Etichetta: Ninja Tune
Paese: UK
Pubblicazione: 2022
Archivi tag: nuovo album
Jümp The Shark – IUVENES DOOM SUMUS
Come se la passa il jazz in Italia?
Dal punto di vista degli strumentisti benissimo, abbiamo degli interpreti di caratura internazionale che fanno invidia alle grandi scuole americane (esattamente come ci invidiano la Pizza e i mandolini) ma forse è sulla sostanza che dovremmo lavorare un po’…
Vi ricordate quando gli album jazz venivano acquistati a anche da chi di jazz non ci acchiappava? O quando quegli stessi album comparivano nelle classifiche delle riviste non specializzate, quando potevi benissimo trovarli a casa del tuo amico che ascoltava solo Led Zeppelin e Pink Floyd? Ecco, le cose so’ due:
- se ricordate tutte quelle robe siete vecchi
- se non le ricordate avete più o meno la mia età (24 anni) e sapete benissimo che il jazz in Italia, ad oggi, è una cosa per pochi, una roba d’élite, e non è una cosa buona.
So che qualcuno leggendomi imputa tale condizione all’analfabetismo musicale dilagante, ma personalmente credo sia una grossa puttanata. Squadra Omega, Architeuthis Rex, La Piramide di Sangue e in generale gran parte dell’esperienza psichedelica occulta italiana dimostra abbondantemente il contrario, un mondo dove jazz, rock, minimal, drone e noise si esprimono senza la ricerca di una maggiore fruibilità (anzi, è proprio la loro natura criptica l’unica chiave di lettura) riuscendo comunque a stanare i fan di Zep e Pink Floyd di cui sopra, ma anche quelli di Sun Ra e Mingus, senza cadere però nell’auto celebrazione.
Ovviamente ci sono le eccezioni. Piero Bittolo Bon, a mio avviso, è tra queste.
Parte di quell’ammasso di genialità senza freni di El Gallo Rojo, Bittolo Bon è il contrario del formalismo e dell’auto celebrazione, ma non è nemmeno un maniaco dell’”inascoltabilità”, di una musica estrema che non lascia via di scampo all’ascoltatore, questo perché il suo jazz è dannatamente ironico, ispirato, gioviale.
Già dal nome del progetto, Jümp The Shark, si capisce come il mondo a cui il sassofonista si riferisce non è così distante dal nostro (noi sfigati che ascoltiamo Ramones e Swell Maps), quel salto dello squalo che è ormai entrato nel linguaggio popolare di chi mastica televisione, e quindi di chi vive anche al di fuori di una torre d’avorio per soli addetti ai lavori, è un sarcastico brücke tra accademia e cultura pop.
Per questo terzo album (“IUVENES DOOM SUMUS”, titolo bellissimo fra l’altro) Bittolo Bon è accompagnato da Gerhard Gschloessl al trombone, dalla chitarra di un grande Domenico Caliri, dal vibrafono “zappiano” di Pasquale Mirra, Danilo Gallo (Guano Padano) al basso e un vivace Federico Scettri alla batteria, un ensemble affiatato e con mille sfumature (anche timbriche), che spazia dal free jazz più esplosivo fino ad una sperimentazione auto-ironica, mai cervellotica eppure di effetto (in questo senso è esilarante quanto interessante Another Venetian Self-Referential Tune).
Sebbene attento all’avanguardia, quella che Bittolo Bon prende in considerazione è la meno scolastica possibile, raggiungendo un sound talmente dinamico e coinvolgente da essere, delle volte, addirittura rock.
Non fraintendete, non intendo dire che in “IUVENES DOOM SUMUS” troverete dei pezzi degli Who o una cover dei Deep Purple, ma che l’approccio musicale è quello di una garage band che vuole prima di tutto divertirsi, anche se qui la questione non è assecondare o osteggiare la British Invasion, ma è assecondare Ornette Coleman e “Cannonball” Adderley, portandoli negli anni ’90 dominati dalla TV e dai giochi a 8-64 bit. È rock come lo intendeva Lester Bangs, musica democratica, e non è un caso se il buon Bangs reputava “dei nostri” pure un certo John Coltrane.
Dopo il folgorante esordio del 2009 “SUGOI SENTAI! GATTAI!!” (con una folle Heavy Metal Miss Jones uscita fuori dal periodo migliore di Zappa) e “OHMLAUT” del 2011, questo “IUVENES DOOM SUMUS” è l’ennesimo passo avanti per Jümp The Shark verso un jazz lontano dalle polverose accademie e dalla seriosità dei “maestri”, verso un’idea di musica che tenendo a distanza le banalità riesce comunque a coinvolgere tutti.
Insomma, potete anche tirarli fuori du spiccioli per ‘sto disco, no?
E per finire, come di consueto, qualche video:
Dal primo album eccovi Interstellar Turkish Kung Fu!
Dal secondo una avvincente Die Teuflische Quinlan (avete notato i riferimenti pop vero? VERO?)
E il promo dell’album:
Eeeee ultimo ma non ultimo…
Un breve ringraziamento è quantomeno dovuto a Alessandra Trevisan, che è stata davvero gentile a riempirmi di materiale su Piero Bittolo Bon e sul mondo attorno a lui. Ed io la ripago con questa recensione di due righe in croce. Che galantuomo.
Ty Segall – Manipulator
Sul nuovo album di Segall avevo delle aspettative, forse anche troppo alte, non lo so, però non è “Manipulator” l’album che mi aspettavo.
Con “Slaughterhouse” (2012) aveva raggiunto la saturazione senza stonare, il feedback straziante di Death che apre le danze del suo album più rabbioso è il raggiungimento di tutto il suo percorso come garagista, mentre in “Twins” (2012, sei mesi dopo Slaughter.) aveva raggiunto il suo massimo come compositore, raffinando il sound e le melodie, mantenendo fede alla sua rabbia borghese ma cospargendola qua e là di ballad, sperimentazione e melodie pop rock assolutamente non banali. È stato non solo il suo anno di grazia il 2012, ma anche un punto di non ritorno dal quale poteva solo evolversi, altrimenti qualunque altra sua produzione avrebbe suonato come un passo indietro.
Dopo l’esperienza con i Fuzz e l’album acustico-riflessivo esce il suo primo doppio LP, in cui Segall fa i conti con le sue pulsioni glam rese evidenti in “Ty Rex” del 2011. Sembrava solo una fuga momentanea dallo psych garage più spinto quel “Ty Rex” seguito l’anno scorso dal brevissimo “Ty Rex 2”, esperimenti minori nella già vastissima discografia di questo piccolo talento californiano, ed invece sono diventati la base portante di questa ultima fatica.
“Manipulator” è di gran lunga il peggior album di Segall, ideale seguito di “MCII” del suo fido Mikal Cronin, è la fine (im)perfetta per tutta la nuova ondata garage californiana.
Credo di essere il primo a declamare la parola “fine” per quella che è stata una stagione notevole, che ad oggi tutti (tutti) sotto stimano e stanno ben attenti ad elogiare sperticatamente. Tra questi mi ci metto anche io, che anche per i migliori album dei Thee Oh Sees ho sempre cercato di andarci coi piedi di piombo, ma forse le vere gemme di questo periodo sono da cercare nel sottosuolo (Harsh Toke, Zig Zags e il psych doom).
Fatto sta che le due punte di diamante hanno appena rilasciato i loro album più retorici e auto-celebrativi, i Thee Oh Sees ci hanno fatto rivoltare lo stomaco con “Drop” (anche se la colpa è tutta di Dwyer, dato che il resto della band è stato mandato a casa senza troppi complimenti), e adesso Ty Segall tradisce tutta la sua esperienza come rocker autentico cercando di vendersi al miglior offerente. Probabilmente come per Cronin essere un oggetto di culto non basta più.
E così la musica diventa tronfia, il suono avvolgente delle chitarre di “Slaughterhouse” qui serve a coprire la mancanza di idee, quasi un’ora di riff riciclati e banalità in ogni dove.
Se in “Twins” c’era coraggio qui c’è un imbonimento che già alla fine del lato A del primo dei due dischi sbadigli. Non che Tall Man, Skinny Lady o It’s Over siano pezzi da buttar via, a livello di composizione ci troviamo di fronte ad un album notevole (se confrontato ai precedenti) ma senza un cazzo da dire. Fino a The Faker non c’è una melodia che non sia già stata utilizzata da Segall un miliardo di volte, non c’è un cambio che ti faccia saltare dalla sedia, non c’è un acuto in mezzo ad un mare di grigiore glitterato.
A Green Belly se togliete gli inutili abbellimenti della post-produzione, che appiattisce tutto l’album, e lasciate la chitarra acustica solista diventa magicamente un pezzo dei The Beets. Meglio se vi comprate un loro album a questo punto, vi costa meno ed è quantomeno sincero e diretto, Green Belly riesce persino ad essere pretenziosa nella sua dichiarata banalità, non so cosa ci sia di peggio.
Ma è con il secondo disco e il pezzo d’apertura Connection Man che raggiungiamo il fondo. Un riempitivo “glamtizato” davvero imbarazzante. Ascoltare per credere, non so nemmeno come descrivervelo.
The Hand poteva anche essere piacevole fosse durata due minuti meno, Susie Thumb è un misto tra “Ty Rex” e “Reverse Shark Attack” (2009), ma se il garage punk di Reverse era acido questo invece soffre sempre di questa leggerezza glam che rende tutto bello e platinato, le pareti di camera tua si colorano di rosa e verde sparati mentre le paillette scendono dal soffitto, abominevole.
Scoppia la furia primordiale a suon di fuzz e feedback con The Crawler, ma è abbondantemente troppo tardi.
The Feels suona come una canzone scartata per “Goodbye Bread” (2011). Stick Around conclude per sempre questo straziante doppio album (forse il pezzo più ascoltabile di tutto il lotto, finché non si conclude con quegli archi da brivido), che segna la fine di Ty Segall come musicista con qualcosa da dire e da esprimere, e comincia la sua nuova carriera come musicista di talento pronto a riempire stadi e arene con musica vuota per gente vuota.
So che non metto più i voti, ma per questo album non risparmierei di certo un bel 3,5/10.
E ora qualche video per ricordarne i fasti: