichetta: Night School
Paese: Scozia (UK)
Anno: 2012
Archivi tag: metal
L’analisi estetica di Bat Out Of Hell
I can see myself tearin’ up the road
Faster than any other boy has ever gone
And my skin is raw but my soul is ripe
And no one’s gonna stop me
Now I’m gonna make my escape
I tre capitoli della saga di BOOH (eh eh eh) sono ormai considerati capisaldi dell’heavy metal e più in generale del rock melodico anche dal mio kebabbaro di fiducia. Personalmente ho conosciuto la mastodontica opera rock di Jim Steinman e Meat Loaf che avevo 14 anni, in Germania, rapito dalla esuberante copertina che prometteva un totale riscatto dal mio stato di brufoloso adolescente, sessualmente distratto dai fumetti e dai videogiochi meno popolari del momento (cover, fra l’altro, firmata dal grandissimo illustratore Richard Corben, allora celebre nelle pagine di Heavy Metal, la filiale americana della leggendaria Métal Hurlant).
All’epoca credevo che il ruòk fosse tutto chitarre fumanti e tette, proprio come insegnavano i poster di Ted Nugent e Sammy Hagar che coprivano le pareti di camera mia. Da allora sono passati tanti anni, e quel 33 giri che conoscevo nota per nota, di cui avevo riscritto tutte le liriche su un quaderno che ho sacrificato tempo dopo a Satana perché me ne dimenticassi, adesso è sepolto da altri album anch’essi svalutati nel tempo, polveroso e inerme.
Ad oggi tutta quella pomposità e voglia di divertirsi in grande stile musical anni ’70 al vostro blogger contemporaneo provoca degli inspiegabili rush alle palle, con successivo ingrossamento e incontrollabile moto ellittico. Ciò non toglie che l’opera di Steinman possegga un che di leggendario, ed abbia conosciuto uno dei maggiori successi commerciali di tutti i tempi, il che non capita poi così tanto spesso ad album comunque fuori dai canoni più riconoscibili della pop music, ma questo è un marchio di fabbrica di Jim Steinman, capace di ripetersi svariate volte con una quantità smodata di anti-hit super popolari, anche da 9 minuti (di cui tre di riferimenti mahleriani).
Ora, prima di cominciare a ciarlare anche del mio metodo di scelta dei boxer, torniamo sul punto: l’analisi estetica di Bat Out Of Hell, ma non l’album, la canzone. Facciamo un po’ di contestualizzazione…
Faster than any other boy has ever gone
Sarò spietato, ma devo dirlo: dei tre capitoli l’unico che si salva per me è il primo. E non fate subito caciara però! Cercate di capirmi, a me tutta ‘sta roba testoteronica a stelle e strisce mi fa davvero salire il Togliatti nelle vene. Non la demonizzo, sia chiaro, però…
“Bat Out of Hell III: The Monster Is Loose” (2006), capitolo conclusivo della trilogia, è effettivamente un tentativo di allontanarsi dagli stilemi anacronistici dei primi due album, ma il risultato è senza nerbo, manca totalmente delle capacità espressive comunque innegabili dei precedenti. Insomma, fa cagare. “Bat Out of Hell II: Back into Hell” (1993) è il migliore del lotto per quanto riguarda la qualità compositiva e la ricercatezza estetica, però suona davvero fuori dal suo tempo, vi ricordo che quello è l’anno di “Rid Of Me” (PJ Harvey) e “Good” (Morphine). Più che nostalgia quella di Meat Loaf è necrofilia bella e buona.
Nel pacchetto del primo album le canzoni popolarmente più amate sono la title track, You Took the Words Right Out of My Mouth (Hot Summer Night), Heaven Can Wait e Paradise by the Dashboard Light. Della seconda parliamo dopo, ma diciamo subito che già Heaven Can Wait che Paradise, per quanto riuscite, non raggiungono la splendida forma dinamica e roboante della title track. La prima è una ballad come ce ne sono a palate, nei ’70 poi! Paradise invece è un brillante pastiche tra Slade, Springsteen e favolose reminiscenze musical, costruendo una soap-opera delirante piuttosto buffa, ma si capisce subito che è tutta una scusa per far vedere quanto ce l’avessero lunghissimo.
Hot Summer Night è ricavata, proprio come buona parte dell’album, da un altro progetto del buon Steinman, “Neverland” il musical di Peter Pan. Francamente non lo conosco né visto riprodotto su nessun supporto, ma immagino ci sia un Peter Pan tirato a lucido come Sylvester Stallone nel secondo Rambo, fronteggiare un demoniaco Capitan Uncino interpretato probabilmente da un Rob Halford in tacchi a spillo e chiodo incandescente. In Hot Summer Night le caratteristiche tipiche del rock melodico anni ’70 vengono fuori con una certa grazia, e si sviluppano con la tipica prosopopea steinmaniana. L’intro è semplicemente esilarante, uno scambio di battute con quel tipico romanticismo gotico parodistico che Steinman interpreta in prima persona con una certa incisività. Segnata da una sezione ritmica travolgente e dal carisma ineguagliabile di Meat Loaf, la canzone sfiora livelli di perfezione tamarra veramente irraggiungibili. Però, sebbene ci troviamo davvero vicini alle cime tempestose della title track, ancora non ci siamo per quanto concerne l’incredibile disposizione diegetica dei singoli elementi.
Before the final crack of dawn
Sotto molti aspetti si potrebbe definire BOOH come il vero epigono dei Gun, il trio inglese che nel 1968 esordì con il loro album omonimo, da tantissimi considerato come il primo esempio di heavy metal nella storia del rock. Non è certo un caso se la canzone che apre e traina il disco del ‘68 sia Race With The Devil. La corsa, la fuga, interpretata su più piani, è uno degli aspetti estetici più rappresentativi dell’heavy metal, da una parte la velocità di esecuzione e i ritmi INFERNALI, dall’altra la poetica della velocità come fuga dalla realtà verso mete fantastiche ed epiche.
In una edizione credo relativamente recente di “Sin After Sin” dei Judas Priest, album uscito anch’esso nel 1977 come BOOH, c’è una cover bella tosta di Race With The Devil, dove però si perde la vena più pomposa che è invece ben presente nella musica del trio inglese. È una interpretazione dell’heavy metal che non disdegna il testosterone e una certa auto-ironia (la grande crasi dei Judas Priest fra l’altro), ma che non sfocia comunque nel delirante glamour glitterato di Steinman, il quale declina questa propensione all’opulenza in un senso strettamente romantico decadente. Steinman in un certo senso è stato il musicista che ha meglio interpretato la declinazione operistica del metal, ma sempre in un’ottica di puro intrattenimento, e non come velleità artistica.
Come nel tentativo di dare vita all’opera rock per eccellenza, il nostro eroe riduce al minimo la sua presenza da deus ex machina, lasciando volontariamente in primo piano l’opera in sé, proponendosi come uno strano e psichedelico direttore d’orchestra. Non è nemmeno l’indiscusso protagonista delle sezioni di piano, avendo premuto per avere accanto un talento puro come quello di Roy Bittan della E Street Band, e in più non cerca di uscire dall’ombra di due personaggi istrionici come Meat Loaf e Todd Rundgren! Una scelta che poi pagherà cara per i crediti, ma quelli sono cazzi suoi.
Per la sezione ritmica non vola basso, anzi, ci piazza sempre dalla band di Springsteen Max Weinberg coadiuvato dal super-tecnico Willie Wilcox alle pelli. A completare Kasim Sulton al basso, eccellente turnista ma sopratutto, come Wilcox, membro della band di Rundgren: gli Utopia (agg. [dal lat. tardo merdus, der. di “merda”]). Attorno a questi nomi di peso c’è comunque il meglio del meglio dell’epoca, almeno per quanto riguarda la tamarraggine più spinta.
La presenza della sezione fiati e di ben cinque pianisti (di cui uno al sintetizzatore, è comunque il 1977) fanno capire quanto l’armonia sia un aspetto molto curato da parte di Steinman, come anche il mantenere tutti gli strumenti in primo piano, saturando così ogni centimetro quadrato tra un orecchio e l’altro senza però confonderci, e questo grazie al lavoro agli arrangiamenti di Kenneth Ascher, un altro peso massimo su un ring particolarmente affollato.
Steinman insomma cura ogni dettaglio perché la sua musica si possa esprimere con tutte le sue sfumature e ampollosità, decide inconsciamente che sarà lui a far germinare il seme che il trio londinese aveva posto nove anni prima, giungendo a quella che, probabilmente, è e sarà per sempre ricordata come la più sfarzosa e gioiosa opera rock consegnata alla storia.
Ritornando sul punto (di nuovo): nel gergo popolare fare qualcosa “like a bat out of hell” significa farlo panicando, senza pensarci troppo sù e con una certa fretta. Nell’album sebbene la musica sia rigidissima nella sua struttura (per quanto eclettica e delle volte rocambolesca nelle soluzioni melodiche) la sensazione che si ha è quella di assistere ad un teen drama a rotta di collo, dove il protagonista si sbatte come un matto per un amore puro e intoccabile, mentre nel frattempo sfugge dagli orrori della adolescenza, fino alla sua ineluttabile morte tra fuochi d’artificio e schitarrate epocali.
Eppure è proprio da questa disgrazia che si apre l’album, che comincia dove la storia finisce…
Like a bat out of Hell
Metti la puntina giù e deflagra un temporale. Il rombo delle chitarre imita quello di un gigantesco motore, seguono i pianisti che con un ritmo assatanato accompagnano i primi metri della corsa, da sinistra l’eco di una chitarra seguito da un altro a destra, finché non manca più il respiro e tutto crolla in uno scontro mortale. Da questa nube elettrica i primi accordi e l’assolo di Rundgren che come un fulmine si staglia luminoso in mezzo ad una furibonda tempesta.
La voce di Meat Loaf si presenta teatrale e ispirata, un pianoforte continua a puntellare una melodia sempre più chiara e complessa:
The sirens are screamin’
And the fires are howlin’
Way down in the valley tonight
There’s a man in the shadows
With a gun in his eye
And a blade shinin’ oh so bright
There’s evil in the air
And there’s thunder in the sky
And a killer’s on the bloodshot streets
Oh and down in the tunnel
Where the deadly are rising
Oh I swear I saw a young boy
Down in the gutter
He was starting to foam in the heat
Le immagini sono semplici, fulgide, incredibilmente esasperate e parodistiche, ma non per questo meno pregne di un romanticismo quasi byroniano, anche se al posto dei cavalieri ci stanno i motociclisti metallari a petto nudo e villoso. Ci viene descritto un mondo dannato, pieno di pericoli mortali, al quale però c’è una speranza:
Oh baby, you’re the only thing
In this whole world
That’s pure and good and right
And wherever you are
And wherever you go
There’s always gonna be some light
Arrivano i cori, per sottolineare la sacralità di questa visione femminile, assolutamente pura e casta come vuole la tradizione (e come permane in tutto l’album). L’ideale di questo amore fa parte del processo di crescita del protagonista, che lo vive con una visceralità dissacrante.
But I gotta get out
I gotta break it out now
Before the final crack of dawn
So we gotta make the most
Of our one night together
When it’s over you know
We’ll both be so alone
Like a bat out of Hell
I’ll be gone when the morning comes
Oh, when the night is over
Like a bat out of Hell
I’ll be gone, gone, gone
Sì, bello l’amore eh, però lasciamoci un po’ di spazio! Comincia dunque la fuga, una corsa contro la morte – sì, il nostro protagonista tende al prosaico se non si fosse ancora inteso. E allora la musica si fa davvero pomposa e teatrale, con guizzi e drappeggi elettrici che ci circondano, ma non per molto, Steinman da giusto un assaggio delle possibilità corali dell’orchestra, che intanto sta dirigendo come un posseduto. C’è ovviamente Wagner, ma il compositore californiano guarda anche a Mahler e alla sua incredibile potenza narrativa.
But when the day is done
And the sun goes down
And the moonlight’s shinin’ through
Then like a sinner
Before the gates of Heaven
I’ll come crawlin’ on back to you
A questo punto sono state poste tutte le basi estetiche del pezzo. La corsa è reale, non solo metaforica, e viene sempre sottolineata dalle sferzate di Rundgren alla chitarra, come dalla corsa del pianoforte. Ogni elemento viene posizionato con un preciso scopo narrativo: i cori nella descrizione angelica della ragazza, il rombo del motore come metafora della lotta interiore del protagonista, fino alla voce di Meat Loaf alla quale viene affidato il compito di trattare la materia lirica come se fosse un testo di prosa. La saturazione sonora non è opprimente, la sezione ritmica, che all’inizio del pezzo sottolineava l’acrobatica apertura, ora non scompare di certo, ma si mette poco dietro Rundgren e Bittan, gli elementi sono tutti soppesati fino all’inverosimile.
La canzone cresce ed espone tutta la sua stratificazione sonora con una vanagloria da far rimpiangere i Queen, finché non accade l’ineluttabile. Siamo nel pieno della corsa, il rombo del motore si trasforma in un assolo spezza-caviglie che accompagna il canto di Meat Loaf:
I can see myself tearin’ up the road
Faster than any other boy has ever gone
Oh and my skin is raw but my soul is ripe
And no one’s gonna stop me
Now I’m gonna make my escape
But I can’t stop thinking of you
And I never see the sudden curve
Till it’s way too late
Arriva dunque il grande “crash” (il senso è doppio anche in questo caso), il nostro eroe non vede quella curva e tutti i suoi sogni d’amore, nonché la sua lotta contro il mondo, deflagrano a terra.
Then I’m dying at the bottom of a pit
In the blazin’ sun
Torn and twisted
At the foot of a burnin’ bike
And I think somebody somewhere
Must be tolling a bell
Ma con un colpo di scena davvero geniale da parte di Steinman, l’ultima immagine che ci viene evocata è questa:
And the last thing I see
Is my heart, still beatin’, still beatin’
Breakin’ out of my body
And flyin’ away
Like a bat out of Hell!
Ripetuta in maniera più drammatica l’ultima strofa a quel punto la musica può finalmente gioire ed esprimersi in cori angelici e assoli rompi-balle che per fortuna durano poco, concludendo una cavalcata a perdifiato in puro stile americano.
La favola epica di Steinman è chiaramente banale, ma la sua costruzione meticolosa e i riferimenti culturali che ne hanno permesso la creazione non lo sono per niente. Questa musica vuole essere una forma suprema di intrattenimento, che si basa sulla perfezione tecnica non come raggiungimento personale, ma come esibizione di perizia e abilità per lasciare senza fiato lo spettatore. L’ideale opera teatrale di Steinman non vuole essere un lungo e tedioso soliloquio morale, ma una folle e rischiosissima montagna russa che riempia lo sguardo di una continua e deliziosa meraviglia. Meat Loaf vestito come un improbabile lord vittoriano se ne frega di tutto, e vive il suo sogno d’amore fatto di fughe impossibili, trappole mortali e trasformazioni bestiali, diventa così per un attimo il nostro avatar, e siamo noi a questo punto in sella a quella moto, lontani mille miglia dai problemi di tutti i giorni, dalla noia di una vita in cui anche l’arte ti viene proposta come una roba seria con cui passare il tempo la domenica dopo la messa (o la briscola al circolo ARCI).
Non è questa forse la grandezza della cultura americana pop? Astronavi che spezzano con un pulsante le regole dello spazio-tempo, archeologi che vivono la storia tra un complotto nazista e scoperte aliene, adolescenti senza un lavoro che decidono di indossare una maschera e prendersi delle responsabilità verso la comunità prima che per se stessi, sono tutte grandi saghe che come quelle omeriche ti vengono cantante, suonate, proiettate, sussurrate, urlate, con ogni possibile mezzo d’espressione. Ogni tanto allora anche un tipo palloso come me può permettersi di prendersi una pausa dall’ascolto consapevole e attivo dell’ultima ristampa della Medea di Xenakis, e immaginarsi per 9 funambolici minuti come un cazzutissimo motociclista che sbuca fuori dalla tomba dopo aver affrontato il fottuto inferno per una cosa piccola, bella e pura. Che poi altro non è che una metafora del vivere ogni giorno questa cazzo di vita.
Podcast – Gli album del Kuore <3
Per concludere la prima stagione di Ubu Dance Party abbiamo voluto sperimentare questo format, in realtà tra i primi ad esser stati ideati ormai 4 mesi fa. ‘Fanculo la critica e gli atteggiamenti da sapientoni di ‘sto gran cazzo, stavolta si parla col KUORE (o QUORE, che dir si voglia), perché la musica è anche emozioni, anche se a scrivere questa parola mi è salito uno strano conato, gusto vaniglia e birra della COOP.
Bando alle ciance cari fedeli seguaci del party più sconsiderato che ci sia, godetevi questa rinfrescante puntata, con Ubu Dance Party ci si ribecca a Settembre!
«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook?»
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»
Black Sabbath – Paranoid
Come se ci fosse ancora qualcos’altro da dire su questo album.
Come se un cojone qualsiasi dello sterminato oceano degli opinionisti del web, potesse aggiungere qualcosa alla già lunghissima serie di elogi e stroncature che segnano questo monolite del rock.
Il tempo ha dato ragione ai Black Sabbath ma non per i motivi che la band vorrebbe.
Il primo album omonimo è più che un seme è un parassita. Per quanto i fan lo adorino (ma adorano anche “Mob Rules” e i dischi solisti di Ozzy, quindi sono esenti da qualsiasi giudizio razionale) quell’esordio fa proprio cagare. Due o tre riff convincenti, poca sostanza e mal suonata, testi da brivido. Ma cosa cambia da “Black Sabbath” a “Paranoid”?
I Black Sabbath sono una delle band più ridicole della storia, e forse anche per questo tra le più grandi di ogni tempo. Vestiti come dei satanisti texani, facce di impareggiabile bruttezza, tecnica musicale quantomeno raffazzonata, non sperimentano, non destrutturano, non fanno un cazzo se non, banalmente, infilare riffoni della Madonna uno dietro l’altro, con una tenacia che sfiora la demenza. Eppure…
Se in “Black Sabbath” erano fin troppo parodici, in “Paranoid” riescono a cogliere in modo assolutamente originale la paranoia della Guerra Fredda e della Morte in generale esorcizzandola a suon di riff e testi ben lontani dalle litanie hippie dalle quali si discostavano polemicamente.
Più che il successo di vendite è l’aspetto seminale dell’album che stupisce ed intriga.
Per il metal questo e “Master Of Reality” sono una fonte inesauribile di ispirazione, oggi insieme a Hawkwind e Blue Cheer i Black Sabbath sono tra le band di riferimento per tantissimi gruppi neonati.
Al contrario del power pop che tanto deve ai Beatles o all’hard rock di stampo zeppeliniano il metal (non cercato ma trovato) dei Sabbath sforna nuove leve del rock underground (ma si può ancora dire underground? Sembra una parola bannata da qualunque rivista di musica) incredibilmente ispirate e mai retoriche al contrario del power pop che vive di riff ed esecuzione, o dell’hard rock che a parte due o tre band ristagna nella masturbazione.
Giusto per citare qualche band “sabbathiana” (rimanendo negli ultimi 5 anni): Fuzz, Shooting Guns, Zig Zags, Harsh Toke, Sungrazer, The Machine, Golden Void, Kadavar, Earthless, Electric Citizen, Black Mountain e si potrebbe continuare ancora fino allo sfinimento.
Al contrario del solito power pop o dell’hard rock la vena sabbathiana è in costante evoluzione, passando dal doom all’ambient alla psichedelia, tocca persino il punk!
Che dire dell’album in sé, il riff d’apertura di War Pigs scandisce lo spazio con una inesorabilità gotica di straordinaria capacità espressiva, si presta alla ripetizione infinita come alla modulazione e alla progressione. Naturalmente non è nella diretta volontà dei componenti della band questa “apertura”, ma è ciò che avviene.
L’attacco di Paranoid è devastante e immortale. Potrebbe benissimo aprire un album degli Zig Zags e non sembrerebbe comunque anacronistica. Iron Man è come War Pigs e ovviamente Hand of Doom (eppure i riff sono talmente ispirati da donargli dignità pari), poi c’è Planet Caravan col suo andamento tetro e spettrale, mentre Electric Funeral è il momento più alto, quello dove l’apocalissi elettrica giunge alla sua forma estetica definitiva.
Al contrario del primo album i Black Sabbath non sembrano più parodie di una specie di gothic band con reminiscenze romantiche (e un pessimo poeta ai testi), qui le improbabili immagini di devastazione diventano reali, sostenute da una musica terrorizzante e potentissima.
Un album universale, un capolavoro.
Ah, dopo “Master of Reality” gli album dei Sabbath si alterneranno tra l’indecente e l’inascoltabile. So bene che molti di voi non saranno assolutamente d’accordo, ma avremo modo di parlare in un’altra recensione, promesso.
Il nuovo allucinante singolo firmato Zig Zags!
“Road tards, rat milk, magic frogs and motorbikes. ghost pirates, trailer park babysitters, king kong bundy and werewolf santas. nwobhm, early metallica, the wipers, budgie and bobby soxx. it ain’t retro, it’s total fucking recall. get me off this dying rock. escape from la while you still have the chance. over.”
—Randy 2024
Lo so che sto trascurando decisamente questo blog, ma c’ho delle cose, comunque conto di cazzeggiare meno e scrivere di più. I promise, and promise is a promise.
Beccatevi il nuovo singolo dei mitici Zig Zags, una roba tipo psych-punk-metal post-apocalittico, so che è una definizione dannatamente “alla Blow Up”, ma tant’è…
Personalmente dopo l’ascolto mi sono sentito per metà deluso e per metà esaltato. Speravo che la band di Los Angeles si spingesse verso la psichedelia (qualche intuizione nella collection “10-12” si era sentita, e che intuizioni!), ed invece sembrano seguire l’andazzo dettato dalla In The Red in California, niente di male, anzi, il sound di questi tre scalmanati rappresentanti dello skate punk (lo dicono loro mica io) ne giova assai come peraltro avevamo avuto modo di ammirare nel precedente 7″ “Scavenger/Monster Wizard“. Forse la mia sete di psichedelia non è stata assetata, ma ciò non toglie che tra Kadavar, Harsh Toke, Ty Segall, Thee Oh Sees (e varianti degli stessi) e qualche altra band che sciorinerò in codesti giorni a seguire, gli Zig Zags si ritagliano uno spazio bello grosso.
P.S.: il Randy della citazione è il tipo in copertina, praticamente l’Eddie della band.
Serj Tankian – Harakiri
“Harakiri”, l’ultima fatica di Serj Tankian, è l’ennesima prova che la critica musicale serve unicamente come lettura mentre si è al cesso. Nessuno ha voluto stroncare definitivamente l’ex-cantante dei System Of A Down perché ci credono, dentro di loro ci credono: prima o poi tirerà fuori il capolavoro.
Mah.
Dal 1994 ad oggi Tankian ne ha fatta di strada. Mettersi qui e lasciar scorrere i nomi degli album dei SOAD mi sembrerebbe davvero un’ingiustizia, meriterebbero di essere approfonditi in un’altra recensione, o nell’occasione di un nuovo album (anche se sono tra quelli che sperano che non esca mai).
La band in sé riuscì a mio avviso a fare qualcosa di incredibile: non si fece categorizzare. Non esiste una vera e propria casella nella quale inserire il lavoro dei SOAD, di solito inutilmente trascinati nello scompartimento del nu-metal, ma la verità è che sono pochissimi gli album d’esordio come “System Of A Down“ (1998) che mostrano una così prominente personalità, un sound straordinariamente già calibrato ed innovativo, un disco in cui si fa fatica a scoprirne le influenze più prominenti a parte quella conclamata dei Dead Kennedys.
Quello che ha fatto la fortuna dei SOAD è stato proprio quel sound, risultato di una amalgama di artisti così diversi tra di loro che hanno trovato fino al 2005 un’armonia (musicale) impressionante.
Tankian stupiva per quella voce; i suoi barocchismi hanno caratterizzato tutta la produzione dei SOAD e trovava la sua perfetta controparte negli agghiaccianti striduli del deus-ex-machina della band Daron Malakian.
Lo scioglimento dei SOAD arriva in un momento molto contorto della loro discografia, l’anno successivo l’uscita nel 2005 di “Mezmerise” e “Hypnotize“. I due lavori divideranno i fan, tra chi reputò questi due dischi una semplice trovata commerciale per vendere il doppio e chi invece invocò la definitiva maturazione della band.
Sciolti i System Malakian e Tankian, le due anime della band, cominceranno due percorsi slegati, il primo fondando gli Scars On Broadway, mentre Tankian si getterà su dei lavori da solista, concentrando la sua attenzione nel far sentire a tutti quanto è bravo a cantare.
L’uscita di “Elect The Dead“, il disco d’esordio del nostro cantante d’origini armene, non lascia molti dubbi su chi fosse la mente del gruppo, anche se va detto che l’avventura di Malakian finora non ha prodotto alcunché di rivelante. Nel 2007 veniamo tartassati dalle uscite dei singoli da “Elect The Dead”, uno più inutile dell’altro. Sebbene siano più che ascoltabili pezzi come The Unthinking Majority o Lie Lie Lie, resta comunque un fatto inappuntabile che il disco non trasmetti niente, se non un triste riciclo di uno dei cantanti più apprezzati del momento.
Ma la cazzata Tankian la fa con “Imperfect Harmonies“, in cui rivisita in chiave orchestrale “Elect The Dead”. Sebbene l’album, e ancora di più la live, siano apprezzabili per l’accostamento dell’orchestra alle doti vocali di Serj, non si può non leggere questo disco come un chiaro esempio di mossa commerciale a causa di una evidente mancanza di idee.
Il 21 dicembre 2012 sarà fine del mondo dicono ma non per Tankian chiaramente, il quale ha già annunciato il suo nuovo lavoro: “Orca“, in uscita il prossimo anno. Cosa? Cosa? Ma neanche il tempo di ascoltare “Harakiri” e già annunci un nuovo disco? La vena creativa ha ripreso a funzionare? Oltretutto “Orca” secondo alcuni rumors dovrebbe essere una sinfonia. In meno di anno Tankian pare aver ritrovato un po’ troppo, obiettivamente.
Ma ascoltiamoci “Harakiri”.
Il disco è uscito quest’anno sotto la Serjical Strike Records, etichetta ovviamente del prode Tankian, che oltre a se stesso produce band di dubbio gusto. A primo ascolto “Harakiri” non sa di niente. Undici tracce che scorrono bene, senza problemi, ma anche senza attirare l’attenzione.
Cornucopia ci ricorda quanto bravo sia Tankian a cantare. Bene. Grazie. Me l’ero dimenticato. Il ritornello lascia troppe perplessità, in generale il pezzo appare un po’ piatto. C’è in tutto il disco, almeno a mio avviso, un serio problema di produzione. Un altro problema… ma quando cacchio finisce la traccia? Quattro e passa minuti per Cornucopia sembrano alquanto esagerati, senza contare che ad ogni cambio di ritmo c’è una dilatazione temporale un pochetto esasperata.
Figure It Out è un pezzo che se prodotto da persone competenti poteva anche essere un bel pezzo. Così è una serie di riff che si susseguono, come dei loop, un pezzo da garageband.
Ching Chime è qualcosa di tristissimo. Il solito giochetto di parole che piaceva a Tankian dai tempi dei SOAD, stavolta si va dalla imitazione del suono delle monetine ai riferimenti alla Cina, nei System di solito venivano fuori cose allucinanti e divertenti stavolta viene sù un pezzo appena sufficiente, ripetitivo perché troppo lungo. L’ennesima buona prova vocale di Tankian, un po’ più colorata delle precedenti.
Butterfly parte bene, ti carica subito con un bel riffone con i coglioni (finalmente) e i primi cambi ci fanno sognare che speranza c’è. Niente di eccezionale, ma ascoltabile, purtroppo ancora una volta i quattro minuti sembrano troppo per quello che la canzone ha da dire.
Da Harakiri ci si aspetta qualcosa di più, perché è comunque il pezzo che dà il nome al disco, quindi… quindi… ma che succede? Una moltitudine di idee ci vengono sparate tutte assieme, quando il pezzo si calma e ci lascia ancora un po’ confusi sull’inizio a palla, diventa una sorta una melodia strappa-lacrime, senza un passaggio decente dall’una all’altra parte. A mio avviso sintetizza benissimo il disco di Tankian, indecisione, confusione, non si mai cosa vuole trasmetterci esattamente. Ben suonato, ben cantato, ma senza niente da dire.
Occupied Tears arriva alla sufficienza, ma anche stavolta non è comunque un pezzo degno di nota, rientra in una mediocrità dilagante. Ormai la struttura portata avanti da Tankian comincia a ripetersi in modo troppo lampante per non annoiarsi.
Deafening Silence mi fa davvero incazzare. Qualche suono elettronico a mò di: senti come sono moderno, buttati lì senza un motivo, ancora una volta una canzone troppo da garageband. La melodia è apprezzabile, Tankian canta bene (non so più che dire, è così evidente?), un pezzo che comunque ancora una volta non ha niente da dire e al terzo minuto inizia seriamente a rompere le palle.
Forget Me Knot appena comincia mi sembra una canzone di Sinead O’Connor. Giuro. Poi per fortuna canta Tankian. Lo schema ripetitivo non si denuncia in modo troppo chiaro stavolta, comunque secondo me non raggiunge la sufficienza, ok che ha un sound molto più appetibile, come se in cabina mixaggio si fossero svegliati ad un certo punto, ma quattro minuti e mezzo sono troppi, troppi, troppi, per dei pezzi così. E qui mi rendo conto che l’idee erano davvero troppo poche e così ogni pezzo dura il doppio di quanto gli sarebbe normalmente concesso. Ondate di tristezza colpiscono il mio animo e il mio portafoglio.
Reality TV è un pezzo riflessivo sulla TV come già Tankian ne ha fatti. Di certo il peggiore di sempre.
Uneducated Democracy è una botta di vita inaspettata! Ok, un po’ confuso a tratti, ma più che apprezzabile nella sua vivacità, si scorre velocemente tra impressioni musicali veramente ispirate, il miglior singolo di tutta la carriera solista del povero Serj (anche se un minuto glielo avrei levato, così, tanto per).
Il disco si chiude con Weave On, traccia piatta che cerca di coinvolgerci, ma stanca, perlomeno c’è un librettista d’eccezione come Steven Sater.
Temi che vanno dall’ambiente alla TV, Tankian tenta di toccare tutte le corde, e a livello di lyrics c’è, peccato per la musica. Complice una produzione che non riesce ad esaltare alcuni pezzi che potevano dare di più (come Ching Chime, Occupied Tears e Uneducated Democracy) e complice anche una vena creativa alquanto smorta il disco non può superare la sufficienza. L’aria d’innovatività che la critica italiana ha voluto vedere in questo album è del tutto frutto di una allucinazione collettiva. I pochi suoni nuovi che vengono proposti sembrano lì per puro caso, per il resto c’è una involuzione dal disco precedente. Sebbene l’album nel suo complesso sembri superiore, và detto che in “Elect The Dead” Tankian sperimenta molti più ritmi, ha molte più idee, cerca di spiazzare l’ascoltatore (ma non ci riesce), qui invece c’è una linea netta che viene perseguita traccia per traccia, omogeneizzando il disco in unica melassa appiccicosa. Altro che evoluzione.
- Pro: Tankian canta bene.
- Contro: una cosa è rendere il disco ascoltabile nella sua interezza, una cosa è fare un disco di copia-incolla da quattro minuti ciascuno.
- Pezzo Consigliato: Uneducated Democracy è un pezzo con un senso, che si fa amare nella sua ecletticità. Un’eccezione dal 2006 ad oggi nella produzione di Tankian.
- Voto: 3/10
Soundgarden – Superunknown
[Questa è la mia prima recensione, ci sono un sacco di errori e banalità, prima o poi ne farò una nuova versione totalmente diversa (anche nel giudizio), ma mi piace che resti qua, con tutti i suoi difetti e le cazzate.]
Chiariamo: questo blog parla di musica ovviamente, ma non più seriamente di come voi parlereste, in una bella serata tra a amici, dell’ultimo film di Sylvester Stallone. Chiaro? Bene.
Come saprete è uscito l’ultimo disco dei Soundgarden “King Animal“, non ho ancora avuto il tempo per ascoltarlo se non per l’unico singolo uscito (Been Away Too Long), ma per l’occasione ho deciso di battezzare questo blog chiacchierando con voi del loro maggior successo: “Superunknown“.
Un paio di premesse: fanno heavy metal, abbastanza tosto. Negli anni ’90 c’è stato un po’ di casino nel rock, sia nella sua accezione diciamo “classic” che nella sua accezione “heavy”. La progressiva disgregazione in generi e sotto-generi ha trovato il suo culmine proprio nei ’90, ma in realtà la questione è piuttosto semplice perché a parte i residui di alcune correnti storiche (come il progressive) possiamo ridurre il panorama in: metal (e i suoi derivati), rock alternativo e grunge.
Il grunge è un genere che riconduciamo perlopiù tra la fine degli ottanta e i primi novanta, purtroppo si fa davvero una confusione snervante su cosa sia e quali siano i gruppi che lo rappresentavano. Diciamo che la prossima volta ci farò un post, ma vorrei solo puntualizzare che di grunge i Soundgarden hanno forse l’origine e i temi trattati in comune, però il sound ha preso molto velocemente chiare tinte heavy metal. Basta.
A me i primi dischi dei Soundgarden non mi fanno impazzire. Sebbene la tecnica, le ottime influenze, il sound piuttosto fresco e via dicendo, la sensazione che provo ascoltando per in intero dischi come “Ultramega Ok“, “Louder than love” e “Badmotorfinger“ è quella di una costante sensazione di confusione. Ci sono singoli di grande potenza e completezza, ma in un contesto disordinato e piuttosto rumoroso (il che non è un problema di solito, anzi, ma non è un rumore esplicitamente espressivo come nel garage, suona quasi casuale)
“Superunknown” esce nel 1994 con l’etichetta A&M Records, casa discografica che aveva tra i suoi pezzi forti gente come Joe Cocker e il nostro Gino Vannelli, mentre tra quelli un meno forti (o se volete tragicomici) i Nazareth e gli Extreme. Superunknown è un piccola perla di saggezza in un anno complicato per il rock tra l’egemonia grunge, dei Nirvana e dei Pearl Jam, e una rivoluzione in corso d’opera nell’ambiente alternative con “Mellow Gold” di Beck. La prima cosa che sconvolge l’ascoltatore è l’armonia, il lavoro di produzione e mixaggio sono clamorosi, tra i i più belli in ambito metal (come non citare per fare un esempio “Vol. 3 (The Subliminal Verses)” degli Slipknot, opera del grandissimo Rick Rubin), difatti invece della solita confusione ci si trova di fronte un disco di cui non cambieresti una virgola.
C’è chi vi dirà “è il disco più commerciale dei Soundgarden!”, se per commerciale intende “comprensibile” forse ha ragione.
Non c’è una traccia che spunta particolarmente tra le altre, il disco scorre giù senza intoppi. Magari pezzi come Half sono un po’ troppo protesi verso una psichedelia che strizza l’occhio agli Zep di Kashmir (fra l’altro il tema psichedelico è sempre stato presente nei lavori precedenti), spezzando un po’ le logiche fin lì protratte, ma il pezzo in sé è più che apprezzabile.
The Day I Tried To Live è il pezzo più prevedibile, quelli con un sound più spiccatamente moderno sono certamente Fell On Black Days e Superunknown, che contengono ancora qualche divertente accenno di punk (altra declinazione sempre presente nei lavori della band).
Il pezzo più famoso è certamente Black Hole Sun, fra l’altro uno dei video più angoscianti di anni strapieni di video veramente angoscianti.
Le linee di basso sono un piacere inestimabile, credo che nella produzione di Ben Shepherd (non fortunatissimo al di fuori del gruppo) siano la cosa migliore che gli sia mai passata per la testa. La batteria spesso mi ipnotizza, come in Spoonman, dove ritmi metal e tribali sembrano fondersi nell’ennesimo rimando ai Led Zeppelin, fra l’altro chiodo fisso di Cornell anche negli Audioslave dove troverà a dargli man forte su questo aspetto anche Morello.
Di questo disco credo di non aver mai apprezzato a pieno il lavoro del chitarrista, Kim Thayil. Sì, lo so, è molto sottovalutato, è un bestia, è fortissimo, sei un demente se non ti piace e via dicendo, però a me gli assoli di Thayil mi fanno venire prurito alle mani, che ci posso fare? Sulla tecnica non mi metterò mai a parlare in questo blog, quindi se volete fate vobis.
Trovo che nell’armonia di pezzi come Spoonman l’assolo di Thayil ci stia come il ketchup sulla pizza, pazienza.
Sugli altri membri della band niente da ridire, sebbene le ultime virate pop del bravo Chris Cornell mi abbiano fatto prendere un ulcera fulminante mi accontento degli ottimi lavori fin lì fatti.
Ah, l’ultimo disco, come vi ho detto non l’ho ascoltato, ma dal singolo estratto che vi citavo a inizio post mi sembra che siamo tornati a quella buona confusione di un tempo, adesso pure anacronistica. Però non si sa mai, prima l’ascolterò sempre fiducioso (sono ottimista di natura) poi ne parleremo un’altra volta magari.
Mi scuso in anticipo per la confusione, se manca qualcosa o dico solo cazzate, siete liberi di insultarmi nei commenti.
E non dimenticatevi di provare a suonare un sassofono!
- Pro: lo ascolti tutto senza mai saltare una traccia e non è una cosa che succede spesso nel mondo del rock più blasonato.
- Contro: no, non sono i lavori dei muratori nel piano di sotto, sono proprio gli assoli di Thayil.
- Pezzo consigliato: tutto il disco tutto d’un fiato.
- Voto: 7/10
[ringrazio Ares, che nel leggere questo post si è accorto che avevo scambiato impunemente il nome di Kim Thayil con quello di Kim Warnick, vorrei poter dire che è stato un lapsus dovuto al fatto che credo che Thayil suoni come una ragazzina, ma in realtà è stato un indecente errore di copia-incolla]