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Perché ci piace la musica?

Genericamentegiuseppe

Avete presente quando ascoltate per la prima volta una canzone e vi sembra la cosa più bella che vi sia mai capitata? Come se tutte quelle precedenti non contassero più di tanto, che quel ritmo, quella melodia, quel suono, appartengono in tutto e per tutto solo a quella nuova canzone. Cos’è che determina questa splendida sensazione di coinvolgimento?

Il problema non è di così facile soluzione. Una grossa branca dell’evoluzionismo è soggetta all’illusione causale (di cui ho già scritto qui), per cui la musica è necessariamente frutto di qualche urgenza ancestrale, una forma adattiva, come per esempio l’utilizzo dei corni di animali per richiamare i maschi del villaggio durante l’attacco di un predatore, oppure l’imitazione delle melodie dei volatili, o magari l’uso di bordoni o ritmi ipnotici per le pratiche sciamaniche, oppure ancora, secondo le teorie antropologiche, melodie confortevoli per riunire le comunità attorno al fuoco. Ma la…

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Come sono cambiati i miei gusti musicali

Doveva succedere. Purtroppo è successo prima di avere un’attrezzatura minima decente, ma sono povero e me ne strafotto. In un futuro, quando sarò ricco e famoso parlando di Kim Fowley e Bessie Smith, avrò lo studio tipo Stephen Colbert con i BCUC come band permanente dello show e la cocaina scorrerà a fiumi manco fossimo ad un tè con Keith Richards.

 

Cos’è la musica commerciale?

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Prima di tutto, esiste musica che non sia commerciale? Perché sebbene la celebre citazione del buon vecchio Captain Beefheart (boh, non me la ricordo a memoria, però diceva una roba tipo: dato che a me l’ispirazione arriva gratis anche la mia musica dovrebbe esserlo, super-stronzata ovviamente), la verità è che non si vive solo di plausi della critica e buffetti dello zio molesto a Natale. Quindi cosa s’intende normalmente per musica commerciale?

La definizione comune sta ad indicare tutta la musica che riscontra un enorme successo di vendite, ma dato che ogni musicista, anche il più scrauso, ritiene adeguato essere pagato per il suo lavoro, e se con questo ci diventasse pure ricco non gli dispiacerebbe di certo, questa definizione risulta più bucata di uno scolapasta. Potremmo dunque definire come musica commerciale tutta quella massa di superstar che producono musica con il solo scopo di diventar ricchi e cavalcare le mode. Ma questa è una visione nichilista del mondo e delle persone di successo che non sempre trova fondamento nella realtà. Amy Winehouse ha cantato moltissimi successi commerciali eppure non è considerata una sanguisuga come Bono Vox. Per cui siamo di nuovo al punto di partenza.

Forse non è la parola “commerciale” il problema di fondo, ma la tendenza tipicamente europea di considerare tutto quello che ha successo come fondamentalmente minore nei confronti di una qualsiasi nicchia. In parte è vero che per raggiungere numeri mostruosi come quelli di Beyoncé bisogna scendere a parecchi compromessi, sia nella complessità della ricerca musicale (che esiste, anche se asservita a costruire strutture sempre più efficienti per il fruitore moderno) che nelle liriche e quindi nel messaggio di fondo. Ma ci sono anche personaggi come Lady Gaga, che rappresentano il moderno mito del self-made-man (quando è triste che questa definizione nasca e sia rimasta prepotentemente al maschile?), riuscendo a convergere diversi stili musicali con una serie di messaggi propositivi e progressisti, nei limiti imposti dalle major, dalla TV, dalla radio e dai gusti della massa.

La massa, questo orribile termine, sentite come suona sempre profondamente negativo? La massa è ignorante, non capisce, non sa. Peccato però che nella massa ci siamo tutti, perché per essere esperti, chessò, di musica barocca, necessariamente quel tempo che abbiamo speso nello studio e nell’ascolto della musica barocca non l’abbiamo speso nell’approfondire lo studio di qualcos’altro, tipo l’economia. Per cui, secondo una prospettiva economica, siamo parte di una grande massa di persone ignoranti in economia. Questo perché siamo tutti enormemente ignoranti di un sacco di roba ma tendiamo a dimenticarcelo, allietandoci con le nostre poche specializzazioni, di cui comunque esisterà sempre chi è più specializzato di noi.

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Se quindi tutta la musica è commerciale e la massa ignorante che l’apprezza altro non è che persone non specializzate nell’ascolto musicale perché hanno speso il loro tempo verso altre (e probabilmente più proficue) specializzazioni, qual’è il minimo comune denominatore della musica… diciamo pure di merda? Perché è questo in realtà che vogliamo sottintendere no? Che la musica commerciale, mainstream, faccia schifo.

Il più delle volte gli album che raggiungono le vette di Billboard ci riescono anche perché hanno saputo districarsi tra i compromessi artistici che rendono certa musica universalmente piacevole, ma questi compromessi non arrivano solo dal mercato o dalla moda, quanto anche dai metodi di produzione, distribuzione e riproduzione musicale. La storia della musica leggera moderna comincia negli anni ’40 negli USA, quando il presidente della RCA (Radio Corporation of America, la più importante e influente compagnia di Broadcasting americana dell’epoca) David Sarnoff, in una ripartizione della produzione decise che sui 33 giri andava stampata solo la musica colta (classica perlopiù), mentre sui brevi e poco costosi 45 giri si poteva far girare la musica leggera. Questo evento, assieme all’arrivo della poco costosa tecnologia tedesca, resero abbordabili alle piccole nuove etichette e ai giovani DJ i prezzi di produzione e distribuzione della musica così detta leggera. Per una serie di convergenze davvero eccezionali, tra cui l’esplosione dei moti studenteschi (cominciati nel ’65 sempre negli USA), il successo commerciale di nuove tendenze giovanili, un’esplosione culturale senza precedenti dovuta al boom economico (più altri elementi che sarebbe inutile citare senza analizzare) la musica leggera conobbe il suo momento di grazia proprio tra il 1965 e più o meno il 1971. 

Esistono nella storia eventi di questo genere, sono più unici che rari, e rischiano di creare una percezione falsata del passato, mitizzando certi periodi più del dovuto. Quando si studia storia della musica sembra che tra un Bach e un Haydn ci siano stati momenti in cui c’era silenzio in tutto il mondo, e niente di rilevante accadesse quando i grandi artisti non producevano le loro migliori opere. La verità è che la storia dell’arte è sì fatta di eventi straordinari (il Rinascimento, per dirne uno) ma che non inficiano sulla qualità di tutto quello che è venuto prima, durante o dopo.

Se negli anni ’40 si è passati da un modello di musica ad un altro è dovuto all’evoluzione tecnica di registrazione, produzione, riproduzione e anche dei supporti per l’ascolto. Nei 45 giri si cominciò ad elaborare nuove strategie per rendere ogni pezzo più accattivante di quello che era uscito la settimana prima, le intro erano sempre più corte, i ritornelli sempre più semplici e orecchiabili, la sezione ritmica sempre meno jazz e più rhythm and blues. Gli anni ’50 furono un periodo di passaggio, che vide il primato dei gruppi vocali venir pian piano logorato dagli ensemble strumentali e dall’avvento della cultura giovanile (come quella surf, che deflagrò in tutto il mondo tramite il cinema underground della scuola di Roger Corman). Negli anni ’60 con il successo della British Invasion, ma sopratutto grazie all’opera di legittimazione culturale della musica leggera protratta da artisti del calibro di Bob Dylan, la musica leggera a 33 giri divenne uno standard assoluto, e così si poté sperimentare come non mai prima d’ora. Questo, assieme alle convergenze che avevo accento prima, ha permesso una stagione molto più eclettica del normale.

Era opinione comune nei primi del 2000 che Internet avrebbe avuto lo stesso impatto sulla musica del futuro. Infatti questo è accaduto, ma non per chi utilizza come parametro predefinito le vendite delle major. Si è creata infatti con internet una frammentazione inaudita della scena musicale, dove il mainstream viene costantemente contaminato da sottogeneri sempre più di rottura nei confronti del passato, tanto nella prassi tecnica quanto in quella contenutistica.

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L’avvento del mp3 e dei supporti digitali, sempre più portatili e capienti, fino ad arrivare alla virtuale Biblioteca di Babele dei cloud, ha cambiato radicalmente il modo di fare musica, ma non nella forma che ci saremmo aspettati. La musica della major, come anche quella underground legata a generi vecchi e vetusti ormai, come il rock di cui spesso scrivo su questo blog, sfruttano ancora i sistemi del “vecchio mondo”: si scrive ancora musica come se dovesse essere stampata in un 33 giri o scritta in un CD! L’avvento della retromania ha scombussolato l’ordine delle cose, e a dispetto dell’arrivo di formati ultra-fluidi si è tornati a produrre vinili e musicassette, ma non stiamo parlando di numeri assoluti, quanto di nicchie più o meno grandi. Su Spotify molti musicisti propongono ancora uscite nel formato dell’album nato negli anni ’60, come mai? È forse il sintomo di una crisi di creatività che altro non è che un ennesimo segno del decadimento culturale dell’occidente? Boia, sai che palle se il post s’avviasse in questa direzione!

No, niente allarmismi apocalittici, come quelli che salutarono l’avvento del jazz, del rock, della techno e del rap (e ora della trap e domani di qualcos’altro), semplicemente i limiti di un album sembrano ancora confortevoli paragonati all’illimitato spazio di un server. Escono ancora singoli che vivono da soli senza l’album di riferimento (penso al successo mondiale di This is America di Childish Gambino) ma per esempio è sempre più frequente trovare artisti che saturano il proprio pubblico di riferimento di con decine di uscite tutto l’anno (un tempo sarebbe stata una spesa inutile, e un sovraffollamento di proposte simili nel mercato avrebbe comportato una discesa nell’appeal di tale artista). Sembra proprio che la troppa libertà non generi maggior creatività. Al contempo la fluidità della musica ha permesso ai generi di contaminarsi sempre di più, e alle persone di poter ascoltare la musica che preferiscono e di scoprirne altra senza l’ausilio delle riviste specializzate.

Sulla crisi della critica digitale ne ho già parlato in questo articolo, per cui torno subito a bomba sulla questione della fruizione. Prima l’ascoltatore casuale di musica era costretto ad ascoltarla in radio, in TV e nei locali, senza avere un reale controllo su di essa se non tramite l’acquisto degli album che gli sembravano più affini. Oggi invece tramite strumenti che mappano i suoi gusti, come YouTube o i vari servizi di musica in streaming, si trova persino delle playlist personalizzate sui suoi ascolti abituali! La musica leggera sta diventando così sempre più efficiente nel sollecitare le preferenze dei fruitori casuali. Questo non impoverisce il panorama musicale, che anzi grazie alla profusione di nicchie sempre più facili da scovare grazie ad aggregatori come Reddit, è sempre più complesso e pieno di alternative per ogni gusto, anche il più pervertito e permaloso.

Siamo arrivati fin qua senza citare il primato del video nell’età digitale! Ancor più che negli anni ’90 del boom di MTV, oggi i video musicali sono opere a sé, prodotti ricercatissimi che propongono una nuova serie virtuosismi e tecnicismi che ne sostituiscono altri di natura strettamente musicale. È infatti inevitabile ritrovarci ad ascoltare musica su supporti con schermi ad alta risoluzione come i nostri smartphone, e questo dialogo è desinato ad evolversi nei prossimi anni. Il modo con cui questa naturale accoppiata cambierà la musica è impossibile da immaginare. In fondo la musica è una costruttrice di immagini nemmeno tanto astratte, giusto qualche mese fa stavo ascoltando assieme ad un mio amico la quarta di Mahler con la direzione di George Szelled entrambi avevamo avuto la sensazione di vivere un viaggio in una valle desolata, piena di intricati enigmi e stupendi panorami. L’idea che la musica del futuro possa incanalare questa forza immaginifica per sperimentarci sopra mi stuzzica non poco.

Insomma ragazzi, non esiste un modo per definire la musica di merda, perché semplicemente è musica che non vi piace, e se avete piacere nella ricerca e nello studio della musica probabilmente per merda intenderete tutto quello che passa in radio e TV. Fatevene una cazzo di ragione. Non è che passate i fine settimana ascoltandovi la discografia di Micah P. Hinson prima di andarvelo a vedere live al Bronson perché non c’avete un cazzo da fare, è perché vi piace! Ecco, ad altri magari piace di più leggere, guardarsi la TV, cucinare, scopare. Fatevi meno seghe mentali su quello che ascoltano gli altri e fatevi più seghe su quello che piace a voi. 

Non è colpa dei talent o del pubblico se la musica in Italia fa schifo

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Scrivo questo post dopo una serie di considerazioni su quest’altro comparso sul blog La Grande Concavità. Vi invito leggerlo ma se non vi andasse vi faccio un breve riassunto: l’autore cerca di spiegarsi il progressivo disinteresse verso la musica in Italia e punta il dito contro il pubblico, a suo dire sempre più assopito dalle nuove tecnologie e dai talent televisivi.

Sebbene comprenda a pieno il suo punto di vista, anche perché abbiamo tutti notato quanta gente preferisca fare video o foto ad un concerto piuttosto che ascoltarlo, credo che la colpa di questa di questa disaffezione sia invece causata al 90% dai musicisti stessi.

Avendo anche commentato sotto quel post vi riporto alcune considerazioni già presenti il quel commento.

Il Commento (Revisited)

Oggi abbiamo migliaia di possibilità di ascoltare musica durante la giornata (qualsiasi essa sia e proveniente da ogni parte del globo) e non siamo costretti a viverla come un rito se non ne siamo appassionati. Per me l’ascolto di un disco qualsiasi, da Ty Segall a Iannis Xenakis, è un momento di totale immersione, ma non deve esserlo per tutti!

Fino a qualche anno fa ascoltare musica nei locali o in radio era spesso l’unico modo per ascoltarla se non avevi molti soldi, o se le uniche musicassette che avevi erano quelle dei Matia Bazar che ti aveva regalato la zia a natale, oggi tutte quelle persone che non erano appassionate di musica ma ne volevano solo un po’ per conciliare la giornata, sono libere e quindi anche più disinteressate quando i suoni della band sul palco o su Radio Fiesole non gli stuzzicano il cervello più di tanto. Chi invece è appassionato di musica ora può ascoltarla e ricercarla senza limiti spazio-temporali e fruirne come più gli aggrada, e non solo: può espandere i propri interessi come mai prima d’ora. Fino a un decennio fa avere la discografia dei Residents era impossibile, trovare album come “Cauldron” dei Fifty Foot Hose o tutta l’opera di Francis Poulenc era un’impresa titanica, oggi spesso basta un click.

Si è persa la pazienza dell’ascoltare attivamente? No, semplicemente chi prima era costretto a sorbirsi lato A e B senza fiatare ora può farne a meno, e sono le stesse persone che lo avrebbero fatto anche prima se possibile. Naturalmente c’è il rischio di perdersi qualcosa che magari negli anni avresti riscoperto (qualche volte è capitato ad ognuno di noi!) ma per questo esistono i forum e i social network, indove trovare appassionati alla musica che ascolti è diventato facilissimo, anche se sei un cultore di robe astruse come Merzbow, e in una discussione su questo o quell’altro album può uscire fuori il nome di quel pezzo che avevi prematuramente cancellato dalla playlist.

Diciamo che oggi la quantità di stimoli è sì aumentata a dismisura ma non ne è aumentata proporzionalmente la qualità. È lì sta al critico e all’artista il compito di educare e appassionare l’ascoltatore.

Difficile che ci sia una cultura dell’ascolto in un paese dove non si insegna musica se non ai pochi che l’hanno scelta come percorso scolastico (o per i quali hanno scelto i genitori), è vero che si applaude per inerzia (già lamentava questa pratica un certo Freak Antoni nel 1978!) ma non solo ai concerti, anche a teatro dove uno spettacolo complesso e culturalmente stratificato di Antonio Latella è messo sullo stesso piano di uno parrocchiale sulla vita di San Francesco da un pubblico ormai sterile, ma non per colpa sua ma perché sono pochi gli artisti in Italia che fanno dell’arte una missione.

Gran parte delle band che ascolto in Italia (in particolare in Toscana) sono derivative e auto-referenziali, pretendono attenzione solo perché studiano lo strumento da anni e non perché abbiano composto qualcosa di valido. Manca la sfacciataggine e la voglia di sconvolgere il pubblico, la quale non è un mero mezzo per far parlare di sé ma bensì un modo piuttosto pratico di trascinare lo spettatore nel mondo del musicista. Nelle loro liriche i Troggs parlavano di sesso e non troppo tra le righe, gli Small Faces di droga, gli Who pure e nel frattempo spaccavano tutto, Alice Cooper dava sfogo alle turbe adolescenziali con un rock che doveva shockare proprio come la vita ci shocka ogni fottuto giorno quando si è giovani e pieni di brufoli, oggi per fare un esempio nostrano La Piramide di Sangue propone spettacoli quasi tribali e psicotropi che intortano il pubblico con rimandi fortemente ancestrali e mediterranei (e infatti fanno parte di una scena musicale italiana molto fertile e con un seguito molto attivo nell’ascolto).

Se la proposta musicale in primis è sottotono non ci si può aspettare interesse da parte del pubblico, il quale può ascoltarsi mentre è in treno “Shiny Beast (Bat Chain Puller)” o “Zeichnungen des Patienten” o i Mai Mai Mai piuttosto che i For Food e poi si va vedere l’ennesima band brit-pop o post-rock di ‘sto cazzo. E parlo del pubblico appassionato, perché gli altri, i disinteressati, sono sempre esistiti e sempre esisteranno.

A New York ho trovato locali pieni e grande interesse verso qualsiasi band, lo stesso vale per Belgrado o Amburgo. Ma quelle band si sono costruite un pubblico perché c’era un’idea dietro la loro musica (vedi il fenomeno nascente del drama-rock sulle sponde californiane, o l’interesse nell’Italia post-sessantottina per il prog) e non solo tecnica.

La verità è che le persone realmente interessate all’ascolto ascoltano altro, e non una massa inconsistente di band e musicisti che non appartengono a nessuna scena perché non hanno nessuna idea, oppure peggio ancora “suonano” quell’indie del cazzo alla Stato Sociale.

Ma… e i talent?

Molto semplicemente le stesse persone che prima guardavano Sanremo, o il Festivalbar, o i vecchi programmi radio di contest musicali ora si guardano i talent. Quel pubblico, attirato dalla fruibilità di una melodia italica e dalla immediatezza di una voce forte e nitida, ci sarà sempre perché c’è sempre stato.

Se una persona non è interessata ad approfondire la sua conoscenza musicale perché deve farlo? Se gli basta Tiziano Ferro perché deve si ascoltare Frank Zappa? Come mai la cosa dà così tanto fastidio poi!

La musica culturalmente rilevante è sempre stata apprezzata da una piccolissima parte della popolazione, anzi che dal ‘900 in poi quel pubblico si è allargato a dismisura in confronto ai tempi di rockstar come Carl Philipp Emanuel Bach.

Non ci sarà mai la fila ad un concerto di Antony Braxton o dei Pere Ubu, fatevene una ragione.

E i soldi in tutto ‘sto popò di predica dove li mettiamo?

Problema tutt’altro che secondario i big money. Oggi poi ci sono circa seicento blog solo su WordPress che sanno tutto su come farvi fare soldi suonando quello che vi pare, senza stampare un disco e senza fare una live, ma con l’uso di astruse tecniche di marketing che, deduco dal numero spropositato di siti e blog che ne parlano, funzionano alla grande.

Ironia a parte è un grossissimo problema fare soldi se come mestiere fai il musicista in questo Paese. Ma qui il problema è più ampio, provate a fare i registi teatrali o i costumisti, provate a fare i pittori o gli scultori, provare a fare i coreografi, gli scrittori, gli sceneggiatori cinematografici, i fumettisti, provate a fare dell’arte il vostro mestiere in Italia. Se ci riuscite le dodici fatiche di Ercole le potete affrontare tutte alla guida di una Punto col gomito di fuori e On the Road Again in heavy rotation sulla radio.

Non è un problema di pubblico o spettatori o fruitori, lo Stato crede poco nell’arte contemporanea in senso lato e preferisce investire sulla salvaguardia del nostro glorioso passato. Quel glorioso passato che va dalle rovine di Pompei che crollano di pezzo in pezzo ogni giorno, alle chiese medievali in ristrutturazione dall’inizio della riforma Protestante, fino ai palazzi nobiliari che diventano sedi di banche e via dicendo.

Poi ovviamente c’è il modo di sfondare senza leccarle il culo alle major o senza fare il verso a Jovanotti. Si chiama Superenalotto.

Ma esattamente che cazzo dovremmo fare?

E che te le devo dire io? Io sono solo un fruitore.

Il ruolo della critica

Andrebbe invece rivalutato il ruolo della critica, proprio oggi che non c’è più bisogno di comprarsi una rivista per sapere che se ti piacciono i Throbbing Gristle oltre ad essere un probabile sociopatico ci sono altre band simili a loro, perché quella funzione è oggi esautorata da una barra laterale di YouTube, è invece necessaria una figura che contestualizzi lo tsunami di proposte musicali contemporanee.

Più che filtrare il critico può come detto contestualizzare e interpreta l’idea di un artista, perché lui al contrario del fruitore medio passa buona parte della sua giornata a studiare l’oggetto della sua critica. Difficile godersi a pieno Mahler se non si hanno nozioni tecniche anche minime di musica, se non si sa che visse nella Vienna di Schiele, nell’epoca dei Tre saggi sulla teoria sessuale di Freud, come anche i già citati Pere Ubu se non si sa cosa sia la Patafisica, se non si conoscono i principali protagonisti del post-punk, se si è mai letto J.G. Ballard o visto Taxi Driver o Shivers. Ma il critico questa robaccia l’ha studiata per voi, e se non è uno stronzo megalomane può anche spiegarvi perché è tanto fica e perché ha influenzato il vostro amato o incomprensibile artista.

Abbiamo bisogno della critica, dei siti e dei blog, magari scritti da gente un po’ più preparati della media e di me, ma per quello c’è tempo.

Fino a qualche decennio fa il commento di un critico provocava riflessioni o scontri il più delle volte produttivi, non paragonabili ai commenti a caldo sotto un video di YouTube, anche se potrebbero benissimo essere il futuro se la sezione dei commenti fosse più curata dal punto di vista grafico, e se il tenore delle discussioni migliorasse come nei forum che andavano di moda anni e anni fa.

Il luogo e i mezzi della critica cambiano, anche la forma può e deve cambiare, ma non la serietà e la credibilità, che si basa unicamente sullo studio appassionato e fottutamente approfondito.

Morale della favola

Insomma, non date la colpa ai talent o al pubblico se quello che suonate non se lo fila nessuno, se credete che all’estero vi possa andare meglio PROVATECI PERDIO, che oggi le occasioni per farsi sentire da etichette francesi, inglesi, coreane ne avete a bizzeffe. Se volete svegliare un pubblico perso nel livellare su Dash Quest piuttosto che ascoltare la vostra sbobba, fate più casino, insultateli, dipingetevi la fava di rosso e suonate con quella, il rock è anche questo, è tirare fuori le tette goffamente mentre parte quel riff, è spaccare gli strumenti – di nuovo, è urlare al microfono «siete un pubblico di merda/ applaudite per inerzia», e magari vi diranno che siete volgari, che siete in cerca di attenzioni, che siete solo dei provocatori dementi. Però intanto parlano di voi, la gente vi ascolterà, e se dietro tutte le stronzate ci sarà qualcosa di interessante gli stronzi che preferiscono i Pussy Galore a Vasco Rossi se ne accorgeranno, vedrete.