Doveva succedere. Purtroppo è successo prima di avere un’attrezzatura minima decente, ma sono povero e me ne strafotto. In un futuro, quando sarò ricco e famoso parlando di Kim Fowley e Bessie Smith, avrò lo studio tipo Stephen Colbert con i BCUC come band permanente dello show e la cocaina scorrerà a fiumi manco fossimo ad un tè con Keith Richards.
Giudizi affrettati, oppure presunzione, sono tanti i motivi che ci portano a giudicare un album credendo di averci messo tutta l’attenzione necessaria, ed invece basterà riascoltarlo qualche anno dopo, magari di sottofondo ad un pub, per cambiare idea.
Una lista di otto artisti/band su cui per anni ho spalato merda addosso prima di rendermi conto di quanto fossi in torto.
Blues!
Garage!
Gospel!
Soul!
Tutti in un solo album!
Che aspettate gente? Venite!
Portate anche i vostri bambini per ascoltare la buona novella!
Ascoltate l’Inno alla Gioia dei Deadly Snakes!
Potrei anche non aggiungere altro, ma come si fa a glissare sul fatto che questa band è l’unica che dopo l’uscita dall’organico di una divinità rockettara come Greg “Oblivian” Cartwright è riuscita nel miracoloso intento di produrre il loro miglior album! Cartwright all’epoca sulla cresta dell’onda con i suoi Oblivians e i deflagranti Compulsive Gamblers (stiamo parlando di fine anni ’90 inizi 2000, nostalgia canaglia) stava riscoprendo il blues a suon di rock particolarmente cazzuto e sopratutto registrato male, e quando possibile suonato come dei ritardati in crisi epilettica. Roba raffinata, non c’è che dire gente, ma si sa, io qui vi consiglio sempre e solo IL MEGLIO!
Ma di che stavamo parlando? Ah sì, i fottutissimi Deadly Snakes, giusto giusto.
Scioriniamo qualche data:
1999: sotto la sacra egida di Greg sei amiconi canadesi debuttano nel mondo musicale con “Love Undone” un album profondamente blues che fa un casino discreto, subito apprezzati dagli addetti ai lavori per la straordinaria sintonia tra gli elementi della band. Abbiamo André “St. Clair” Either con la sua voce trascinante e chitarra, Max “Age of Danger” all’hammond e al pianoforte, Matt “Dog” Carlson che sputa sulla sua armonica o nella tromba, Yuri Didrichsons al basso, Carson Binks al sassofono e Andrew Gunn alla batteria.
Dato che la sbobba funziona eccola riproposta nel 2001 (ora al soldo della leggendaria In The Red) con “I’m Not Your Soldier Anymore”, anche questo un pezzo di plastica piuttosto trascinante e di dubbio gusto, ma non ce ne frega troppo perché ora passiamo senza aggiungere altre cazzate in stile enciclopedia britannica al nostro “Ode To Joy”.
Esce nel 2003, per strada abbiamo perso Binks sostituito al sax da Jeremy Madsen, si aggiunge Peter Hudson alla slide-guitar (che fa tanto south) ma sopratutto ecco la leggenda di Los Angeles al mastering, in fondatore della Better Quality Sound: David Cheppa. Quest’ultimo va sottolineato come effettivo componente della band in questo album, poiché da delle registrazioni probabilmente deliranti Cheppa ne tira fuori un sound da piccola chiesetta di New Orleans, amalgamando i suoni e impastandoli senza però creare la disarmonia urticante degli Oblivians o il noise dei Pussy Galore, ma piuttosto esaltando gli aspetti quasi parodistico-religiosi nel mood di questo terzo album della band di Toronto.
Si comincia anche troppo di fretta con Closed Casket, ma già l’amalgama, la densità sonora, è nettamente diversa da quella dei due album precedenti. Ecco che con il garage rock di I Can’t Sleep at Night e le incursioni degli ottoni il tutto assume un gusto più allegro che nichilista senza per questo essere sixties, ma la verità ragazzuoli miei è che si inizia a fare sul serio con la struggente ballad Playboys, ecco! sentite? le urla si fanno quasi predicatorie, il pianoforte è stranamente melodico, i cori dal loggione non intonano un inno punk come di solito in questo genere di produzioni, è il mood che cambia, dolcemente, verso qualcosa di unico che tocca sì gli Oblivians ma anche il Rocky Horror Picture Show, Screaming Lord Sutch, anzi alla Screamin’ Jay Hawkins perdio!
Ecco le mani che battono al tempo di gospel mentre la chitarra sfoggia un riff garagista vecchio stampo, Oh My Bride, prima perla di questo album. Segue la casinista Trouble’s Gonna Stay Awhile con quel gusto decadente che sta lentamente prendendo il sopravvento per deflagrare in tutta la sua magnificenza in I Want to Die, il vero apice dell’album, il godimento assoluto, il paradosso delle liriche nei confronti di un rock sgangherato e spensierato.
La seconda parte di “Ode To Joy” è indiscutibilmente permeata da questo cambiamento e ci lancia in faccia pezzi fantastici per ricerca melodica: There Goes Your Corpse Again, Sink Like Stones e ovviamente la forsennata Mutiny and Lonesome Blues che conclude con una fiammata questo cazzutissimo lavoro.
Veri protagonisti di questo rock pirotecnico sono il cantante St. Claire e ovviamente Max Danger alle tastiere, il secondo con l’organ crea quella dolce sensazione di chiesa protestante che in un attimo si trasforma in un orgia punk con Ray Manzarek e Brian Auger, mentre quel debosciato di St. Claire nei suoi momenti migliori declama assurdi sermoni al microfono, con una metrica quantomeno opinabile e gracchiando come una vecchia inacidita.
Applausi.
Nel 2005 la band pubblica il suo ultimo album, “Porcella”, sebbene salutato dalla critica come il loro miglior lavoro suona come una versione raffinata e boriosa di “Ode To Joy”, con inutili pseudo-virtuosismi come l’uso degli archi e una produzione da mille e una notte che lascia quella sensazione di patinato e unto sulle orecchie da gruppo indie rock del cazzo.
Ma tanto il discone lo hanno già fatto, se domani vogliono aprire i concerti ai Foo Fighters facciano pure, fottesega, teniamoci stretto “Ode To Joy” sotto le coperte nei giorni di pioggia.
Venite orsù, venite!
Blues, garage, gospel, soul!
Tutti in un solo album!
Che aspettate signori, venite!
Ne abbiamo per tutti!
Ascoltate assieme a noi l’Inno alla Gioia dei Deadly Snakes!