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Kurt Cobain, The Man Who Sold Himself

Articolo di : bfmealli

1992 MTV Video Music Awards

La morte di Kurt Cobain resta, tutt’ora, avvolta nel mistero: omicidio o suicidio? L’hanno ucciso o si è tolto la vita da solo? Dato che per indole non sono un complottista io protendo per la seconda ipotesi. Questa scheda, infatti, ha il timido ardire di spiegare i prodromi dei motivi del gesto estremo del musicista di Aberdeen.

Non credo che ci sia bisogno di dover spiegare, a coloro che si sono presi la pensa di leggere, chi sia stato Kurt Cobain; i Nirvana sono state una delle poche band sulle quali l’onta del tempo sembra non averne attaccato lo spirito. Ancora oggi, non a caso, a più di venticinque anni di distanza dal loro primo album, i ragazzi si avvicinano a questa band con reverenziale curiosità grazie anche ad una produzione fresca, a delle melodie distorte ma efficaci ma, soprattutto, per via della messa in scena di un criptico disagio esistenziale che ancora riesce a penetrare nei cuori dei molti spiriti adolescenziali che li ascoltano per la prima volta.

Sono piuttosto certo che Kurt Cobain non avesse previsto il successo planetario che sconvolse il mondo e la sua labile personalità. Non a caso il giovane chitarrista, dopo il boom di Nevermind, decise di pubblicare prima una raccolta di B-Sides e, dopo, il loro terzo ed ultimo album di studio con la produzione di Steve Albini, guru della scena Indie-Rock anni ’80 americana, come se Cobain, tramite il nuovo produttore, cercasse di rifarsi una verginità musicale nei confronti del suo pubblico e, ancor di più, verso sé stesso. Il successo insomma non gli diede alla testa quanto lo spaventò e lo rese più preoccupato del solito: che la sua si fosse trasformata in una di quelle band che riempiono gli stadi e sono circondati da uomini della security in ogni angolo del palco? Che si fosse trasformato, lui stesso, in una macchina da soldi per quei ricchi discografici che hanno rovinato il rock? Che, tirando le somme, si fosse venduto?

Tutte queste domande, questi dubbi, sono certo, Cobain se li pose e, fino ad un certo punto, non riuscì a trovare risposta. Il giorno in cui quella maledetta risposta arrivò fu lo stesso giorno, io credo, in cui prese in lui la forma dell’idea di un suicidio (le mie sono mere illazioni, non hanno la presunzione di essere veritiere). Fu quando la sua band, fresca del successo di Nevermind, si trovò di fronte il pubblico degli MTV Video Music Awards del 1992, lo stesso pubblico che Kurt biasimava e, in un certo qual modo, disprezzava; sue le parole: “La mia musica non appartiene a quei giovani che pascolano al McDonald’s e stanno piantati davanti ad MTV tutto il santo giorno”. Ma il monkey business, si sa, è fatto di compromessi, ed i compromessi tendono sempre, inevitabilmente, verso il basso. Questa apparizione gli costava giusto il tempo di una canzone, una qualsiasi del repertorio dei Nirvana basta che, si raccomandarono i capi della rete, non suonassero Rape Me (Stuprami), brano che poi finì in In Utero, ché, con quel titolo, stonava di molto con l’amenità dell’evento.

Kurt Cobain tace ma acconsente di non suonare quel pezzo mentre dentro di sé pensa: “Rape Me sarà la canzone che verrà ascoltata da milioni di vuoti adolescenti, pecore insulse della MTV Generation… gli farò sentire io, a loro, ai capoccia della rete, quello che vuol dire essere una fottuta rock band!” Immagino si sia detto questo mentre lentamente guadagnava il palco per suonare e per suonargliele a tutti. Pensò a Jim Morrison, all’Ed Sullivan Show, durante l’esecuzione di Light My Fire, che urlava reiteratamente la parola High, lemma che il signor Sullivan gli aveva precedentemente intimato di non usare se i Doors avessero voluto tornare, in futuro, a suonare ancora nel suo programma. Ma Morrison, però, figura istintiva e ribelle, preferì fare un torto alla possibilità di una maggiore visibilità che tradire la propria indole censurandosi: urlò con ferocia quella parola al pubblico borghese del Sullivan Show. Questo Kurt aveva in testa mentre calcava il palco, immenso, luminoso ed incandescente, degli MTV Video Music Awards. Il boato del pubblico lo fece sentire piccolo e meschino, imbracciando la sua chitarra vacillò: “I miei musicisti seguiranno qualsiasi riff io inizi a suonare… quindi: cosa faccio?” La parte più materiale di Cobain si manifestò a lui nella sua intera bruttezza; restò un solo spiraglio di quegli ideali che aveva sempre perseguito con la sua attitudine di perdente che, purtroppo, si eclissarono con l’effimero accenno del riff di Rape Me, solo quello, il giro di accordi che introduce la canzone e poi basta, passò a suonare Lithium. Ecco, aveva perso, sconfitto dalla sua stessa vanagloriosa umanità, aveva appena venduto la sua purezza di outsider per entrare nell’ipocrita élite della gente bella, sorridente ed abbronzata di MTV. Adesso Jim Morrison gli sembrava così lontano, anni luce, manco fosse di un altro pianeta. Mentre suonava Lithium, Kurt Cobain, si rese conto che stava diventando gradualmente il tipo di persona che aveva sempre disprezzato, il cancro del successo era andato in metastasi dentro di lui poiché quel gesto eclatante, accennare soltanto il riff della canzone proibita, gli aveva finalmente aperto gli occhi: sì, proprio così, si rese conto di essersi venduto!

Questo era il suo primo passo verso il bolso invecchiamento in mezzo ai milioni di dollari, ai milioni di fans, alle mega ville, lontanissimo dal mondo comune, senza più un’anima, quella, scambiata per una manciata di dischi di platino. Mi piace pensare che Kurt Cobain si sia ucciso perché conscio di non essere capace di riuscire a sconfiggere quella parte di sé avida di applausi e riflettori; mi piace credere che il suo non sia stato un gesto folle e sconsiderato quanto un estrema presa di coscienza nei confronti di quella persona che era sempre stato fino a quando il cancro della celebrità non gli ebbe divorato la sua grande, pura, integrità morale. Se ne andò così, il 5 Aprile del 1994, con una vampata, l’ultimo barlume di lucidità, per non arrugginirsi lentamente tra gli ingranaggi della macchina del successo.

Se vuoi leggere altri deliri del buon vecchio bfmealli non hai che da cliccare qui: L’algebra del bisogno.

Nirvana – Nevermind

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Perché i Nirvana ebbero tanto successo?

Da una parte ci sono i fan, i quali semplicemente ti rimandano ad ascoltarti i loro album, dall’altra i detrattori, che li trovano una band normale (se non indecente) che ha semplicemente solcato l’onda di una moda.

C’è bisogno di fare ordine.

Partiamo da lontano, ovvero dall’hardcore. Intorno alla fine degli anni ’70 il punk inglese libera in America un’idea di rock in realtà sopita da qualche anno, ovvero quel proto-punk primordiale che aveva le sue origini nei The Stooges e sopratutto nei MC5. Perché prendo proprio la band di “Kick out the jams” in maggior considerazione? Semplicemente perché era una band fortemente politicizzata, proprio come il movimento hardcore.

Ma se gli MC5 appartenevano ad un partito vero e proprio (il White Panther, estrema sinistra) invece l’hardcore non si tende a relegarlo ad un partito vero e proprio, ma piuttosto come un movimento di protesta verso una singola persona: Ronald Reagan.

Reagan cominciò la sua avventura politica nelle file del partito Democratico, ma spaventato dal crescente pericolo del comunismo passò ai repubblicani (è importante tenere conto di questa paura che perseguiterà Reagan e ne influenzerà enormemente la politica una volta Presidente).

Non è infatti un caso se dopo aver perso contro Ford (come candidato per i repubblicani, ovviamente) nel 1976 imbastirà un famoso discorso in cui getterà il seme della sua futura campagna elettorale basata sulla paura del “pericolo rosso”.

Nel 1981 diventa Presidente, nel suo celebre discorso d’insediamento, dopo aver accennato alla crisi economica che ciclicamente attanaglia gli U.S.A., proferirà la famosa frase: “In this present crisis, government is not the solution to our problem, government is the problem.” Grillo ne sarebbe fiero.

Detto ciò nel 1981 band come T.S.O.L., Black Flag (ora con Rollins alla voce), Flipper, D.O.A. e Bad Brains trovarono modo di esplodere definitivamente, generando l’hardcore americano.

La forza di questo movimento è l’odio contro Reagan e la sua politica di austerità, presto migliaia di band si uniranno e le varie fazioni dei diversi stati cominceranno a girare per tutto il paese.

L’energia sprigionata in quegli anni fu devastante, le due band di spicco erano i Black Flag, con il loro hardcore velocissimo e potentissimo nelle live, e i Bad Brains, i quali, al contrario delle altre band, sapevano suonare.

Ci sarebbero fin troppe formazioni da citare, ma non perdiamo la bussola. Questo hardcore però finisce presto, finisce con la rielezione di Reagan nel ’85, che sancisce la fine di un sogno e la speranza che l’hardcore potesse in qualche modo cambiare le cose.

Per fortuna i semi gettati da queste band fioriranno presto.

I Bad Brains, trasformatosi in una band di reggae (è così) lasciano il timone ai Beastie Boys (che prima spaccavano i culi), arrivano i virtuosi Minutemen, i Hüsker Dü e i Meat Puppets, tutte band che influenzeranno non poco i Nirvana.

Quando nel 1987 i Nirvana compiono i primi passi vengono subito presi in simpatia.

La loro tendenza segue il punk-rock con incursioni di hard-rock, tipiche di quegli anni orfani della prima ondata di hardcore.

Le loro performance nei locali di Aberdeen (assieme ai Melvins) non saranno esaltanti per la band, la quale si unirà ben presto alla scena emergente di Seattle. Se l’hardcore nasce in tante città americane, e solo dopo la prima ondata arriverà anche a New York (le leggende narrano dopo uno storico concerto dei Bad Brains), a Seattle invece si riunisce una forte tendenza hard-rock, la quale rallenta tantissimo i ritmi forsennati dei Black Flag portandoli a quelli pesanti e mastodontici dei Black Sabbath.

Non ne farà di certo un segreto Cobain, i Nirvana prendevano dai Knack come dai Black Flag, dai dimenticati Bay City Rollers ai Black Sabbath.

La band avrà un successo enorme a Seattle, mostrandosi una delle più amate nel circolo underground emergente.

Quando nel 1989 pubblicano “Bleach” le trentamila copie vendute non sembrano così poche. Anzi. Per una band di una scena emergente e così fuori dal mainstream era un ottimo risultato. Non saranno virtuosi come gli Hüsker Dü, né violenti come i Melvins di “Ozma” (in “Bleach” alla batteria per soli tre pezzi parteciperà proprio Dal Crover, il batterista che sostituirà Dillard nei Melvins), ma “Bleach” è un album pesante e piuttosto hard, con tematiche che colpiscono fortemente l’immaginario collettivo americano di quegli anni.

Di certo non sono i testi il valore in più dei Nirvana, nulla di che come liriche (non che nel rock in generale ci siano chissà che cime) ma la voce di Cobain farà diventare ogni pezzo dei Nirvana un vero e proprio inno generazionale.

Sempre sull’orlo di spezzarsi la voce di Cobain è tra le più espressive di tutta la storia del rock, segno anche di una personalità fragile ma all’epoca ben lontana dalle terribili pressioni emotive che la condurranno ad una fine tragica.

Ma l’impensabile arriva con “Nevermind”.

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La premessa storica è necessaria per capire come “Nevermind” fosse un album incredibilmente al di fuori dell’idea di rock che i media propinavano (e propinano) alle persone, frutto proprio di quella rabbia e di di quella frustrazione che ha le sue radici nell’hardcore.

È un album scomodo “Nevermind”, un album che svetta al primo posto aprendo le porte a tantissime altre band (primi fra tutti Alice in Chains, Soundgarden e Pearl Jam) e dando voce all’underground (Melvins e Meat Puppets tra tutti).

Il messaggio di “Nevermind” era destabilizzante, un attacco diretto all’establishment dal suo interno, proprio come disse “King” degli Urge Overkill:

[…]anche se in maniera indiretta, “Nevermind” manda affanculo il governo, lo status quo e gli imbecilli. E si può estendere tutta la loro filosofia all’anti-razzismo, l’anti-fascismo e l’anti-censura.

Tanti gli atti della band che sovvertivano lo status quo delle majors, a partire dal celebre video di Smell Like Teen Spirit, in cui la band decise di suonare davvero scatenando il putiferio negli spalti (il tutto assolutamente in disaccordo con il regista, il quale però riprese comunque anche dopo che la situazione andò fuori dal suo controllo).

Oppure la loro esibizione a Top of the Pops, in cui sempre contro le regole chiesero che la voce non fosse in playback, e imbastirono uno show demenziale che mandò su tutte le furie i direttori dello show.

I Nirvana non potevano essere corrotti perché autentici, non erano una band costruita a tavolino per essere fotogenica e piacevole, tutt’altro.

Cobain fu dapprima il più entusiasta del successo, ma mano a mano che esso cresceva sempre di più in lui crescevano anche i problemi. La droga sarà certamente il fattore scatenante che portò ad una spirale decisamente discendente il giovane rocker.

Il grande successo della band, planetario dopo “Nevermind”, è l’apice di un lungo percorso che vide nei Nirvana una band portatrice di un forte messaggio politico e sociale, figlio dell’hardcore e del suo successivo fallimento. È la storia di ben due decenni d’America condensati in una band, non è un caso se la parola “empatia” sarà usata molto spesso per spiegare lo stato d’attrazione dei fan alla figura di Cobain.

Non ci deve stupire quindi che l’ultima lettera che Cobain scrisse, pochi istanti prima del suicidio, fosse rivolta prima di tutto ai suoi fan.

Se band che hanno sfornato album che sono la Storia del rock, come “Double Nickels on the Dime” dei Minutemen, “Meat Puppets II” dei Meat Puppets o “Zen Arcade” dei Hüsker Dü oggi sono oscurate dalle chitarre distorte di Cobain, dai ritmi e dalle melodie tutt’altro che rivoluzionarie dei Nirvana, è dovuto alla forte autenticità che si cela dietro il messaggio e la storia (ben più profonda) che questa band rappresenta.

Sì, lo so che non ho recensito “Nevermind”, sono un coglione.

  • Pro: un album storico, la voce di almeno due generazioni.
  • Contro: se preferite “Double Nickels on the Dime” al fottuto grunge si ‘sta ceppa non posso di certo dissentire. Anzi.
  • Pezzo consigliato: Polly è struggente e decisamente rappresentativa dell’angoscia e delle ripercussioni emotive della fine prematura dell’hardcore.
  • Voto: 6,5/10