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Kamikaze Palm Tree – Good Boy

Etichetta: MUDDGUTS
Paese: USA
Pubblicazione: 2019

Dylan Hadley fa parte di quel giro magico che ha ridestato interesse nel rock underground, ovvero White Fence, Mikal Cronin, Ty Segall e tutta la banda. In un’intervista per KEXP John Dwyer ha raccontato della fantastica impressione che gli fece la Hadley come cantante e batterista per la sua band, i Kamikaze Palm Tree, probabilmente una delle realtà più divertenti del panorama rock mondiale – eppure ancora semi-sconosciute.

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I migliori album del 2018

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Non so se questo blog esisterà ancora in questi termini oppure diventerà solo un podcast o solo un canale YouTube o tutte queste tre cose, so solo che piano piano, con enorme fatica, sto sistemando la mia vita per renderla ragionevolmente piena e non allucinantemente zeppa di cose. Mi manca sparlare di musica, sopratutto quella di merda che piace a noialtri. Questo post è arrivato con un ritardo folle ma doveva arrivare, sono i migliori album del 2018, eppure non è tutta farina del mio sacco.

In questa lista non ci sono letteralmente i migliori album del 2018, quale megalomane potrebbe mai mettersi a fare una lista del genere? Oggigiorno conoscere la scena musicale in senso lato è impossibile, le uscite sono troppe e le scene troppo frammentate, come anche i linguaggi. Così ho messo semplicemente la roba che, alla fine della giostra, ho ascoltato di più e con maggior piacere, senza troppo smanettarmi sugli aspetti critici (che poi nemmeno lo sono io un critico, sono un appassionato con problemi compulsivi, tutto qui).

Alcuni degli album presenti però non sono tra i miei preferiti, ma dato che sono presenti in tutte le stracazzo di classifiche da Novembre (già, c’è gente che ha fatto uscire la classifica dei migliori del 2018 a Novembre del 2018, che dire…) ho voluto mettere qualche nome per poi insaccarlo di botte virtuali.

L’ordine è alfabetico, per evitare inutili e sterili discussioni.

A$AP Rocky – TESTING

C’è bisogno di dirlo? E diciamolo: A$AP Rocky e la sua cricca hanno tirato fuori un classico, riuscendo a dare uno spessore notevole a tutte le influenze nascoste in questo album (partendo da un insospettabile Otis Redding) e riproducendo un sound da monolite degli anni ’90 senza un briciolo di nostalgia, facendolo suonare come qualcosa di assolutamente nuovo.

Ambrose Akinmusire – Origami Harvest

A parte che in questo album riescono a convivere rap underground e musica da camera senza far scendere il latte ai ginocchi con inutili virtuosismi da una parte o dall’altra, questo è un disco profondamente politico eppure profondamente propositivo. Come nel caso degli IDLES lo sguardo sulla contemporaneità di Akinmusire si discosta dalla retorica pessimista e compie una parabola verso un futuro di possibilità.

Armand Hammer – Paraffin (feat. Billy Woods & Elucid)

Questi non scherzano ragazzi, ce la mettono tutta per sporcarti le orecchie di suoni francamente fastidiosi ma amalgamati ad un flow spettrale e ipnotico.

b a k m a h n / TESTAROSAH – Holy Oxygen

Vaporwave piuttosto classica, stiamo assistendo ai colpi di coda del fenomeno che intanto è diventato mainstream.

Car Seat Headrest – Twin Fantasy

“Twin Fantasy Replica” è la versione riveduta e corretta dell’album capolavoro di Car Seat Headrest, che si merita certamente una recensione (che immagino uscirà entro il 2030). Dopo averlo ascoltato 50 volte ho capito cosa intendeva dire Tab_ularasa quando scriveva che questo è l’album che Ty Segall avrebbe sempre voluto fare. Ne riparleremo.

Childish Gambino – This Is America

Sì, è un singolo, non un album, ma fottesega, se hai qualche reclamo puoi spedirlo su www.pornhub.com. Hanno tutti già detto… quasi tutto, anche di lui ne parleremo. 

Current 93 – The Light Is Leaving Us All

Secco, molto poco piacevole e con momenti di poesia troncati sul nascere. Il solito buon album dei Current 93.

Drinks – Hippo Lite

Oddio: un album post-punk che non suona né come i Joy Division né come una brutta copia dei Gang Of Four! Finalmente!

Eric Chenaux – Slowly Paradise

A me Chenaux m’ha sempre fatto venire un latte alle ginocchia che nemmeno l’ultimo Clapton, giuro, per cui ero molto prevenuto su questo album, che invece è bellissimo e stranamente minimale. Che mi debba riascoltare anche quelli vecchi alla luce di questa nuova cotta? (SPOILER: l’ho fatto, e non è servito un granché)

Ezra Furman – Transangelic Exodus

Anche di questo varrebbe la pena scriverci qualcosa, diciamo solo che Furman è in mega forma e non sarà possibile fermarlo, dal 2013 i suoi arrangiamenti si sono raffinati e le melodie sono molto meno prevedibili e ripetitive.

Father Murphy – RISING. A Requiem for Father Murphy

Ultimo capolavoro per Father Murphy, una discografia sottovalutatissima in questo paese di ingrati. Una volta gli dedichiamo una bella retrospettiva completista.

Felix Colgrave – Royal Noises from Dead Kingdoms: The Music of Double King

Colonna sonora del corto animato dallo stesso Colgrave. Una musica elettronica piena zeppa di riferimenti gregoriani e world music, un talento per ora quasi sconosciuto.

Gee Tee – Gee Tee

Miglior album garage rock dello scorso anno, costruito attorno ad una logica DIY che non sacrifica il suono ma lo rimpasta funzionalmente al tasso alcolemico.

Grip Casino – The King & Eye for an I

Un album di cover dei Residents che coverizzano Elvis Presley. Beh, tanto quei soldi non ti servivano comunque…

Heroin in Tahiti – Casilina Tapes 2010 | 2017

Sarà anche solo una raccolta di esperimenti che fra l’altro non dialogano sempre benissimo tra di loro, ma c’è anche la summa di una ricerca fatta di persone, luoghi e incontri sublimati in musica. Indispensabile per capire l’oggi in questo paese.

HOLY – All These Worlds Are Yours

Uno dei tanti progetti solisti che ormai permeano il panorama DIY, il giovane svedese Hannes Ferm è una sorta di David Bowie senza la pretesa di piacere a tutti, chiuso in una cameretta piena di cose sorprendenti.

IDLES – Joy as an Act of Resistance

Oibò, il miglior album rock degli ultimi 10 anni e per taluni è giusto un buon album. Gli relegherò una recensione ma meriterebbe un libro. Gli IDLES non sono semplicemente quelli che hanno portato le tensioni di Brexit a galla strappandole dal sottile velo dell’ipocrisia, hanno ridefinito un’estetica e le conseguenze di questo avranno delle ripercussioni, potete scommetterci.

J​.​H. Guraj – Steadfast on our Sand

Il Ry Cooder nostrano sfodera un album fatto di sottrazioni ma senza perdere la sua carica narrativa (è comunque una colonna sonora).

Jessica Says – Downers

Gemma pop passata inosservata, Jessica Says ha una voce interessante e un buon orecchio per la melodia più raffinata, sono curioso di vedere cosa verrà.

Jonny Greenwood – Phantom Thread (Original Motion Picture Soundtrack)

Tanto trovo algidi i Radiohead quanto trovo acuto Jonny Greenwood solista. Sul film che vuoi dire, PTA è una delle certezze del cinema statunitense, e questa lunga collaborazione con Greenwood ci sta donando delle musiche davvero eccezionali. Non siamo ai livelli di “There Will Be Blood”, ma cazzomene.

Julien Baker, Phoebe Bridgers & Lucy Dacus – Boygenius – EP

Un trio di signorine molto benvoluto dalla critica specializzata si mettono assieme e fanno un EP molto benvoluto dalla critica specializzata. E non fa cagare. Qualcosa non torna.

Justin Bell – Pillars Of Eternity II: Deadfire (Original Soundtrack)

Obsidian ci ha abituati ad una cura maniacale delle sue opere, e Justin Bell è riuscito a migliorare una colonna sonora che già nel primo capitolo di Pillars Of Eternity lasciava straniti per la bellezza evocativa anche solo nel menù.

King Khan & The Shrines – Three Hairs and You’re Mine

Il disco più festoso dell’anno, e poi King Khan per me ci deve essere sempre in una  classifica, dà quella botta di vita che allontana quel malessere di vivere nella stessa epoca dei Foo Fighters.

Leon Vynehall – Nothing Is Still

Una bella intuizione quella di Vynehall, ricostruire il viaggio di sua madre dall’Inghilterra agli Stati Uniti, una storia di immigrazione che tocca tutte le tappe della musica ambient moderna con una trazione narrativa che personalmente trovo necessaria in questo genere di esperimenti, altrimenti troppo freddini.

Liberate Il Kraken – Liberate Il Kraken

Per la Fake Off Press il 2018 è stato un anno bello denso, con tanto di lancio della rivista underground “Vasi di cristallo su comodini sbilenchi” e poi han tirato fuori questo EP che, per quanto sembri serioso nella sua ricerca di confini sonori ulteriori, mi ha divertito non poco e continua a farlo.

Macintosh Plus – Floral Shoppe

Perché mettere una ristampa? Perché ha comunque venduto a palate, provando quando la vaporwave sia ormai uno dei generi musicali più influenti del nostro tempo. Inoltre “Floral Shoppe” è certamente il capolavoro della sua florida stagione (pun intended).

Micah P. Hinson – When I Shoot At You With Arrows, I Will Shoot to Destroy You

Lo aspettavamo in tanti un bell’album di Micah P. Hinson, e alla fine è arrivato, solo che è molto più bello di quanto ci aspettassimo.

MISS WORLD – Keeping Up With Miss World

Mi sono innamorato di questa scapestrata garagista. Miss World dipinge con ironia un mondo fatto di sopravvivenza e istinti, non c’è alcuna ricerca musicale dietro, giusto un riff altrimenti non sono neanche canzoni ma sketch.

Mythic Sunship – Another Shape of Psychedelic Music

Il più bel disco di musica psichedelica dell’anno, questa band sono tutto quello che i Moon Duo dovrebbero essere e, per mancanza di creatività e tecnica, non saranno mai.

Negative Scanner – Nose Picker

Uno dei migliori album punk del 2018 e non se l’è cagato nessuno. N-e-s-s-u-n-o.

Noname – Room 25

«Y’all really thought a bitch couldn’t rap, huh?» L’unico difetto di questo album è che le prime due tracce sono dei capolavori assoluti mentre le altre sono solo bellissime.

Parquet Courts – Wide Awake!

L’hanno fatto di nuovo ‘sti stronzi, un album assolutamente spassoso, intelligente senza ammorbare con soluzioni supercazzolanti. Un po’ derivativo da “Human Performance”, ma al quinto, sesto, trentesimo ascolto non importerà più di tanto.

PC Worship – Future Fase

Questo collettivo costruito attorno alla figura polivalente di Justin Frye è l’unica dose di sperimentazione di cui avete bisogno ma non lo sapevate. Dategli una possibilità.

SabaSaba – SabaSaba

È come la colonna sonora di un ipotetico film di Ken Russell mai uscito ma di cui avrei amato la colonna sonora.

Sly & the Family Drone + Dead Neanderthals / Mai Mai Mai Split

Lo split del secolo, sempre che siate dei pervertiti musicali come pochi.

SLONK – Song About Tanks

Altro progetto da cameretta, stavolta di Joe Sherrin. È un album che arriva da una brutta separazione e da un brutto periodo, si sente, ma non importa.

Soccer Mommy – Clean

Come dite? Snail Mail? Mi spiace, mai sentiti nominare.

The Buttertones – Midnight in a Moonless Dream

Già aprire l’album con uno strumentale dal sapore surf rock non è da tutti, sopratutto con lo stile e la carica pop dei Buttertones, ma anche il resto non scherza affatto. I Buttertones sono riusciti dove Frights e affini hanno fallito, ovvero a giocare con gli stilemi del rock ante-Beatles parlando della propria generazione. Se vanno avanti così questi diventano delle certezze, almeno da queste parti.

The Chats – Smoko

Esordio semplicemente perfetto, punk da sottoscala con la tigna giusta e la lager più scadente che c’è.

The Men – Drift

Mi duole ammetterlo, ma è stata una buona annata per l’indie praticamente ovunque. Tranne in Italia.

The Murlocs – Young Blindness

Questi orfani di Roy Erickson hanno sfornato un disco acidognolo che, non senza nostalgia, spicca per il buon songwriting e il tasso di cazzeggio. E sì, lo so che è uscito nel 2016, ed io lo comprai nel 2016, ma l’ho ascoltato nel 2018. Succede più spesso di quanto crediate.

The Shifters – Have A Cunning Plan

Passato un po’ in sordina ma destinato a far parlare di sé tra gli appassionati del rock australiano. Gli Shifters passano dove sono già passati Total Control, UV Race e Dick Driver, ma lo fanno con un piglio piuttosto originale e una capacità di costruire un album che migliora di ascolto in ascolto, lasciando presagire un futuro brillante.

Thought Gang – Thought Gang

Angelo Badalamenti e David Lynch. Se non li metti in lista devi avere il cuore foderato di merda.

Timmy’s Organism – Survival of the Fiendish

Casse contro il muro, amplificatore che le fa fischiare, 33 giri o FLAC – sai che m’importa, volume immorale. Se non è questo godersi del buon rock ’n roll forse non ho davvero capito niente della vita.

Windows96 – One Hundred Mornings

Miglior uscita vaporwave dell’anno, probabilmente, anche se l’attenzione dei fruitori ossessionati si è ormai spostata su lidi di contaminazione non sempre più interessanti quanto inutilmente più criptici.

Scusa beppe, ma per quale sudicio motivo nella lista non c’è…

Daniel Blumberg – Minus

Francamente Blumberg è presente anche nella classifica su RateYourMusic di tua nonna, a che serve se lo metto anch’io? Te lo fa piacere di più? E poi, considerando quanta bellissima roba è uscita in ambito jazz nel 2018, mi fa pensare che Blumberg fosse presente in due classifiche su tre anche per l’ottimo ufficio stampa. Cioè, ho letto classifiche tutte rock, pop o rap e poi come unico album jazz questo. Fate vobis. Ero indeciso se mettere Akinmusire proprio per non cadere nel tranello, poi mi sono ricordato che qui non mi paga nessuno, per cui…

Kurt Vile – Bottle In

Non è che sia un brutto album o le canzoni non siano azzeccate. Divertente l’intro con Loading Zone, notevole la melensa Bassackwards come la seguente ma più spigliata One Trick Ponies, ma porco demonio ‘sto disco di Kurt Vile puzza di paraculata da lontano un miglio. ‘Sta nostalgia canaglia un po’ teen drama un po’ Mac DeMarco un po’ Pippo Franco ha stramazzato i maroni. In questo album Vile nasconde un cantautorato scadente con dei bei effetti ed una estetica talmente abusata da assomigliare alla spugna con cui lavo i piatti da capodanno scorso.

Low – Double Negative

L’unica cosa davvero interessante è stata seguire il bailamme che si è scatenato tra vecchi fan e nuovi fan. La gente si scanna per le cose più stupide.

Mid-Air Thief – Crumbling

Ma siete davvero tutti sicuri che sia stan gran cosa? Secondo me è un disco che spruzza pretenziosità da ogni solco.  Magari però meriterebbe anche questo una recensione più accurata.

Spiritualized – And Nothing Hurt

Semplicemente non fa per me, l’avrò ascoltato dieci volte e continua a tediarmi come poche cose al mondo. Scusami Jack, è questione di feeling.

Ty Segall – Freedom Goblin

In pratica una raccolta di riff e idee che Segall aveva già sviluppato in qualsiasi suo vecchio album, però stavolta registrati e prodotti a modino. Capolavoro? Magari, quello è uscito nel 2008, e il Biondo che fa impazzire il mondo ha smesso di sfornare cose interessanti intorno al 2012, dopo di che è diventato una fotocopia vivente di se stesso. Peccato.

BONUS:

Courtney Barnett – Tell Me How You Really Feel

A mia discolpa non riesco a farmi piacere musicisti quadrati come la Barnett, troppo prevedibili le strutture melodiche e le armonie, le liriche comunque meritano, curiosissimo di vederla dal vivo tra pochi giorni.

Tropical Fuck Storm – A Laughing Death in Meatspace

Indubbiamente uno dei dischi che mi ha incuriosito di più del 2018, del quale non sono riuscito ancora a farmi una opinione solida. Anche loro li vedrò tra poco, spero di riuscire ad entrare nel loro mood e carpirci qualcosa in più.

 

Frank Zappa, Gang Of Four, Miss World

La faccio breve: in questi mesi ho avuto parecchi cazzi da pelare, per cui non rompetemi il gatto. «Vabbè, però avrai sicuramente ascoltato un po’ di musica!» Vero, però poco rock ’n roll, e sopratutto pochissima roba uscita di recente ma quasi ed esclusivamente riascolti di vecchi album. Potrei scrivere di Sage Francis, Thundercat, della Camerata Nordica o di Mahler, ma sono abbastanza sicuro che quello che ne verrebbe fuori sarebbero una cascata di banalità e stronzate colossali, e dato che per quello c’è già il Rolling Stone non vedo perché mi ci dovrei mettere pure io. Alla luce di tutto ciò vi lancio qualche brevissima istantanea (perché non sono recensioni) e due o tre riflessioni estemporanee, leggere come l’aria.

Frank Zappa - Apostrophe'Frank Zappa
Apostrophe
(1974)

Tra Settembre e Dicembre mi sono ripescato tutto lo Zappa dai “Lost Episode” targati 1959 fino a “Joe’s Garage” del ’79, in una sorta di delirio nostalgico per i tempi che furono quando al liceo scoprì questo pazzo baffuto. In un moto di rivalutazione sentimentale mi sono persino ritrovato ad apprezzare “Cruising with Ruben & The Jets”! Quasi mi stavo per sparare un album dei Climax Blues Band in questo clima riappacificatorio e dolciastro, e devo dire che stava andando tutto benone, ascoltando “Over-Nite Sensation” credo di aver avuto persino un’erezione durante l’assolo di Zomby Woof. Poi però è successo, di nuovo. La magia è scomparsa e tutt’un tratto Zappa mi è sembrato uno dei peggiori bastardi della storia del rock. Tutta colpa di quel pasticcio commerciale e ruffiano di “Apostrophe”.

La musica di Zappa dal 1974 si è trasformata da provocatoria a idiota con un colpo da maestro. Completamente rincretinito dalla sua stessa grandezza Zappa ha cominciato a riciclarsi e a spostare la sua attenzione verso la perfezione estetica dell’esecuzione, producendo una quantità incontenibile di musica fine a se stessa, caratterizzata  nei momenti migliori da lunghissime elucubrazioni elettriche, altrimenti ti toccavano oscene derive pseudo-sperimentali (“Francesco Zappa”), e in generale tutte le sue canzoni divennero metafore più o meno dirette su quanto ce l’avesse lungo.

Non è che tutto quello che sia uscito dopo il ’74 sia merda chiaramente, ci sono parecchi pezzi che si salvano dal generale appiattimento della produzione zappiana, ma sono monadi, brevi esternazioni di un genio un tempo incontenibile.

Anche nei suoi album meno riusciti prima di “Apostrophe” Zappa conservava comunque una fortissima coerenza concettuale, completamente mandata a puttane per favorire la catarsi delle live, lunghissimi flussi di coscienza che cominciavano e si concludevano nell’esaltazione delle sue doti di chitarrista. Riascoltare le soluzioni timbriche di “Hot Rats” complicate oltremodo in St. Alfonzo’s Pancake Breakfast e Father O’Blivion mi ha fatto tornare la colazione sù per l’esofago. Dopo aver parodizzato tutta la storia del rock Zappa ha fatto il giro e, senza rendersene conto, a cominciato a parodizzare se stesso.

trasferimentoGang Of Four
Entertainment!
(1979)

È incredibile quanti gruppi di merda debbano le loro migliori intuizioni a questo album. Di tutta la prima fondamentale ondata post-punk i Gang Of Four rappresentano il giusto equilibrio tra sperimentazione e ballabilità. Intellettuali ma funky, con riff catchy ma anche feedback lancinanti, pensate che negli anni ’80 venivano considerati un ascolto difficile, oggi invece sembrano i più fruibili di quella eccezionale sfornata di punkers intellettualoidi.

Anche loro come Pere Ubu, Throbbing Gristle, Young Marble Giants rispondevano ad una tensione collettiva verso l’apocalisse, perlopiù divisa tra chi ne faceva una battaglia politica e chi una sociale. Chiaramente i Gang Of Four non erano gli Scritti Politti, e così la loro rabbia generazionale si scagliò principalmente contro la musica commerciale.

Questa comune visione di un mondo allo sfascio, dove le industrie chiudono e il sogno capitalista sembra trasformarsi per molti in un incubo, aveva generato una serie di singoli nell’ambiente post-punk piuttosto espliciti. Gli Ubu avevano nel primo album un pezzo come Chinese Radiation, i Throbbing Gristle un singolo come Zyclon B Zombie, i rarefatti Young Marble Giants invece Final Days. In “Entertainment!” non c’è un pezzo corrispettivo  a quelli appena elencati, perché tutto l’album tende per sua natura verso una dimensione paranoica. Il prezioso corollario di immagini nelle liriche, cantate con fare un po’ altezzoso da Jon King, costruisce un mondo giovanile arido e pericolosamente apatico, chiuso all’interno di una discoteca senza porte in cui i Gang Of Four suonano a loop i loro pezzi.

In effetti la band sembra in trance per tutta la durata del disco, persino mentre la batteria di Hugo Burnham sembra in alcuni momenti riprendere il drumming nevrotico e claustrofobico di John French.

Incredibile la conclusione dell’album, tanto immensa e irraggiungibile da rendere ogni tentativo futuro della band di ripetersi a quei livelli puerile e futile. Due voci che si ignorano per poi trovarsi causalmente dopo una nebbia di effluvi elettrici, mentre la sezione ritmica martella come nei Neu!, sono la summa del lavoro di compressione e spigolatura del sound new wave proposto dalla band inglese. Anthrax è più una performance che una canzone vera e propria, potrebbe benissimo essere parte integrante di uno spettacolo di Roberto Latini e nessuno se ne stupirebbe nemmeno un po’.

a4037505322_10Miss World
Waist Management [EP]
(2017)

Non so nemmeno come l’ho scoperto questo Ep. Probabilmente cliccando a caso qua e là in un momento di noia – uno dei pochi concessomi in questi mesi. Ve lo dico chiaro e tondo: non esiste nessun motivo al mondo per cui dovreste ascoltare “Waist Management. Le canzoni sono banali, il garage pop che ci troverete è indietro di dieci anni in termini di freschezza, e di quattro canzoni una è un riempitivo bello e buono. Però, mi venissero le pustole nei condotti uditivi, è la cosa che ho più ascoltato da Settembre a Dicembre. Perché? Boh.

L’idea di base di Miss World è che lei è una ragazza incredibilmente gnocca, che vende la sua compagnia e il suo corpo per campare ogni giorno alla bell’e è meglio. In Buy Me Dinner giura d’innamorarsi di un tizio sposato se gli offrirà il pranzo, in Put Me In A Movie afferma che tutti i suoi amici vorrebbero metterla in un film (di che genere ve lo lascio intuire a voi), in Click And Yr Mine Miss World «fell in love in Internet» e non si rialza più. Lip Job, come avevo detto, è un riempitivo sulla fellatio.

Non so cosa sia successo, ma la storia di Miss World mi ha conquistato. Mi è anche venuta voglia di riascoltarla. Adesso.

PROSSIMAMENTE SU QUESTO BLOG:
1) Una recensione del primo storico flop dei Rolling Stones;
2) La tragica ed emotiva recensione del primo CD rock della mia vita: “Selling England By The Pound”.

(Tranquilli, le ho già scritte. Più o meno.)

Podcast – Quella cosa chiamata new garage

In questo delirante blog tenuto dal blogger meno costante della storia di questa piattaforma abbiamo spesso parlato di new garage, ci siamo confrontati, insultati, scambiati opinioni, insultati, proposto ascolti e delle birre talvolta, insultati. Ecco, diciamo che in questo podcast e quello che seguirà ho voluto tirare le fila del discorso cominciato ormai 5 anni fa su queste pagine virtuali, proponendovi una visione di questo nuovo garage inedita, piena zeppa delle contaminazioni che secondo me ha, quasi snaturandolo se volete, ma mostrandovi le sue viscere per quello che sono, senza troppa poesia.

Cliccate su play, non ve ne pentirete.

«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»

Podcast – Gli album peggiori delle band migliori

Sì, ok il titolo fa schifo ai cani, ma il podcast è interessante a bestia. Ci stanno Television, White Stripes, Velvet Underground, Rolling Stones, insomma roba che scotta gente! Sparatevelo nelle orecchie e serbatelo per un po’ tra il cerume, perché la prossima settimana non andiamo in onda (di solito è ogni martedì alle 21:30 su Radiovaldarno).

«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»

Young Marble Giants – Colossal Youth

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Secondo il più celebrato e rompiballe critico rock, Simon Reynolds, il loro post-punk era meglio persino di quello dei Pere Ubu, per Geoff Travis, capoccia della Rough Trade in quel periodo di fermento new wave tra la fine dei ’70 e l’inizio dei sintetici ’80 erano il gruppo di punta della leggendaria etichetta, hanno fatto solo un album e sono un trio di gallesi senza batterista.

Chissà se persino oggi Stuart Moxham, leader della band, pensa ancora che Alison Statton, la ragazza di suo fratello Philip nonché cantante della band proprio per questo, non meriti di stare al primo posto della classifica del New Musical Express del 1980. Chissà cosa avrà provato il leggendario John Peel quando il 18 agosto dello stesso anno i Young Marble Giants, questo improbabile trio che si ribellava all’egemonia punk, lo stesero con un’ondata di post-punk intimista, quei suoni scarni, quella voce così normale, quei testi così ricercati. Gli ci volle un bel po’ a Peel per togliere dalla sua personale heavy rotation Final Day, una vera e propria anti-hit dal sapore apocalittico.

Se fossi un bravo recensore vi sviscererei ogni singolo pezzo di questo monumentale album, l’unico di questa straordinaria band, ma l’unica cosa vagamente musicologica o critica che riesco a formulare mentre ascolto “Colossal Youth” è una semplice, banale, parola: cazzo.

E non è una questione di eccitazione sessuale, la stessa che mi prende quando parte T.V. Eye degli Stooges o Eptadone degli Skiantos, lì è il fuoco sacro del rock che straborda dai vasi capillari, qua è tutta un’altra cosa. La musica dei YMG mi lascia sempre senza fiato, al massimo riesco a sussurrare un fievole cazzo mentre mi stendo sul letto, completamente perso in quelle liriche dirette a me e a me soltanto, quel ritmo così new wave senza pretese artistoidi, quel rock che ti penetra dentro senza urlare nemmeno una volta.

Parte la batteria elettronica, ineluttabile come un metronomo, la segue la chitarra di Stuart Moxham imitandola, arriva la voce di Statton, fredda ma non distaccata, poi il basso minimale di Phil Moxham, una melodia rarefatta, quasi impercettibile, rock scarnificato da ogni pelle nera o bianca che sia, altro che la de-evoluzione dei Devo, nei soli 3 minuti di Searching for Mr. Right c’è tutto il post-punk nella sua definizione più nobile, quel passo avanti che razionalizza le paturnie nichiliste di Iggy Pop e dei Ramones in un sound compatto e in delle liriche consapevoli.

Non ci sono abbellimenti, non c’è niente in più, nemmeno un inizio ed una fine degna di questo nome, gran parte dei pezzi partono con un ritmo dettato dalla batteria elettrica (rudimentale e limitata) e nello stesso modo si chiudono, “Colossal Youth” è un album che prende in esame il particolare, le cose che ci sono nel mezzo fra quelle “importanti”, non vuole essere esaustivo, al massimo accenna, i pezzi sono tutti cortissimi, essenziali.

La presenza di un organo e di un pezzo dedicato al grande Booker T. non devono far storcere il naso, questo disco nella sua compattezza sonora si districa tra i generi più diversi, come ho detto prima qua si nega ogni influenza, si possono percepire vaghi rimandi al kraut rock, sicuramente ad Alan Vega, la chitarra di Moxham riesce ad evocare Robert Fripp come Duane Eddy, eppure quello che ne viene fuori è unico, irripetibile e decisamente magnetico.

Brand-New-Life è uno dei riff più belli di tutto il post-punk, ai livelli di Non-Alignment Pact dei Pere Ubu o di Natural’ Not In It dei Gang of Four, il giro d’organo in Ode To Booker T. (traccia aggiunta nella ristampa) è pura perfezione estetica, Choci Loni è un surf rock post-apocalittico di pregevole fattura, Include Me Out ha una delle più belle sequenze batteria-chitarra-basso della storia.

Uscito a Febbraio del 1980, “Colossal Youth” è uno dei capolavori del rock, un album che spruzza modestia e stile da tutti i pori, musica pensata per chi non vuole solo stordirsi a suon di riff gonfiati di decibel, ma pretende qualcosa di più.

E l’immancabile Peel Session:

Fifty Foot Hose – Cauldron

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Siamo nei primi anni ’60 a Burlingame, California. In questa cittadina si sta vivendo un boom industriale senza precedenti, le famiglie bene di San Francisco si trasferiscono qui nella contea di San Mateo, certamente anche per via di quel verde sfavillante che incornicia tutte le strade, ma sopratutto per le montagne di dollari che si accumulano nelle industrie e nei loro dintorni.

Figlio di una immigrata italiana “Cork” Marcheschi è un giovane con la passione per la musica di Edgar Varèse, nel 1962 passa il tempo sperimentando suoni e stravaganze su sintetizzatori fatti in casa alla bell’e meglio, facendo inorridire i vicini con suoni gutturali, strani gorgoglii e voci siderali.

Deciso com’era di far provare l’ebbrezza di quei rumori a tutta la comunità di Burlingame, sempre nel ’62, assieme a dei suoi amici italo-americani, da alla luce gli Hide-away, una band dallo sgangherato R&B, modellato sull’influenza di “Poème électronique” di Varèse, del jazz di ‘Frisco e del blues che ascoltava saltuariamente per strada. Da questa formazione verrano fuori gli Ethix, ovvero la band in cui Marcheschi si impegnerà in una sperimentazione più consapevole, la band dalle cui ceneri nascerà uno dei complessi più importanti della storia del rock: i Fifty Foot Hose.

Come dite?
Che razza di storia è mai questa?
Chi cazzo sono i Fifty Foot Hose?
Non saranno mica la solita merda proto-punk, proto-kraut, proto-cazzi e proto-mazzi?
No amici miei, niente del genere.

Il loro esordio, “Cauldron” del 1967, è stato uno degli album del rock psichedelico più seminale della sua generazione. Throbbing Gristle, Pere Ubu, Bauhaus, Chrome, cristo, probabilmente in questa lista c’è pure tua nonna, si perde a vista d’occhio il numero delle band che hanno subito il fascino della follia controllata di questo album.

Considerando che la stessa introduzione che avete appena letto la troverete per almeno altri TRECENTO album su internet, ci tengo a precisare una cosa. Prima di tutto che mai come ora si stanno svelando le fragili basi della critica rock, piena zeppa di “capolavori seminali”, troppi, in particolare nella psichedelia, che poi ad ascoltarli sono spesso tutti uguali, e magari stampati per la prima volta nel 2002 (per cui hanno influenzato ‘sta gran ceppa).

Non so dove volessi andare a parare con questo discorso, probabilmente mi sto rimbambendo, ma volevo dire che ci sono album che possiamo DAVVERO definire imprescindibili per la comprensione storica della psichedelia, come “Psychedelic Lollipop” (1966) dei Blues Magoos, o Sgt. Pepper (1967) dei Beatles. Ma la questione cambia, e non poco, quando dobbiamo giudicare quegli album che hanno DEFINITO il genere non solo nella loro epoca, ma ben oltre. (però basta col Caps Lock, eh)

Come non citare i primi tre dei Silver Apples, attivi fin da inizio 1967, sperimentatori assoluti, ma anche l’esordio del ’68 degli United State Of America, Piper (1967) dei Pink Floyd, il secondo album dei leggendari Kaleidoscope (“A Beacon from Mars”, 1968) e “Parable of Arable Land” (1967) dei Red Crayola, questi sono tutti album che non hanno semplicemente definito il genere, ma ne hanno esteso l’influenza fino ad oggi. Questi sono quelli che vanno ascoltati a manetta, ma non perché ce lo dice il Julian Cope o il Simon Reynolds di turno, ma perché sono una figata!

In questo calderone di genialità allucinogena non abbiate remore alcun di inserire i Fifty Foot Hose tra i protagonisti assoluti.

Ah, già, stavamo parlando di loro. Eravamo rimasti agli Ethix, giusto?

Nel 1966 esce il loro primo singolo, un vero e proprio schiaffo in faccia al buon gusto: “Skins/Bad Trip”. Skins è una specie di garage rock tutto storto e stonato, ma il piatto forte è senza dubbio Bad Trip. Degno di un titolo così diretto, Bad Trip è una cacofonia malata, urla e rigurgiti acidi si susseguono su una base musicale indefinita, uno degli esperimenti più deprecabili e meravigliosi mai sentiti nel rock di ogni tempo e declinazione, puro dadaismo infantile.

Inutile dirvi il successo planetario che ne seguì.

Fu David Blossom, il chitarrista degli Ethix di Marcheschi, che decise di fare un passo avanti nella sperimentazione, così sempre nel ’66 formano una nuova band con Larry Evans, anche lui chitarrista, Kim Kimsey alle pelli, Terry Hansley al basso e sopratutto Nancy Blossom alla voce (all’epoca moglie di David ma futura sposa di Cork!).

Chiusi in una camera con un Theremin, dei Fuzz-Tone e uno speaker in plastica, appartenente ad una nave della marina americana della Seconda Guerra Mondiale, cominciarono un po’ per gioco un po’ per reale necessità artistica a formare quell’arabesco psichedelico che sarà “Cauldron”.

Ad inizio 1967 gli ormai Fifty Foot Hose finiscono alla Mercury Records, al cospetto di band già affermate come i Blue Cheer. Dopo qualche sessione di prova, con l’aiuto di Dan Healy (Grateful Dead) dettero alla luce per la Limelight Records “Cauldron”. Ne furono stampate 5000 copie.

Se per molti complessi dell’epoca l’ispirazione arrivava dall’esperienza diretta di droghe più o meno pesanti, per i Fifty Foot Hose la cosa era un po’ diversa. A parte Larry Evans, che era il più canonico del gruppo, gli altri si sparavano in vena Morton Subotnick, John Cage, Terry Riley, Steven Reich, Luigi Russolo, il musicista più commerciale che conoscevano era Archie Shepp. Tutto poteva venirne fuori, ma di certo non un qualcosa di consueto.

Allora, si parla dell’album? Ma non lo sapete che Bertoncelli disapprova quelli che si mettono lì a scrivere di ogni traccia del disco, come una specie di elenco asettico? E ci frega qualcosa?

Si comincia con And After, e già Marcheschi mette le mani avanti. Rumore. E la melodia? E la tonalità? E il ritmo? Roba per vecchi rincoglioniti. Un terremoto sottomarino apre le danze, un suono che Chrome e Pere Ubu conoscono molto bene.

Segue la dodecafonia psichedelica di If Not This Time, con la voce di Nancy adesso in primo piano, qualcuno ci ha sentito qualcosa dei Jefferson Airplane, scazzando ovviamente. If Not This Time è un pezzo inconcepibile per i Jefferson come per buona parte della scena psichedelica, troppo colto, troppo intricato, dannatamente estraniante e comunque fruibile.

Opus 777 con i suoi 22 secondi anticipa di quattro anni “Alpha Centauri” dei Tangerine Dream.

Primo ed ultimo calo di stile dell’album la canticchiabile The Things That Concern You di Evans, giuro che sembra uscita fuori da “In the land of Grey and Pink” dei Caravan, piuttosto fuori posto insomma.

Dopo l’intermezzo elettronico di Opus 11 scoppia la furia psichedelica di Red The Sign Post, una meraviglia stereofonica che mostra i muscoli della band, brevissimi assoli, virtuosismi elettronici, rumori assordanti e un finale deflagrante.

Ultimo intermezzo elettronico, For Paula, e poi un’altra esplosione di colori, suoni, odori, visioni con Rose. Il dialogo tra la voce di Nancy e la chitarra di Blossom è puramente sessuale, senza alcun dubbio, un continuo stuzzicarsi senza vergogna, fino ad un’orgia con tutta la band che culmina a 3/4 del pezzo.

Si arriva senza protezioni al volo vertiginoso di Fantasy, 10 minuti senza riferimenti, un capolavoro questo davvero senza tempo, degno della potenza evocativa di War Sucks dei Red Crayola. Blossom con la chitarra fa quello che cazzo gli pare, Terry Hansley praticamente dà fuoco al basso mentre Kim Kimsey, che in un primo momento tiene stabile la jam infernale, perde i freni inibitori, fino al culmine che viene spezzato dalle note di una chitarra acustica, per poi risalire verso il caos. Montagne russe psichedeliche, un continuo sù e giù che non dà mai un attimo di respiro, melodie psych che si mescolano a dadaismo e cacofonia. Quasi meglio di una birra fredda d’estate.

E dopo una tale follia controllata la mente viene nuovamente sconvolta… da una improbabile cover di Billie Holiday. Amatissima da Nancy, God Bless the Child viene infarcita di interventi elettronici del tutto arbitrari, rendendola quantomeno particolare. Personalmente non ho mai ben capito il perché di questo pezzo, però suona da Dio, per cui gliela abboniamo.

E quando pensi di averle sentite tutte, ma proprio tutte, ecco Cauldron, un finale criptico, un collage dadaista di voci, alcune deturpate orribilmente, un’esperienza angosciante e incomprensibile, degna della new wave più spinta e concettuale.

Quello che discosta questo album dalla produzione a lui contemporanea è l’incredibile quantità di riferimenti culturali più o meno immediati, e la perfetta armonia tra sperimentazione spinta e fruibilità.

Trascendendo generi, influenze e se vogliamo anche ogni norma del buon senso, i Fifty Foot Hose non fecero in tempo a fare il secondo album (doveva chiamarsi secondo le leggende “I’ve Paid My Dues”) che si sciolsero, lasciando comunque ai posteri un album tra i più seminali e belli della storia del rock.

D’Angelo And The Vanguard, russian.girls, Gangbang Gordon, The Stevens, Total Control

INTERNETHATE

Le recensioni di oggi sono davvero particolari per questo blog, r’n’b, hip pop, pop sofisticato, tutta roba che di solito non prendo in esame per due motivi:

  • non mi interessano,
  • notoriamente non ci capisco una emerita mazza, ed è meglio star zitti quando non sai un signor cazzo dell’argomento.

Però, dato che sono un grandissimo cojone, voglio anch’io metter bocca su faccende che non mi riguardano. In fondo è a questo che serve internet, no?

Scherzi a parte (mamma che ridere) questi sono album che ho aquistato, che ho ascoltato parecchio e sui quali c’è qualcosa da dire (o da inveire, dipende) sennò col cacchio che mi mettevo a scrivere un post nella mia unica mattinata libera.

Eeeee via con le danze!

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angeloD’Angelo And The Vanguard – Black Messiah (2014)

[So bene che con questa recensione mi butterò addosso tanta di quella merda che da domani assomiglierò clamorosamente al demone-merda di Dogma, ma vabbè, succede.]

Esattamente come con i Goat l’opinione pubblica si è fatta sentire, tutti i critici nostrani ed internazionali si sono piegati a novanta per un nuovo album assolutamente inutile, “Black Messiah”. Ma è mai possibile che nel 2015 io debba sentirmi dire da riviste che si professano rock che un album di r’n’b una tacca sopra il riesumato Prince, oltretutto versione raffinata del r’n’b made in MTV, sia un fottuto capolavoro? Anche perché visto il plauso incondizionato di critici piuttosto “importanti” (tra cui l’uomo a cui piacciono gli Who ma “Tommy” gli fa cagare) io l’ho comprato subito, senza fiatare. Da perfetto idiota.

Tutta colpa di quei impasticcati dei Daft Punk e il loro dannato ritorno al funky, genere troppo spesso legato alla merda per eccellenza, la disco music, come nel caso dei due francesi, mentre i cari D’Angelo And The Vanguard (tornati dopo vent’anni con tanto di canale Vevo su YouTube!) sporcano il funk di r’n’b e reminiscenze Funkadelic, inutilmente pompate ed esasperate da testi politically incorrect, collocandosi così lontani dai balletti imbarazzanti con Pharrell, ma non per questo vanno adulati a-prescindere.

Che poi, come con i Goat, a me mica fanno cagare al 100%, il groove assassino di 1000 Deaths per esempio è indiscutibile, ci sono dei musicisti che venderebbero l’anima a Sly Stone per suonare così, però che cazzo c’è da dire su un album del genere? Ha un bel tiro, ha un bel groove, fine. E questo basterebbe a decretarlo a capolavoro?

Belle anche le liriche, ma nulla per cui strapparsi i capelli.

Dopo una settimana di ascolto ho messo sul piatto “Maggot Brain” dei Funkadelic, e credetemi: mi sono sentito una persona migliore.

link a YouTube

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10723566_472216169585570_1463938047_nrussian.girls – Old Stories (2014)

A rieccoci con la Lady Boy Records, etichetta islandese che ci ha già donati i Pink Street Boys. Stavolta con russian.girls la questione è piuttosto diversa, siamo davvero lontanissimi dal garage incasinato dei PSB e in generale da qualunque cosa suonata con una chitarra elettrica.

Questa strana creatura nasce dalla contorta mente di Guðlaugur Halldór Einarsson (impronunciabile membro dei Captain Fufanu, band elettronica sperimentale), una sorta di folle artista ambient autore di questo questo criptico “Old Stories”.

Il primo impatto con questo “Old Stories” è stato abbastanza… difficile (l’ho essenzialmente odiato) ma nel tempo mi sono reso conto che spesso tornavo all’ovile islandese per riascoltarmi certi passaggi, per riappropriarmi di certe sfumature. Era come se davanti a me si stagliassero colori e linee del tutto casuali, e non riuscissi a capire il senso di quegli schizzi informali. Ma allontanandomi progressivamente (con la mente) mi sono reso conto che il tutto faceva parte di un quadro troppo grande per risultare chiaro al primo colpo d’occhio.

“Old Stories” è praticamente la Psichedelia Occulta Islandese, un viaggio nelle trame esoteriche e criptiche delle loro discoteche e nella loro alienante modernità. E giuro di non essere ubriaco mentre sto scrivendo (il che fra l’altro è una novità).

Non so bene come categorizzare questo album, principalmente perché sono estremamente ignorante sul frangente ambient avant-garde e via dicendo, però roba come Snake Bloker (ovvero un’incubo cubista dei Tortoise) mi intriga per la sua lontananza dal mondo e dal mio modo di pensare (anche la musica).

Un’esperienza che consiglio a chi ha già dimestichezza col genere, altrimenti statene bene alla larga.

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a3621126830_10Gangbang Gordon – Culturally Irrevelerent [EP] (2014)

Della BUFU Records riparleremo sicuramente, e probabilmente proprio per Gangbang Gordon.

Dadaista, irriverente, sconclusionato, senza dover riprendere la de-strutturazione portata avanti dai maestri come Captain Beefheart o dai perfidi Pussy Galore, questo genio da Wakefield riesce a suo modo a de-costruire il garage moderno, con una leggerezza a tratti addirittura pop (Live At The ABC).

Fa tutto lui, chitarra, voce, batteria, drum machine, dj set, tutto in una maniera sfrontata e disorganica. Non so bene come riesca a distruggere le basi della melodia riuscendo comunque ad essere melodico. I ritmi “beefheartiani” di Passed In My MCAS Exam mescolati agli interventi new wave della chitarra non sembrano infatti lontani dall’immediatezza del garage pop di Jay Reatard, o dalle melodie perfette di Alex Chilton, il che, se permettete, è piuttosto notevole.

L’hip hop sgangherato di Orgullo de Rappers, il disorientamento ritmico, timbrico e armonico di Las Days of Work, praticamente tutto in questo album porta stupore e riflessione, ma senza la premessa di una presa per i fondelli della contemporaneità.

Infatti la cosa bella di Gangbang Gordon è che riesce ad ideare la sua musica a tratti nonsense guardandosi attorno e descrivendo quello che vede, con cura ma senza nemmeno pensarci troppo sopra, risultando molto più realistico e coerente di quanto possa sembrare ad un primo impatto.

L’angoscia e la confusione di Miss Cheevas credo chiarisca piuttosto bene le potenzialità espressive di questo sconosciuto one-man-show dal Massachusetts, uno degli EP più belli che ho ascoltato nell’anno appena passato.

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a2192467939_2The Stevens – A History Of Hygiene (2013)

Senza alcun dubbio il miglior album rock-pop del decennio, e per tanto non mi piace.

Detto questo questo, il viaggio composto da ben ventiquattro canzoni nell’adolescenza e nell’immaginario di inizi anni’90 di “A History Of Hygiene” è davvero ben costruito e perfettamente equilibrato, a tratti risulta persino evocativo.

Questi australiani ci sanno fare, le note malinconiche la fanno perlopiù da padrona, ma riescono quasi sempre a suscitare una nostalgia di tempi mai vissuti (The Long Vacation, Trail Of Debt, Legend In My Living Room, True Tales Of Half Time, o la elegiaca Come Outside e altre).

La cosa che mi convince di meno però è la ripetitività del sound e delle composizioni, che sì, possono anche cambiare ferocemente mood, ma senza mai riuscire a provocare un bel niente, né coi testi né con le idee musicali.

Ci sono anche delle influenze evidenti, come in Scared Of The Men che li avvicina a tratti agli Smiths, o un pizzico di Syd Barrett in pezzi come Blind In One Ear. Ci sono note più riflessive e interessanti dal punto di vista compositivo come Time Share Community Hall, insomma bisogna ammettere che del soft rock a tinte pop questo album riesce a condensare quasi tutto, ma senza mai svariare più di tanto.

Ecco però la cosa che mi convince di più: raramente ci si annoia. Il che potrebbe suonarvi strano, dato che vi ho appena detto che è un album essenzialmente con poche idee e rimescolate all’infinito, ma paradossalmente alla fine del lungo percorso ci si sente un po’ soli, anche perché i The Stevens, volenti o no, ti trascinano nei loro ricordi, nei loro angoli bui o luminosi, anche se sempre con troppa educazione e distacco per i miei gusti.

Chi ama questo album indica Hindsight come il pezzo di punta, ma a me le nenie alla Morrissey mi scassano abbastanza i coglioni (scusa Marta!) e gli preferisco di gran lunga l’angosciosa e “beatlesiana” Time Share Community Hall.

A mio avviso ben più interessanti dei tanto acclamati Pink Mountaintops di Stephen McBean.

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a2301055101_2Total Control – Typical System (2014)

Ci avevano lasciato i Total Control nel 2011 con lo stupefacente “Henge Beat” prodotto dalla Iron Lung Records di Seattle, un misto di Thee Oh Sees e Ultravox davvero azzardato, ma in linea con la nascente scena new post-punk californiana ora capitana dai Corners.

Parliamo un attimo di “Henge Beat”. Se la compattezza del synth in The Hammer sembra uscita dritta dritta da un album degli Human League, l’anthem garage di One More Tonight lasciava prospettare grandi fuochi d’artificio alla Ty Segall, una sorta di Ausmuteants più garage e meno synth, in pratica era un album riuscito a metà, dove non si capiva dove cacchio volevano andare a parare questi australiani! La cosa più bella è che TRE ANNI non sono serviti a schiarire le idee.

Non so se è un bene, ma il dialogo tra new wave e garage rock si fa ancora più denso in “Typical System”. Vi faccio un esempio con la seconda traccia, Expensive Dog, dove l’iniziale martellamento garage rock si perde a metà in una variazione new wave, per poi riprendere il ritmo forsennato alla Oblivians e infine ricadere in un incubo synth. Purtroppo questo dinamismo nella composizione non si ripeterà per tutto l’album, ma nei tratti in cui compare è evidente che le due passioni della band si stanno fondendo più armonicamente.

In effetti, a forza di riascoltare questo “Typical System” credo che un passo avanti i Total Control lo abbiano fatto, basta godersi il nichilismo esistenziale nelle liriche, o la distaccata ma potente Flesh War. Non me la sento di dire che siamo ai livelli dei Nun, anche perché in sole nove tracce non sempre l’estetica new wave risulta sufficiente a tenere botta.

Systematic Fuck ha degli interventi di chitarra sul finale che me lo rizzano, ma il resto del pezzo è del tutto fine a se stesso, noioso, ridondante. Liberal Party è semplicemente imbarazzante mentre The Ferryman è evidentemente un riempitivo, un riempitivo in un album di sole nove tracce!

Sebbene sia stato fatto un passo avanti importante (anche i 7 minuti densi di ottimo garage psych di Black Spring lo dimostranochiaramente) ancora il dialogo tra new wave, post punk e garage rock sembra raffazzonato, barcamenandosi tra grandissimi spunti e inutili variazioni sul tema.

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Jay Reatard – Blood Visions

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Dimenticare Jay Reatard sembra sia stato più facile del previsto. Morto a soli trent’anni, un’altra storia di droga, alcol e depressione, un must dell’immaginario rock, una tragedia evitabile probabilmente.

Jay è stato uno dei rocker più prolifici dei primi 2000, le sue abilità nel creare melodie perfette mischiando new wave, punk, pop e garage sono quasi leggendarie. Non nascondeva un animo indie e la passione per un rock spensierato e senza pretese, la sua immediatezza però non era banalità, c’era tutta la sua presenza in quelle live al fulmicotone e la sua anima in quelle canzonette da pochi minuti.

Dopo l’esperienza maturata in varie band (con i The Reatards a soli 15 anni e Lost Sounds le più importanti) il suo brevissimo percorso solista lo porta a comporre tre album, tre punte di diamante di tutta la produzione pop rock contemporanea.

Blood Visions” (2006) pubblicato dalla In The Red è il suo primo approccio solista e quindi anche il più immaturo dei suoi album. Perché allora stimolarvi con un’opera imperfetta e molto ingenua? Perché dietro le poche pretese di questo ragazzo di Memphis c’è una voglia di fare rock che riempie il cuore (come le orecchie).

Va detto che dei 15 pezzi che compongono “Blood Visions” solamente 7 sono davvero memorabili, ma è roba di primissima qualità, riff a raffica dannatamente new wave, cambi di ritmo deliziosi, melodie cristalline e tanti cojones (caratteristica che manca a band tanto amate come Kasabian, Arctic Monkeys, Franz Ferdinand e via dicendo).  

Come non ci si può innamorare di Greed, Money Useless Children con la sua sfacciataggine da quattro soldi? I riff veloci e assassini di Blood Visions sono da antologia, come anche il garage pop di It’s So Easy, quel gioiello new wave di My Family che da solo vale l’acquisto, sono davvero troppi i punti a favore di questo album. 

La carica malinconica si esprime in un punk violento e introspettivo, My Shadow, che poi altro non è che il punto più alto di questo poeta dei poveri, senza pretese, senza presunzione, senza speranza. 

  • Lo Consiglio: a tutti.
  • Lo Sconsiglio: se in questo periodo sei alla ricerca di qualcosa di più interessante e comunque meno banale di un Ty Segall meglio se lasci Reatard momentaneamente sullo scaffale.

Pere Ubu – Dub Housing

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Quando nel 1896 Alfred Jarry si presentò al Théâtre de l’Œuvre di Parigi sapeva bene quali sarebbero state le reazioni al suo Ubu Roi. Sdegno, orrore, disgusto e scandalo, non necessariamente in quest’ordine. A Jarry non interessava rivoluzionare il teatro a questo ci pensavano gli altri. A Parigi era già passato Ludwig Chronegk con la sua compagnia di Sax Meiningen e soli nove anni prima della pièce di Jarry tra i punti di riferimento rivoluzionari per il teatro c’era il Théâtre Libre di André Antoine.

Chronegk e Antoine sono due seri e colti protagonisti del nuovo teatro naturalista (più il secondo in realtà) nato sotto l’egida di Émile Zola, la grande rivalsa intellettuale della borghesia, l’inizio di un nuovo modo di vedere la realtà, e di tutto ciò a Jarry non poteva fregare di meno.

Quando nel 1975 i Pere Ubu nascono dalle ceneri dei Rocket From The Tombs siamo negli anni d’oro della disco music. Mamma Mia, singolo del terzo album degli ABBA, spopola in tutto il globo, gli Earth, Wind & Fire si auto-celebrano con una live che prende il nome di un loro successo “Gratitude”, tra i dischi più ballati in discoteca c’è il secondo album dei K.C. and The Sunshine Band. Il rock dichiaratamente estetico trova la sua definitiva consacrazione in “Alive!” dei Kiss, ma dove sono i veri rockettari?

Era l’anno delle seghe mentali, dal kraut-rock dei Neu! all’ambient di Brain Eno, fino allo sconvolgente e improbabile “Metal Machine Music” di Lou Reed, in classifica compariva soltanto il soft rock dei Pink Floyd, mentre gli Henry Cow pubblicavano il loro capolavoro. La rivoluzione ambient era agli albori, gli altri miti erano Queen, Journey e Springsteen, e di tutto ciò ai Pere Ubu non poteva fregare di meno.

Ciò che lega Jarry ai Pere Ubu non è solamente il nome del protagonista dell’Ubu Roi (Père Ubu, ovvero Padre Ubu) , ma è uno stile di vita e una genialità fuori dagli schemi usuali. Chi dice che la grande Arte è tale perché universalmente comprensibile oltre a dire una scemenza non può assolutamente capire queste due entità che proprio dell’incomprensione e della incomunicabilità fecero un’Arte tra le più universali di tutte.

Recensire i Pere Ubu è un compito difficile perché il contesto socio-culturale che gli appartiene si ingrandisce di anno in anno in maniera indiretta, ovvero tramite una progressiva oggettivazione della storia della musica. In pratica più il tempo passa e più le tematiche legate agli album dei Pere Ubu diventano chiare e fungono da imprescindibile chiave di lettura per gli anni ’70.

Quando si parla di questa band, almeno per quel che concerne i primi album, è quanto mai limitativo parlare semplicemente di rock. La new wave (il movimento a cui generalmente vengono legati i Pere Ubu) ha le sue fondamenta in “Marquee Moon” dei Television e “Blank Generation” di Richard Hell & The Voidois, ma quanto di quelle fondamenta è presente nei Pere Ubu? Assolutamente tutto, ma immerso e diluito in tanto altro.

Il problema che di solito si incontra nel parlare di questa band è nel descrivere la loro musica a parole senza risultare dannatamente criptici. Chiaramente col primo paragrafo di questa recensione mi sono giocato il 99% dei visitatori casuali o di chi voleva semplicemente “quella cazzo di recensione!” ma mi sta bene, perché dell’Arte o se ne parla in maniera esauriente o è meglio stare zitti.

Di cosa parlano i Pere Ubu?
Prima di tutto dobbiamo capire che più che raccontare qualcosa i Pere Ubu esprimono qualcosa. Quello che ne esce fuori è la vera blank generation, quella che Richard Hell ci svela con una formula semplicemente punk i Pere Ubu riescono a farcela vivere con espedienti che si avvalgono di una esecuzione “teatrale” del loro essere punk, uno spettacolo uditivo non dissimile da una pièce teatrale radiofonica.

Quando un critico etichetta una band art-rock, art-punk o cose così, di solito sta a significare che non c’ha capito un cazzo di quello che ha ascoltato, ma gli è piaciuto. In questo caso art-punk è una denominazione perfetta, se non l’unica, che possiamo affibbiare a questa band.

I suoni industriali e post-apocalittici che pervadono i primi album dei Pere Ubu sono pennellate che colgono gli aspetti più introversi del nichilismo giovanile a metà degli anni ’70; se il punk è un’arte naturalista che punta a rappresentare in modo scientifico l’età industriale (vedi il sound sporco della Detroit di MC5 e Stooges) e il disagio adolescenziale (Sex Pistols, Clash, Richard Hell, etc.) quello che fanno i Pere Ubu è descrivere l’universale partendo dalle piccole impressioni vicine al particolare.

Non vorrei che qualcuno leggendo pensasse che uso dei giri di parole solo per masturbarmi mentre mi rileggo, per evitarlo sintetizzo quanto detto affermando che i Pere Ubu sono difficili da approcciare perché il loro sound è piuttosto peculiare e unico, ma essendo l’eccezione ad un panorama musicale già delineato sono anche quelli che propongono un nuovo punto di vista grazie al quale possiamo comprendere fino in fondo il quadro generale.
Questa aura ermetica che avvolge i Pere Ubu è la stessa che immergeva Jarry e la sua Patafisica, una corrente di pensiero che non a caso sarà molto cara alla band.

I rumori fastidiosi, i suoni acidi e il nervosismo che pervade le prime opere della band americana altro non sono che la trascrizione in partitura delle paranoie mentali che ben si sposano delle volte con un certo senso di inconcludenza.
Si può tranquillamente affermare che i più onesti cantori dell’era moderna sono proprio i Pere Ubu.

Ma ora è meglio se passiamo alla recensione vera e propria.

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Recensisco “Dub Housing” (1978) non perché sia il miglior disco dei Pere Ubu (anche i sassi sanno che il loro primo album, “The Modern Dance”, è inarrivabile) ma perché è l’album a cui sono più affezionato.
Sì, sono un cazzone, portate pazienza.

Quella che considero la migliore e sintetica descrizione di questo capolavoro assoluto del rock è la seguente:

Lo stile straordinariamente vivo di colore e di metafora, inzeppato di allusioni e trasposizioni culturalistiche, impastato di terminologie classiche o rare, come di parole di un gergo […] provinciale, per quanto di una costante acutezza e finezza, rivela, a contrasto, una sorta di voluta atonalità, come di un discorso costantemente tenuto sulla corda più tesa, prossima a spezzarsi.

Queste parole non sono di un esperto musicologo o di un critico di Blow Up, le ho tratte da una straordinaria introduzione scritta da Sergio Solmi (notevole poeta e grandissimo saggista particolarmente legato a Leopardi) al testo teatrale dell’Ubu Roi di Jarry. Mentre leggevo in treno questo passaggio non mi sovvenne nulla, ma ascoltando quello stesso giorno “Dub Housing” mi resi conto che l’humus non era poi così diverso da quello dei pazzi testi recitati da David Thomas, dalle finezze di Tony Maimone al basso, dallo spezzettato e nervoso lavoro al synth di Allen Ravenstine (il vero protagonista di questo secondo album dei Pere Ubu).

Si comincia con Navvy, forte del ritmo serrato della batteria di Scott Krauss mentre Dave Thomas interpreta un ragazzo che ciondola scomposto e che di tanto in tanto urla un “libertà!”, i nervosi interventi di Ravenstine sono semplicemente geniali, il pezzo in sé è un classico imprescindibile.

Dal dialogo tra il basso di Maimone e un giro di synth pregiatissimo veniamo introdotti in On The Surface, quasi un pezzo surf rock ma pregno della nevrosi che caratterizza l’album, il filo teso sempre in procinto di spezzarsi tra festosità e nevrosi totale è un must ricorrente nel sound di molti dei primi pezzi dei Pere Ubu.

Dub Housing esprime e racconta i suoni e le sensazioni della band durante la registrazione di questo album in questa abitazione residenziale nella quale vivevano. Se vogliamo potremmo un sintetico manifesto di questo secondo disco.

Caligari’s Mirror fa della dicotomia tra festosità e nevrosi il suo sound. Il testo tra il parodico e il grottesco fa riferimento ad un certo specchio di Caligari, probabilmente si tratta di un gioco, più precisamente di una deformazione, quella da Calibano a Caligari (uniti entrambi da diverse accezioni di grottesco), in questo modo la band citerebbe lo specchio in cui Calibano non accetta la sua natura mostruosa ne La Tempesta di Shakespeare* e avrebbe anche maggior senso contestualizzato col resto del testo (la deformazione di citazioni shakespeariane è il fulcro di gran parte dell’opera di Jarry).

Thriller! è una gemma di angoscianti impressioni sonore da vero film di serie B dell’horror, un momento anarchico che sembra uscire da alcuni dei passaggi più angosciosi di Sysyphus di Richard Wright (lo so, è quantomeno azzardato in termini strettamente musicali come paragone) ma se Wright in “Ummagumma” sperimenta seguendo fedelmente le orme del maestro John Cage, i Pere Ubu invece disegnano un quadro paranoico fatto di suoni legati alla modernità alquanto “avanguardistico”, l’angoscia è voluta e ricercata con accuratezza.

Il lato B si apre con le visioni nonsense di Thomas seguite da un rock de-strutturato alla Captain Beefheart, la sinergia tra i membri della band in questa I, Will Wait è davvero spettacolare.

Su questo tenore anche la successiva Drinking Wine Spodyody, un’orgia sconclusionata magistralmente eseguita.

(Pa) Ubu Dance Party ancora una volta è in equilibrio tra un vero e proprio party e un sound più “industriale”, è anzi il pezzo che sviluppa maggiormente questo dialogo con un riff surf-rock e una coda che è un crescendo nevrotico disarmonico.

Blow Daddy-o è un breve divertissement con il synth che si ripete come in un loop accompagnato da brevi e veloci fraseggi degli altri strumenti. Non c’è un vero inizio né una vera fine. Nel titolo “daddy-o” si riferisce ad uno slang che purtroppo si può ricondurre a molte cose, in questo caso credo sia al dispregiativo che si affibbia a chi è più vecchio di te ed è anche un po’ rompicazzo.

Le prime note di Codex ci trasportano in uno scenario post-apocalittico, Thomas esprime in modo sublime lo scorrere lento e inesorabile del tempo nella mente:
I think about you all the time
step after step
block after block
laconico ma esaustivo. Le ultime note in coda suonano come mai definitive, l’unico modo con cui poteva concludersi ”Dub Housing”.

Questa recensione è stata per me necessaria, ovviamente non esaurisce in alcun modo la questione Pere Ubu, e forse non avvicinerà nessuno a questo splendido album. Questo perché è davvero lunga, pesante e a tratti semplicemente scritta da cani, ma non mi sarei sforzato tanto se non ne valeva pena.

“Dub Housing” è uno dei capolavori del rock, della musica e non mi sento un’idiota ad asserire che lo è anche dell’Arte in generale.

  • Voto: 8,5/10

UN CONSIGLIO:
in Italia è stata prodotta probabilmente la miglior versione in vinile di questo disco. È della Get Back, sfortunata etichetta toscana legata principalmente al garage rock, la quale ha avuto la straordinaria possibilità di incidere dai nastri originali dei Pere Ubu. Con questa edizione possiamo assaporare il fantastico lavoro ingegneristico che Ken Hamann fece per rendere giustizia alla complessità sonora della band. Se la trovate acquistatela senza esitazioni. Ah, tranquilli, non sono ammanicato, quando la Get Back ha chiuso i battenti non avevo neanche diciotto anni.

[i Pro e i Contro non sono presenti alla fine di questa recensione perché credo di essere stato esauriente, quindi sì: pecco di presunzione e non è una novità]

*lo specchio di cui parlo non è nel testo originale, ma è una figura ormai legata al Calibano shakespeariano. L’iconografia di questo celebre specchio è stata introdotta nell’edizione del 1891 del romanzo Il Ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde. Entrata nell’immaginario collettivo (per ben ovvi motivi) la figura di Calibano e il suo specchio sono quasi inseparabili.

Black Mountain – Black Mountain

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I Black Mountain sono una band relativamente giovane conosciuta più dai critici rock che tra gli appassionati di rock, il che è un po’ quello che accadde per esempio ai Rare Bird di cui avevo parlato l’ultima volta.

Al contrario dei Bird i Black Mountain non sono certo avanti coi tempi, anzi, sono un po’ indietro.

La smodata passione di Stephen McBean per i ’70 e i ’60 non è certo un mistero, già nel suo primo ensemble, i Pink Mountaintops, progetto parallelo ai Black Mountain, McBean e compagnia bella si sdavano sul rock psichedelico, con un’anima però un po’ pesantuccia.

McBean fuori dai Black Mountain sembra Syd Barrett imbottito di valium, una noia tremenda. Dicono che per chi ama la musica psichedelica dischi come “Outside Love“, del 2009, sia un gran bel disco. Beh, a me piace la psichedelia, eppure “Outside Of Love” mi fa sinceramente schifo. Noioso oltremodo, ripetitivo, i testi che dovrebbero essere strappalacrime invece si rivelano banali e melensi. Sarà una questione di sensibilità, non lo metto in dubbio, ma a tatto i Pink Mountaintops mi fanno venire prurito alle parti basse.

Tutt’altra storia i Black Mountain che nel 2005 si presentarono con il miglior disco mai prodotto dalla Jagjaguwar. Ovviamente omonimo il primo album dei Black Mountain sembra a tutti un ottimo tributo ai Black Sabbath, ma niente di più, ma per me non è così semplice.

Dopo il successo McBean continua a scrivere canzoncine per la nonna con i Pink, ma nel 2008 stupisce ancora con “In The Future“, secondo disco dei Black Mountain, con una quantità incredibile di pura genialità, banalità, prog-rock, noise e ballate degne, al massimo, di Lenny Kravitz. Ce n’è per tutti i gusti!

“In The Future” è davvero una piccola perla nel 2008, un disco incompreso ancora una volta dal pubblico ma non dalla critica. È difficile nel 2000 poter ascoltare riff potenti e fughe psichedeliche come in Tyrants, e nello stesso album potersi fare un viaggio con Queens Will Play e la folle Bright Lights, oppure infilarsi nel trascinante rock tribale di Evil Ways. Tutti i lavori di questa band sono seguiti spesso da innumerevoli tracce che non rientrano nel cd, ma che sono tutt’altro che riempitivi, piuttosto spingono ancora più in là le idee della band, come in Black Cats, dove il sound è molto moderno, con una strizzatina a tratti alla new wave.

Trovo che nella gioiosa ecletticità dei Black Mountain ci sia tanta ingenuità, ma anche tanta sincerità. La band sperimenta i suoi limiti, niente di nuovo o di rivoluzionario, ma non c’è la pretesa di esserlo. Questa umiltà traspare decisamente nei primi due lavori dei Mountain.

Per i primi due dischi si parla fin troppo spesso di Led Zeppelin, quando in realtà degli Zep c’è solo qualche rimando, certamente McBean tende di più verso i primi monolitici Black Sabbath, i Blue Öyster Club e i Blue Cheer, ma anche i Dead Meadow senza contare gli Hawkwind, questi ultimi molto rivalutati in tempi recenti anche dal garage rock (vedi il californiano Ty Segall).

Non disdegnano ogni tanto qualche rimando jazz e al pop raffinato (Angels) ma continuo a premere sulla sincerità, che poi non è che sia un merito soltanto della musica, diciamo, fuori dal mainstream, perché anche giovanotti di belle speranze come Mitch Laddie fa revival (blues) ma meccanicamente, senza l’energia di gente come McBean, che pure nei soporiferi Pink Mountaintops ci mette l’anima, e si sente.

Inoltre anche se spesso ci vanno giù di wall of sound non essendo fanatici del low-fi a tutti i costi, tipo i Purling Hiss, il loro suono è sempre pulitissimo e molto calibrato. Nessun eccesso, nessuna nota storta, c’è un grande controllo, forse anche troppo. In effetti una caratteristica fondamentale del loro sound nei primi due album è un po’ questo eccessivo controllo, che alla lunga estranea, crea come una sorta di vuoto mentale nell’ascoltatore, si percepisce spesso nelle tracce dei Black Mountain un malessere esistenziale affascinante. La ripresa di Tyrants, la terribile ripetitività del riff in Don’t Run Our Hearts Around distruggono lo spazio e il tempo, inconsciamente ci finisci dentro, assieme a loro. Guardate che c’è una grande consapevolezza nella psichedelia dei BL, il che mi sembra sia stato poco sottolineato anche dai critici più entusiasti, i quali si sono decisamente soffermati sui ricordi rock che i riff rimandano, senza invece prendere in considerazione le qualità intrinseche alla band.

L’ultima fatica in studio dei Black Mountain è il mediocre “Wilderness Heart” (2010), più in linea con le altre band prodotte dalla Jagjaguwar, roba perlopiù pseudo-intellettuale o triste-intimistica, o semplici scempiaggini come i Foxygen, gruppo californiano di grande successo ma senza un bel niente da dire.

Ma andiamo a conoscere meglio l’album d’esordio dei Black Mountain.

Black Mountain 2005

Modern Music è un inizio sconcertante. Avevo detto Black Sabbath e Hawkwind, ed invece eccoci a partire con un pezzo pieno di ecletticità e allegria, e un istrionico McBean che ripete: we can’t stand your modern music, we feel afflicted! e a chi si riferisce? Probabilmente a tutto il movimento della new wave più afflitta, all’indie più autolesionista, al brit pop senz’anima, o più in generale a tutta quella musica moderna senza passione, meccanica, vuota. Ok, ci dicono, ci rifacciamo al passato, ma solo alla sua musica.

Netto lo stacco con Don’t Run Our Hearts Around, un riff potente ma imperniato di psichedelia pura, il pezzo è un susseguirsi di variazioni imprevedibili ma mai eclatanti (mi piace un casino).

Ennesimo salto con Druganaut, si può parlare di prog, ma sempre senza orpelli inutili, duetti di ottima fattura tra McBean e Amber Webber, psichedelia e chitarra elettrica che passa dall’essere protagonista di sostanziosi riff all’essere totalmente disassemblata in suoni distorti ma sempre espressivi.

In No Satisfaction la band si lancia in un folk leggero. Mi piace il ruolo del testo, la ripetizione ritmica di: ‘cause everybody like to claim things, everybody shame things and everybody likes to clang bells around è un po’ più sofisticata di come si presenta. McBean ragiona su alcuni luoghi comuni del loro far musica, del revival, sul modo di vivere questa esperienza, cantando we can’t get no satisfaction per me rivela una sorta di “costrizione”, un modo di apparire che però non si confà con la realtà che si cela dietro, la mancanza di un reale sentimento di appartenenza verso la comunità, esplicata bene nel pezzo successivo (inoltre si citano i Velvet di Lou Reed, avete presente I’m Waiting for the Man?).

Set Use Free è un pezzo semplice ma costruito con grande maestria, terribilmente malinconico ed estraniante. Rimandi a Killer dei Van Der Graaf Generator sono da vedersi nel testo, questo sentirsi killer, assassini delle emozioni che ci circondano, il tema della liberazione dalle macchine (=società) per tornare ad essere davvero, a poter amare, a poter essere liberi è di una banalità sconcertante, ma ben esplicato.

Invece No Hits rivela una propensione all’elettronica (moooolto velata) che si ripresenterà in vari aspetti in tutti gli album dei Black Mountain, ma ad oggi non ha trovato ancora un sviluppo interessante. Molto prog, ma senza una direzione precisa.

Heart Of Snow si presenta con un prog classico, ma il sound della band riesce a far riscoprire il gusto di ascoltarsi anche la più banale struttura prog pensabile. Un pezzo molto delicato e tragico.

Devo dire che dal 2005 ad oggi ancora non sono riuscito a trovare niente di interessante nell’ultima traccia dell’album, Faulty Times, buttata lì così, un pezzo alquanto insipido e senza il piglio dei Mountain, più scolastico diciamo.

Credo sia un disco che merita, come anche il secondo, “In The Future”, forse nel 2005 avevate altro da fare mentre la critica adorava questo album d’esordio, ora però non avete troppe scuse per non ascoltarlo.

  • Pro: non è semplice revival, la band non ha enormi qualità, e probabilmente non ha già più niente da dire dopo soli due album, ma c’è molta passione e tanta sincerità, che al giorno d’oggi è merce rara.
  • Contro: se non vi piace lo stoner rock non è esattamente un disco che vi consiglierei. Riffoni che si perdono in ripetitivi momenti psichedelici, voci suadenti e mai un momento di vera rabbia rock, praticamente una palla.
  • Pezzo Consigliato: è difficile perché alcuni pezzi sono molto slegati tra di loro, comunque credo che Druganaut sintetizzi efficacemente il sound e le idee dei Black Mountain.
  • Voto: 6,5/10