Etichetta: Night School
Paese: Scozia (UK)
Anno: 2012
Archivi tag: noise
Honningbarna – Animorphs
Etichetta: Nye Blanke
Paese: Norvegia
Pubblicazione: 2022
Jad Fair & Daniel Johnston – It’s Spooky
Etichetta: 50 Skidillion Watts Records Paese: USA Pubblicazione: 1989
Sometimes when I’m watching television
and I’d think the most of the people in the movie
are probably dead
and it’s spooky
Premessa necessaria: a me Daniel Johnston mi fa cagare dalle orecchie e mi stimola la diuresi più che parlare con i passerotti. Johnston è diventato un culto solo perché riflette tutto quello che di imbarazzante c’è in noi, e in più un tale Kurt Cobain voleva fare l’alternativo davanti alla TV (che poi va anche bene, quel poco di notorietà che hanno da noi i Meat Puppets la devono esclusivamente ai Nirvana). Però. Ci sono sempre delle eccezioni. Sempre. E sono messe lì per farti ricredere su ogni decisione che hai preso negli ultimi 28 anni: è questo il lavoro giusto per me? scelsi la giusta università una volta finita la fogna liceale? sarà davvero lei la ragazza che mi scoperò per vendicarmi della mia fidanzata? sarò mai capace di scrivere una recensione decente? No. Avrei decisamente dovuto prendere farmacologia. Però adesso siamo qui. Io e te. Che bella coppia eh? Tu, davanti allo schermo voglioso di leggere una recensione di un disco che, probabilmente, non ti interessa poi così tanto ascoltare, ed io qui, mentre dovrei fare l’inventario come un bravo commesso con un contratto da fame, scrivo di quanto mi stia sulle palle Daniel Johnston. Splendidi.
La malinconia infantile di Johnston però ha indubbiamente un fascino universale. Difficile non sentire qualcosa durante l’ascolto di Pot Head, perché la voce e quella struggente melodia ti colpiscono sulle palle con un gancio destro mentre tu guardavi il sinistro. Detto questo però gran parte dei pezzi di Johnston non vogliono dire un bel niente, se non stronzate random di un tipo che chiaramente ha avuto qualche problema nella “fase anale” della sua crescita.
Ora però parliamo di cose serie: chi sarebbe questo Jad Fair? Se te lo chiedi probabilmente non sai nemmeno chi siano gli Half Japanese, e sarebbe troppo lunga da discuterne qua, magari facciamo la prossima volta, pizzata e birra dove vuoi tu. Ora come ora quello che ti basta sapere è che Jad Fair non è un menomato sessuale come Johnston, ma è uno dei personaggi più difficilmente inquadrabili dell’underground americano. Già attivo nella prima metà degli anni ’70, Fair è un songwriter a dir poco eccezionale, che alterna lavori estremamente toccanti (This Could Be The Night) a follie nonsense (No More Beatle Mania), per poi riempire la sua personale discografia di un sacco di album autoreferenziali che però hanno sempre il gusto acidognolo dell’urgenza emotiva. Capirete il mio sconcerto quando scoprì che Jad Fair, un mio mito personale per quanto riguarda la coerenza artistica dietro ogni suo progetto, anche quello più scabroso e inascoltabile, aveva collaborato più volte con Daniel Johnston alla fine degli anni ’90. Lo capisci, nevvero?
“It’s Spooky” uscito nel 1989 è un album che non ho mai voluto ascoltare, perché non mene fregava un cazzo, semplicemente. Poi un giorno, attanagliato dalla noia e dal mal di vivere, clicco distrattamente su un link di YouTube: Frankenstein Vs The World. Quanto odio le eccezioni.
Questo album è una figata non perché c’è Jad Fair, ma perché c’è Daniel Johnston. Fair ci mette certamente la sua vena freak e irriverente, ma Johnston è la molla emotiva dietro l’album, la sua palese incapacità letta troppo spesso come eccesso di sensibilità, in questo caso lo è sul serio, alla faccia mia e di Kurt Cobain.
La batteria non riesce mai a tenere il tempo, le liriche non seguono neanche le strutture più banali, le voci di Fair e Johnston sono imbarazzanti e le melodie elementari, eppure tutti questi elementi assieme che negli Half Japanese era motivo di goliardia e insolenza, in questo album sono come un gospel liberatorio di tutti i malanni del mondo. C’è una gioia irrequieta, inconsapevole e bizzosa, che si smuove tra le coperte mattutine che ricoprono l’ascoltatore, sembra quasi di ascoltare una musicassetta nascosta sotto montagne di vecchi fumetti. Fair ci mette un metodo, Johnston ci mette tutta l’anima.
Non c’è dunque contrasto, non c’è da una parte un lavoratore onesto dell’underground che impone una sua cifra estetica e dall’altra un coglione, “It’s Spooky” non è una collaborazione, è frutto di una sola testa dalla quale sono cresciute delle sensibilissime antenne che captano i disagi interiori e li esteriorizzano con genuina immediatezza.
Cosa diversifica l’approccio di un gruppo come gli Half Japanese da questo album? O quello di un qualsiasi altro disco di Johnston? Nel primo caso manca la follia programmatica, lo scherzo portato alle estreme conseguenze. Del secondo quel totale spaesamento emotivo e la perdita dei punti fermi che rendono la vita vivibile (ecco, ho appena capito perché Johnston spacca, ‘ste cristo d’eccezioni!). “It’s Spooky” è sì melanconico e irriverente, ma con un solido fondo d’ottimismo e amore che rende l’ascolto molto più spensierato e partecipe. (sì, lo so che è una reiterazione, l’avevo già detto qualche rigo fa, però mi piace parlarti, seguire con avidità il tuo sguardo curioso mentre ti inietto tutte queste stronzate sù per il tuo affascinante cervelletto)
Non vedo l’ora di partire la prossima settimana, staremo tre ore in auto e una di quelle è già prenotata per un lungo e totalizzante ri-ascolto di questo strano e curioso album, che prende vita fin dai primi istanti di silenzio, sgattaiolando tra le nostre corde più fragili senza romperle mai, pizzicandole con gioia e sana malinconia.
Tab_ularasa/ Aaron Rumore – La sfida è farlo male
Doppio turno di lavoro, ho la testa ancora obnulata dall’alcool del giorno prima mentre dimentico il chiavistello dentro il negozio, sono le 19:30 e tra poco più di un’ora sarò a casa. In treno apro il portatile e quasi si staccava lo schermo, attaccato con lo scotch e tante madonne. A voi non frega un cazzo di tutto questo e lo capisco, però il mood di quando sei lì-lì per fruire di qualcosa è importante. Tutte le cazzate sull’oggettività vanno bene quando hai quindici anni e ce l’hai col “sistema”. Il giorno prima Tab_ularasa mi aveva mandato in anteprima il suo nuovo video, e così me lo volevo sparare prima di dedicarmi al mio sport preferito: dormire.
Da quello che ho capito due anni fa, d’estate, Tab e Aaron Rumore (musicista e produttore con la sua Körper/Leib) si sono ritrovati e hanno composto assieme uno split che sta per uscire soltanto adesso (25 Aprile) per la Bubca Records, e già il titolo mi esaltava: “La sfida è farlo male”. La premessa di un approccio picassiano in genere mi stuzzica sempre, ma quella sera, come vi ho detto, non ero proprio nel mood giusto. Clicco sul link e mi sparo il video mentre già penso al morbido contenuto nella fodera del mio cuscino.
Ripresa dall’alto una piccola macchinina verde compare in basso e va verso il centro del pavimento color vinaccia. I primi accordi di La sfida è farlo male mi ricordano Le allettanti promesse di Lucio Battisti, però storto e distorto. Degli strani sbuffetti neri compaiono sullo schermo, a metà tra animazioni e rumore. La macchina intanto si è scontrata con un’altra da Formula 1 gialla, e altre macchine che arrivano da tutti i lati cominciano pian piano ad accumularsi al centro.
Salire su queste scale
ha smesso di far male
Ad un certo punto un bel riffone cattivo alla Alley Cats spezza tutto e comincia il pezzo di Tab. Cosa?! Guardo bene il titolo del video: “Tab_ularasa / Aaron Rumore – La sfida è farlo male / La bugia (Bubca Records 2018)” E no cazzo, ma come? Un video solo per due canzoni? Che nemmeno si splitta, continua uguale a se stesso come se non ci fosse differenza! L’idea che Tab avesse prodotto un solo video per due canzoni diverse mi aveva francamente deluso, mi sembrava come se ci fosse una sorta di gerarchia sballata dove il video soggiogava analmente il contenuto musicale, così chiusi il portatile e non ci pensai più fino al giorno dopo.
Ripresomi definitivamente dal post-sbornia e dal post-lavoro decido di rivedermi il video, e solo quando premo su “play” ricordo cosa mi aveva fatto incazzare, ma decido di continuare. Da bravo stronzo quale sono non m’ero accorto che in realtà il video non si limitava all’accumulo di automobili giocattolo, e all’arrivo del pezzo di Tab, La bugia, la faccenda prendeva una piega particolare.
L’uso dell’analogico per Tab serve per rimandare ad una dimensione ulteriore, che non necessariamente deve coincidere con la nostalgia, ma piuttosto con uno sguardo antropologico sui fenomeni analogici e la loro condizione di precarietà. Il gusto per il rumore, onnipresente in tutte le produzioni di Tab, è tanto sonoro quanto visivo, il rumore è una texture, certamente, ma è anche una cifra visiva di deperibilità. Se ad una prima vista il video possa effettivamente apparire come un rimando all’infanzia e ai suoi giochi, diventa invece chiaro in un secondo momento che questo è un depistaggio.
Da bambini costruire è solo il momento che antecede la distruzione. Qua invece il gioco sta proprio nel “farlo male”, inteso anche come dolore fisico, palpabile, oltre che psicologico (Salire su queste scale/ ha smesso di far male). Questo autoscontro post-apocalittico in stop-motion non è casuale ma è volontario, come ad esorcizzare la fisicità dello scontro stesso. Le liriche di Aaron, quasi biascicate e nascoste dai filtri del rumore, si scontrano tra di loro allo stesso modo. Quando comincia il pezzo di Tab la faccenda si fa ancora più chiara:
Troppi filtri
troppi vetri
si frappongono al vedere
tutto è falso
tutto è vero
non c’è verità che sia
la bugia, la bugia
l’unica via, l’unica via
Ecco che quindi il rumore dell’analogico, la sua stessa essenza deperibile e continuamente ancorata alla nostra memoria (non solo personale ma collettiva) si denuncia come filtro per la realtà, che quindi automaticamente la mistifica, ne deforma la sostanza. Ma è proprio la bugia, la deformazione, l’unica verità che ci resta.
Ad un certo punto irrompe una scavatrice giocattolo che rimette ordine nel disastro automobilistico, la quale però si rivela essere un inquietante giocattolo di Minni della Disney. Questo genere si situazionismo Tab lo sta sviluppando su più piani, sia con i magazine da lui curati, che nei collage e nella musica. Non necessariamente bisogna intravedere connessioni di tipo volontario, ma già lasciarsi andare allo spaesamento (di brechtiana memoria) è un buon modo per capire la direzione concettuale di ogni lavoro del chitarrista dal Valdarno.
Aaron è chiaramente influenzato dalla New York degli primi ’60, quella di Godz e Fugs, dell’intervento poetico che si declama attraverso la dissacrazione dei canoni estetici del rock da classifica, e quello che mi aspetto da questo Split è un bel viaggio tra canzoni tronche e intuizioni situazioniste, un album che lontano dal perseguire una fruibilità rockettara lasci libero spazio all’interpretazione e allo sguardo di chi ascolta.
Ora scusatemi ma sembra che anche oggi ci sia da fare un po’ di straordinario, per cui ‘fanculo ‘sta merda, mi sparo la playlist su Spotify della line-up del prossimo Beaches Brew.
Podcast – La leggendaria intervista a Tab_ularasa
L’anno scorso ne ho fatte parecchie di interviste, ma tutte in ambito extra-musicale, e per quanto mi riguarda aprire un ciclo sul podcast proprio con Tab_ularasa è stato un sogno. Tab è una delle personalità più poliedriche e fottutamente fuori di testa che ci siano nel sottoterra italiano, uno di quelli che potrebbe scrivere la pagina DIY di Wikipedia auto-citandosi come unica e incontrovertibile fonte (di stronzate ovviamente – con affetto Tab <3). Ora però sono ben quattro giorni che ne parlo bene per cui temo mi stia ammalando o qualcosa del genere.
Comunque sia per Ubu Dance Party è stata in generale una bellissima puntata, culminata con la live di Tab e conclusasi con le solite stronzate di DJ Lorenzo.
«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook?»
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»
Podcast – Dead Horses, Stromboli, Steven Lipstick & His Magic Band, Kikagaku Moyo, ShitKid
Con un ritardo mai visto prima e che è al limite del ceffone sul viso, eccovi la 10° puntata di Ubu Dance Party, il vostro podcast preferito! Vi assicuro che stavolta ascoltarci sarà come andare sulle montagne russe, dal blues alla psichedelia giapponese, weird-garage e drone, robe da farvi intrippare di brutto.
Vi ricordo che Ubu Dance Party è in diretta tutti i MARTEDÌ alle 21:30, potete ascoltarci QUI oppure sulla pagina Facebook di Radio Valdarno! (anche se questo martedì credo proprio si andrà in onda alle 18:30, perché DJ Lorenzo ha da giocare alla play)
«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook?»
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»
Supernova, ovvero sulle funzioni del video-clip nel 2017
Ho riguardato questo video sei o sette volte da martedì, e ho ascoltato Supernova con lo schermo buio almeno altre quattro.
In questi giorni sto riconciliando molto del mio tempo con la musica, principalmente per gli impegni radiofonici che, a discapito persino di vere e proprie disgrazie, continuano e stanno riscuotendo un microscopico successo. Tab_ularasa è un musicista che dai tempi dello split con Muddy Mama Davis mi ero ripromesso di scoprire, e più vado a fondo e più definirlo “musicista” mi sembra una limitazione d’intenti inaccettabile.
Sui Centauri ho già scritto e detto tanto per quanto mi riguarda, una band che ha dalla sua un modo di interpretare il noise estremamente emotivo, quasi fragile, nel primo album fin troppo dispersivi e ripetitivi (anche se con dei picchi notevoli – Alpha Centauri A), nello split con i Dead Horses più incentrati. Personalmente li adoro, ma mi rendo conto che il loro approccio tende a cercare quasi una risonanza emotiva nell’ascoltatore, che se non la coglie ne rimane del tutto indifferente, quando non infastidito.
(Sì, siamo ancora nella premessa, ma adesso vi espongo il fulcro del discorso, cazzoni) Se c’è effettivamente un aspetto peculiare nella musica ai tempi di internet quello è il tempo. O almeno così credevo. Per me l’avvento dei formati digitali doveva annichilire i formati classici, i 7”, i 33 giri, le musicassette, i CD, per favorire formati sempre più “pesanti” ma di qualità, liberando gli artisti dalla necessità di pubblicare dischi che durino un tot, con il singolo che duri un tot, con il video che taglia il pezzo di un tot per renderlo più fruibile, e via dicendo. Il tempo ormai lo decidiamo noi, è la nostra merce di scambio e non più quella del media che deteneva tutto l’intrattenimento e lo elargiva rateizzato al fruitore. Ma a parte le mode revival e nostalgiche, a parte che ancora adesso il disco, l’album, la fa da padrone, c’è un elemento che mi ha fatto riflettere nuovamente.
Sabato scorso ero in Sicilia ad una festa di laurea, una roba che di solito eviterei come la birra analcolica evita me, ma si da il caso che il laureato in questione sia un mio grande amico, per cui prendo i biglietti da Pisa ed eccomi lì. Mi ritrovo ad un certo punto a parlare con un giovane musicista palermitano (22 anni), so che non ve ne frega niente per cui vado dritto al punto: ad un certo punto dice che fare i video per promuovere la propria musica è un retaggio del passato, una roba buona solo a prendere la polvere sugli scaffali. Non sono d’accordo. Il video-clip nell’era di YouTube fa MILIARDI di visualizzazioni, ben più di quanto potessero permettere canali tematici come MTV, e i numeri tendono ancora a salire, non a scendere. In molti casi si è persino raffinata la tecnica, raggiungendo sintesi estetiche deliziose, spesso più appaganti della musica che fa da contorno.
Ma se invece di fare video-clip i video dell’era di internet fossero un tutt’uno con la musica? Pensateci: tutti i nostri dispositivi sono ormai collegati ad uno schermo, è quasi impossibile avere un supporto per ascoltare musica che non ne abbia, a parte i classici stereo (ma anche lì…). Se si esautorasse il video dalle esigenze promozionali e diventasse compendio se non addirittura parte integrante del discorso musicale, sarebbe un’eresia?
Tab_ularasa con il video di Supernova mi ha effettivamente messo un po’ in crisi. Non mi piace intellettualizzare laddove non c’è nessuna urgenza di farlo, questo vorrei metterlo bene in chiaro adesso. È infatti inoppugnabile che riflettere su come la musica cambi in base ai formati di trasmissione della stessa sia fondamentale. Se RCA durante una ripartizione della produzione negli anni ’40 non avesse deciso che la Musica d’Arte andava stampata nei 33 giri e quella pop nei 45 non avrebbe dato il via all’infinita schiera di piccole etichette che furono il terreno fertile per la nascita del rock (aiutati anche dai bassi costi dei nastri magnetici tedeschi), inoltre il formato così breve portò i musicisti pop a rendere i loro pezzi più brevi e veloci. Il formato quindi non è solo un fattore, è IL fattore.
In questo momento per me ascoltare Supernova con il video (che sia su PC o smartphone poco importa) è un’esperienza diversa artisticamente che ascoltare il pezzo e basta, questo non perché la musica dei Centauri non sia efficace di per sé, Supernova è un pezzo davvero azzeccato, forte di un climax distopico davvero ben riuscito, merito di una conoscenza dei mezzi davvero superlativa, ma il video di Tab_ularasa ne completa il discorso senza stravolgerlo.
Certo è che parlare d’arte farebbe rizzare anche i peli del culo a Tab, questo è poco ma sicuro, basta ascoltarsi la sua produzione da solista per carpire la sua idea al riguardo, ma per me è in torto marcio. Il suo modo diretto di esprimersi, sporcando il più possibile la comunicazione (proprio come è nella realtà), il suo sforzo “soggettivista” mi ricorda quello di G. Gordon Gritty, che elimina di fatto ogni velleità artistica ma che in realtà ci regala un nuovo punto di vista, che proprio nella sua soggettività pura e scarna è (stacce) una forma d’arte.
Quello che vediamo nel video in pratica è un documentario su una famiglia di giraffe, probabilmente in VHS, la materia di cui è fatto il supporto video è quasi tangibile per quanto è usurata, quel gusto un po’ retrò di certi video contemporanei (anche vaporwave) non è qui però presente. Per Tab_ularasa la materia e la sua percezione sono elementi fondamentali della sua estetica, basti dare un occhio ai suoi collage o alla splendida copertina dei Rawwar per rendersene conto. Quando si sente cantare «I’m an asshole» vediamo il maschio della giraffa sedurre la femmina con una buona dose di ignoranza animale, e il quadretto familiare successivo col figliolo grazie all’accompagnamento musicale sembra quasi quello della (im)perfetta famigliola di provincia, magari pure tossici. La tragedia che si dipana nel mezzo del video poi sembra quasi trasformarsi in un documentario su Forcella o sulla adolescenza in generale. La prima volta la percezione che ebbi guardandolo fu come se quelle giraffe fossero degli alieni, evoluti ed intelligenti come noi, ma troppo diversi per comprenderne la tecnologia e la saggezza, ma che alla fine dei conti si rivelassero identici nella sostanza, nell’amore, nella violenza, nel dolore, nella morte.
Ma probabilmente sono solo io, dovrei smetterla di leggere Queneau e Sartre appena sveglio diocristo.
Podcast – Dots, Rawwar, Centauri, Ty Segall
E allora sì cazzo. Puntatona di Ubu Dance Party, l’unico podcast di rock underground che non le manda a dire. A meno che non mi ritrovi a letto con l’influenza (odio l’influenza). 3 album italiani uno meglio dell’altro e una feroce stroncatura al Biondo che fa impazzire il mondo.
«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook?»
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»
Podcast – Ricordando i Vincent Van Gogh
Seconda puntata commemorativa su Francesco, stavolta incentrata sulla leggendaria band in cui componeva e suonava la chitarra, i Vincent Van Gogh! Sì, lo so, possedete tutti l’intera discografia, avete i poster autografati e le mutandine ancora bagnate dall’ultima volta che li avete visti dal vivo, ma non per questo dovete perdervi questa esclusiva intervista a due membri della formazione originale!
Vi domandate come farà stavolta DJ Lorenzo a sputtanare tutta la puntata? La risposta è proprio nel player qua sotto, cliccate su play e lasciatevi possedere dal pazzo Ubu!
«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook?»
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»
Centauri / Dead Horses split
Etichetta: Lepers Production Paese: Italia Pubblicazione: 1 Novembre 2016
La malinconia celata in un feedback può essere difficile da cogliere, un rumore in fondo è solo un rumore, eppure da John Cage a Iannis Xenakis ne abbiamo di esempi di come il rumore possa diventare vettore di sensazioni, riflessioni, e perché no: emozioni.
Nella storia del rock ne abbiamo ascoltati di rumori assordanti eppure significativi, dai Velvet Underground ai Sonic Youth, non mi sento affatto fuori luogo ad inserire in questa esclusiva famiglia il denso discorso sonoro dei Centauri. Questa band prodotta da una delle migliori etichette italiane del momento, la barese Lepers Production, riesuma la semplicità melodica di certo alternative degli anni ’90 e la immerge in stratificazioni rumorose incredibilmente espressive.
Il loro esordio discografico credo sia del 2014, con “Centauri” (of course), una deliziosa vertigine di noise e Faust, ma non i Faust degli inizi ma quelli laconici di “The Faust Tapes”. Il martellio del piano che si perde in uno spazio siderale saturo di frequenze di Alfa Centauri A, spiega meglio di quanto io possa fare l’eleganza dietro questo album (il suo continuo, Alpha Centauri B invece rigurgita del rock un po’ come i Pussy Galore nel bel mezzo del delirio sparavano un blues infernale).
Personalmente provo quasi una venerazione per questo lavoro, sopratutto quando mi ritrovo a leggere riviste come Rumore dove si parla di espressività in merito all’ultimo lavoro di Lady Gaga, laddove quell’espressività anche se ci fosse è stata talmente sviscerata da avere poco da aggiungere, i Centauri invece sono una di quelle band che si muovono tra i confini dei generi, non cercando di scavalcarli ma piuttosto spingendoli un po’ più in là. La tensione fantascientifica della band, più Tangerine Dream che Sun Ra, si sposa con un folk trasognato, e non senza un certa meraviglia ci ritroviamo a navigare nel nostro universo interiore.
Lo split uscito questo primo Novembre con i Dead Horses è un evento per chiunque abbia a cuore l’underground italiano. I Dead Horses, trio acustico dalla febbrile Ferrara, altro non sono che una declinazione dei For Food di cui abbiamo già parlato in una entusiastica recensione che vi linko qua.
Quindi che cosa succede in “Centauri – Dead Horses”?
I Centauri si presentano con tre tracce, proseguendo il discorso del loro “The Centauri Tapes” (eh), sposando una vena piuttosto malinconica e incredibilmente efficace, che esplode in tutta la sua meravigliosa fragilità nei 5 minuti di Unza.
I Dead Horses tornano dopo il loro folgorante debutto per la Bubca Records di Tab_Ularasa, e presentano quattro pezzi ormai rodati. Anche se li accumuna una certa urgenza espressiva non sono da confondersi coi siciliani Pan Del Diavolo, nei Dead Horses è tutto “in potenza”, quasi mai la tensione deflagra in un coito rockeggiante. Il rumore c’è anche qui, se The Cross sembra uscita da una casa di produzione indie, Before you judge me suona come se fosse stata partorita tra il sangue e le urla di un garage di periferia.
La musica dei Dead Horse raggiunge vette mistiche, scompare la rabbia di certo folk italiano da classifica per far posto ad un lento rituale misterico.
Due anni fa Mirrorism e For Food hanno segnato rispettivamente delle vette da raggiungere nel panorama nostrano, l’anno scorso gli Hallelujah!, evoluzione dei Vairus, hanno esordito con uno dei più potenti 12” che abbia mai sentito, e quest’anno Centauri e Dead Horses spostano ancora più in là il confine.
E meno male che la musica in Italia fa cagare.
L’inconscio e la musica della macchina di metallo
Articolo di: bfmealli
Se l’inconscio avesse un suono quello sarebbe il feedback della chitarra. E se l’Ego di questo strumento venisse filtrato da quel Super-Io che è il musicista allora il sibilo incontrollato dei pick-up troppo vicini all’amplificatore, sarebbe sicuramente l’Es. Non è un caso che tale tramestio venga percepito dalla massa come mero rumore, rigettato dai più come fastidio acustico e nulla più quando invece, alcuni artisti, ne hanno fatto un complesso argomento di studio musicale.
Prima che divenisse di dominio pubblico – tanto è vero che Paul McCartney si accreditò la paternità di essere stato il primo ad usarlo in una canzone – il feedback era qualcosa da evitare: la parte più fastidiosa della chitarra elettrica, quel difetto che invece la chitarra acustica non poteva giocoforza avere.
Per questi motivi posso tranquillamente affermare che Metal Machine Music sia il disco più psicanaliticamente interessante di tutto il panorama rock. Oltre alle premesse suddette prendo in esame anche le uniche parole presenti nel disco: le note di copertina scritte di proprio pugno da Lou Reed. E’ interessante, dunque, l’analisi che l’autore fa del suo disco come rock reale su cose reali mentre critica quel movimento ultimamente imbarazzante quale l’heavy metal rock etichettandolo effetto periferico nonché distorto di quella realtà che questo album possiede.
Se poi prendiamo un attimo in esame il privato di Lou Reed, nel 1975, anno di nascita di Metal Machine Music, ci troviamo davanti ad un povero musicista derelitto scarnificato, strafatto, insoddisfatto ed infelice reduce del suo ultimo disco di studio che lui stesso definiva mediocre (testualmente: “E’ incredibile. Più faccio schifo e più vendo. Se nel prossimo disco non compaio affatto arriverò al numero uno”) più due live ordinatigli dalla casa discografica; tra trans e pere di amfetamina scandiva la propria settimana con gli anni dei suoi fans ma, nonostante tutto, sentiva che doveva dare qualcosa a sé stesso, all’artista che pensava di essere: doveva dimostrare che i primi due dischi dei Velvet Underground non erano un caso isolato e, soprattutto, non erano prevalentemente merito di John Cale (anche se rimarrà sempre emblematico il distinguo che il gallese apportò alle composizioni di Lou Reed che, da band folk-blues con tematiche in netto contrasto col flower power di quegli anni, i Velvet Underground divennero la band di riferimento del Rock).
Così Lou Reed intuisce che persino la chitarra può mentire, può essere ipocrita, può nascondere e può venderti. L’unico modo per poterla davvero comprendere per quello che è realmente è il feedback: ovvero il corrispettivo strumentale di una seduta psicanalitica. In questi quattro lati di 16 minuti e 10 i dispari e di 15:55 i pari c’è l’inconscio che vaga come il flusso di Molly Bloom nell’ultima parte dell’Ulisse: niente punteggiature, nessun capoverso, nessun ritmo, nessuna nota; i pensieri sono sconnessi così come lo è l’ondata di rumori, non ha riferimenti, non ha una direzione, è memoria ed essenza. E’ per questo motivo che nell’intervista di Lester Bangs Lou Reed non fa provocazione asserendo che in questo disco puoi sentirci passaggi di Vivaldi, di Beethoven e di Mozart, qua dentro c’è tutto e di più, nella stessa forma distratta, distorta ed astratta che hanno i sogni.
E questo album usciva, guarda caso, solo pochi anni prima che esplose quel movimento rumoristico che fu chiamato No-Wave, dove il feedback veniva alzato come bandiera distintiva. Anche se fu un totale disastro commerciale tanto da venire ritirato dal commercio solo tre settimane dopo l’uscita, voglio credere che sia grazie a Metal Machine Music se poi il feedback è stato “accettato” dai musicisti come parte integrante della chitarra, nonostante la maggior parte dei chitarristi continui ad usare il feedback come elemento di disturbo e non come segmento di coscienza dello strumento.
Il secondo singolo degli Who, che precede di dieci anni esatti Metal Machine Music, Anyway, Anyhow, Anywhere, ha, a metà canzone, durante lo strumentale, come colonna portante un feedback switchato (che poi sarebbe diventato uno dei marchi distintivi di Pete Townshend) che sovrasta la sezione ritmica; sarà stata la giovane età del rock e della chitarra elettrica ma, come venne distribuito, i negozianti rispedirono al mittente quel disco reo di contenere un rumore infernale a metà canzone. Mi piace pensare che il vero motivo dell’incomprensione sia stato averlo riconosciuto più che un errore tecnico come un lapsus.
Se vuoi leggere altri deliri del buon vecchio bfmealli non hai che da cliccare qui:L’algebra del bisogno.
Running – Asshole Savant
We want to do things that make people uncomfortable.
Alejandro Morales (batterista dei Running)
Il problema di gran parte delle band rock contemporanee è esprimere il disagio della nostra epoca (e delle nostre crisi) in modo efficace. Personalmente non mi ritengo particolarmente dotto in fatto di rock, ho aperto il blog per passione non perché mi ritenga un critico o un eletto unto da Chuck Berry, ma credo che nel mio piccolo di aver trovato e recensito alcune band che ci stanno riuscendo, almeno in parte, a svolgere questo arduo compito.
Molti gruppi per trovare un modo di esprimere l’urgenza dell’arte (perché a questo punto di arte si deve parlare) stanno rispolverato la new wave/post punk, genere in cui la nevrosi collettiva e gli artistoidi da SoHo hanno rivoluzionato la grammatica del rock. Da qui il sound eighties di Corners, Dreamsalon, Ausmuteants e Nun. Ma se l’orecchio tende agli insegnamenti di Devo, Pere Ubu e Einstürzende Neubauten, la mente è radicata nel presente. Cercando quindi di trovare ispirazione dal vecchio si costruisce il nuovo, un meccanismo necessario che solo le grandi band hanno saputo far funzionare al meglio.
Che cosa c’entrano con tutto questo i Running? Beh, già dal titolo del disco forse intuite qualcosa.
“Asshole Savant” (Captcha Records, 2012) è un EP scarno, ruvido, un rigurgito di Pussy Galore, Rake e “Metal Machine Music”, ma con una spinta in più, ovvero la sua profonda e intima relazione col contemporaneo.
Il trio in questione è formato da Jeff Tucholski alla chitarra (invece che “elettrica” direi “abrasiva”) e voce, Matthew Hord al basso e voce (e smorfie) e infine Alejandro Morales alla batteria, nonché fondatore di questo progetto che sta devastando Chicago a suon di noise punk da qualche anno a questa parte.
Tra LP ed EP più o meno di culto (tra cui “Vaguely Ethnic” dell’anno scorso, uscito per la Castle Face Records di John Dwyer) ho scelto di consigliarvi questo brevissimo lavoro uscito nel 2012, pietra miliare di una band che non devasta solo dal vivo (come molte formazioni di culto) ma anche in studio.
Pezzi stratosferici come I Can’t Believe I’m Alive sono un manifesto concettuale, trascendendo i generi si può dire senza arrampicarsi sugli specchi che c’è un contatto tra la furia dei Running e le melodie amare dei The Molochs di Lucas Fitzsimons, come anche con Felix Tried To Kill Himself degli Ausmuteants, sono il manifesto quindi di una dimensione giovanile devastata, torturata dall’ondata di informazione prima televisiva e poi dal web, una dimensione che queste band stanno cominciando a dipingere, ognuno secondo la sua personale scuola di pensiero.
Se Fitzsimons punta sul songwriting (anche in virtù della sua immensa capacità lirica, che lo colloca senza troppi intoppi tra Bob Dylan e Tom Waits come ordine di grandezza) e gli Ausmuteants invece sulla foga dell’informazione e sulla devastazione della parola, i Running ripescano la chiusura ritmica del kraut rock senza miscelarla alla psichedelia (come nei Thee Oh Sees) ma piuttosto immergendola in un denso calderone sonoro noise e hardcore, rendendo questo brevissimo EP ben più devastante della mezz’ora di feedback e garage rock di “Slaughterhouse” di Ty Segall.
La sensazione che si ha ascoltando la title track è terribile, una versione rabbiosa di Ghost Rider dei Suicide, come invece il garage punk di Everybody’s Fucking Everybody è una versione moderna delle violente espressioni dei Pussy Galore.
È sempre brutto ridurre una recensione ad una sequenza di nomi, ma cercate anche di venirmi incontro, questo “Asshole Savant” spezza le coordinate con la sua furia devastante. Ah, fra l’altro è così che si satura lo spazio sonoro, non come quella cagata di “The Electric Hour” dei Jefferitti’s Nile, dove si butta nel mezzo tutti i generi conosciuti su questa terra perché non si ha un cazzo da dire, il disagio dei Running è vero, è palpabile dal pavimento che trema per i bassi, dalle orecchie che sibilano a causa dei feedback, dal peso nel petto per quei testi così pieni di vuoto.
Al contrario di altre band i Running sanno bene quello che fanno, sono scientifici nella loro ricerca estetica, e non gli basta esprimere la desolazione intellettuale e emotiva in cui viviamo, ma vogliono svegliare il pubblico a suon di rumori devastanti e raccapriccianti, incubi sonori dove ti ritrovi a correre per scappare da un mostro, ma ti accorgi solo all’ultimo di stare fermo.
Architeuthis Rex – Eleusis
Fatevi avanti
ora nel sacro cerchio della dea, giocando nel bosco in fiore,
voi che prendete parte alla festa divina.
Io vado con le fanciulle e con le donne
dove c’è la veglia in onore della dea, a reggere la fiaccola sacra.Aristofane, Le rane, Teatro di Dioniso, Atene , 405 a.C.
Nel 2012 mi imbattei in una band assolutamente fuori dai miei schemi con un nome altisonante e inquietante, li stava ascoltando il proprietario del mio spaccio di vinili preferito, il negozio era invaso da questa musica esoterica, e per quanto ci provassi non riuscivo più a ricordare per qualche dannato disco fossi entrato con venti euro in mano. Ipnotizzato da quell’andamento da messa pagana comprai quello strano manufatto. Era “Tebe”, l’album d’esordio de La Piramide Di Sangue i quali occuparono il mio stereo per parecchie settimane.
Rimasi in trance per un bel po’, come Sheri Moon mentre ascolta il disco dei Lord in The Lords of Salem, e cominciai una disperata ricerca di altro disco così particolare, che avesse quei suoni e quell’atmosfera, fu allora che mi imbattei in un album dalla cover magnetica. Rappresentava un oscuro pianeta proveniente da una qualche strana dimensione, era “Urania” di una band che non avevo mai sentito nominare: Architeuthis Rex.
Per un attimo ho sudato freddo. Cazzo, ho pensato, vuoi vedere che Antonius Rex è tornato e vuole sfornare altra merda? Forse avevo tra le mani “Neque semper arcum tendit rex” parte seconda e non lo sapevo?
Mi ci volle un po’ per scoprire che erano un duo (e che non erano i nuovi Jacula) e che erano Antonio Gallucci e Francesca Marongiu (più eventuali collaboratori) l’unica cosa di cui ero certo era che la loro musica sembrava provenire da un buco nero.
Naturalmente chiamare un album “Urania” non può che far balzare alla memoria di un italiano Arthur C.Clarke, Isaac Asimov, Lester del Rey, Rockynne, Sturgeon, insomma la fantascienza nella sua epoca d’oro, ma lo space rock drone di questa band si lega bene all’oscurità di Robert A. Heinlein, ai suoi misteri, ai suoi mostri immondi e incomprensibili.
La prima cosa che mi venne in mente ascoltando gli Architeuthis Rex fu “Alpha Centauri” dei Tangerine Dream, praticamente l’opposto ideologico alla concezione di kraut o space rock dominata dalla drone di “Urania”. L’album del 1971 che si rifaceva ai suoni cosmici dei film della MGM negli anni ’50, era un volo interstellare a bordo del Bellerofonte prima di atterrare su quel pianeta proibito. Ecco, se “Alpha Centauri” rappresenta il prima gli Architeuthis Rex rappresentano lo sgomento successivo, i mostri dell’inconscio.
“Eleusis” è il loro ultimo album, uscito a gennaio dell’anno scorso, dove l’Hammond e il Farfisa non ricordano per niente i giri garage della darkgaze di Has A Shadow, perché le tastiere per Gallucci servono a modellare lo spazio e non per creare melodie, mentre le percussioni tribali ci trasportano dal cosmo di “Urania” ad una terra ancestrale ma vicina a noi. Sebbene ci siano punti di contatto con gli Eternal Zio della Boring Machine, questo duo sembra più legato al black metal ambientale in tinta kraut (in una intervista Gallucci cita gli Aluk Todolo) che alla scena psichedelica.
Il mito dei misteri eleusini è il filo trainante dell’album, non ho ben capito se è un concept sul ratto di Persefone o sullo svolgimento dei riti misterici. Immagino sia importante fino ad un certo punto, perché è la circolarità il vero concetto di fondo ai misteri eleusini e al mito di riferimento, l’idea che ogni cosa ricominci, e che non ci sia morte senza rinascita.
L’album si apre con Hades una vera e propria discesa verso gli inferi che culmina nella potente Eleusis, la rivoluzione nel sound (prima cupo poi estatico) è simboleggiato da quel seme di melograno che Persefone accetta dalle mani di Ade (Pomegranates), fino alla estatica visione di Ecate (Triple Goddess). I riferimenti sono molti, potremmo anche scorgere del sotto testo (l’Ade come la morte, il melograno antico simbolo di fertilità, Ecate come un nuovo giorno e quindi la rinascita, e poi mi viene un gran mal di testa come al solito), è un viaggio completo quello di “Eleusis”, dove curiosità, paura, sgomento, speranza ed estasi si percepiscono distintamente, vi è tutto il mistero della vita umana.
La potenza evocativa di questo album lo rende uno dei prodotti più interessanti degli ultimi anni, gli aspetti esoterici qui sono un po’ più maturi che in altre band della così detta psichedelia occulta, i suoi segreti non sono mai pienamente svelati ma solo accennati.
Mentre con “Sette” i La Piramide Di Sangue proseguono un discorso multiculturale cominciato con la noise da Porta Palazzo (“SUK Tapes ad Sounds from Porta Palazzo”, album seminale composto da vari artisti uscito un anno fa) Antonio Gallucci esplora un suono meno descrittivo e più evocativo.
Se nel suo progetto parallelo denominato throuRoof Gallucci si diverte a riempire lo spazio con una shoegaze ambientale quasi del tutto avulsa dalla realtà, così aliena da annoiarmi a morte (ma magari potrebbe piacere a ernecron! [n.d.a.: ok, rileggendola mi è sortita male, è vero]), con Architeuthis Rex le idee prendono forma, non necessariamente una forma ben definita, ma è proprio questo il bello alla fine.
L’esperienza sensoriale non è una auto-celebrazione e non c’è mai un virtuosismo (nemmeno concettuale) buttato là senza un senso, piuttosto c’è un controllo incredibile sul suono e sulle emozioni/riflessioni che può far scaturire. È un album che si lascia commentare, che ha bisogno di essere condiviso per essere compreso (seppur sempre in minima parte).
Concettualmente sono molto vicini ai Mai Mai Mai in quel «noise profondamente umano» (citando Antonio Ciarletta nel numero 191 di Blow Up), ma per quanto mi riguarda “Eleusis” è la punta di diamante della psichedelia occulta italiana. Almeno per ora.
- Link utili alla popolazione: se volete ascoltarvi gratuitamente questo gioiello allora non abbiate dubbi a cliccare QUI per la pagina Bandcamp, se volete far sapere alla band quanti capelli vi si sono rizzati ascoltando Eleusis a tutto volume cliccate QUI per la loro pagina Facebook.
E ora, come ci piace a noi, qualche video al Tubo:
Da “Urania”:
Da “Dark As The Sea”, il loro esordio del 2010: