Etichetta: ever/never
Paese: Australia
Anno: 2023
Archivi tag: Pink Floyd
Meg Baird – Furling
Etichetta: Drag City
Paese: USA
Anno: 2023
Eccovi qualche link per ascoltarvi l’album suddetto:
• BANDCAMP: https://megbaird.bandcamp.com/album/furling
• SPOTIFY: https://open.spotify.com/album/5FgYvOLxsNHb1oh29LeOMc
• APPLE MUSIC: https://music.apple.com/it/artist/meg-baird/254431414
Trupa Trupa – B Flat A
Etichetta: Glitterbeat
Paese: Germania (Polonia)
Pubblicazione: 2022
Sul perché i Queen fanno cagare. Un’indagine su ciò che ai critici non piace
Had to make do with a worn out rock and roll scene
The old bop is gettin’ tired need a rest
Well you know what I mean
Fifty eight that was great
But it’s over now and That’s all
Somethin’ harder’s coming up
Gonna really knock a hole in the wall
Gonna hit ya grab you hard
Make you feel ten feet tall
Queen, Modern Times Rock ’n’ Roll, 1973
L’approdo dei Queen sulla scena rock britannica non fu dei di più dirompenti. Persino Brian May, chitarrista e principale compositore della band, era un po’ amareggiato dal risultato, considerando le promesse che veleggiavano intorno alla band. L’album d’esordio contiene giusto un paio di hit (Keep Yourself Alive e Seven Seas of Rhye) ma alla critica suona come decisamente troppo derivativo, crasi confusa dei maggiori successi di classifica tra il 1971 e il 1973. Certo, oggi ci ricordiamo esclusivamente delle belle recensioni che li proiettavano come i “nuovi Led Zeppelin”, ma nell’ambiente non erano proprio tutti d’accordo sulla faccenda. Messo sul piatto sembrava che Steely Dan e Mott the Hoople si fossero messi d’accordo per una jam session dove a discapito degli elementi che li caratterizzano, restava solo il testosterone in primissimo piano. Questo si declinava attraverso un patinato glitter-rock alla Slade, disciolto nel pop smielato e stratificato di band come Raspberries e 10cc, senza rinnegare del tutto la lunga gavetta prog sulla scia degli Yes, un bel miscuglio di cose che sicuramente esprimevano una certa ambizione, ma dal quale non si riusciva a comprendere in cosa consistesse la supposta originalità della band. Nel pieno dell’estate del 1973, mentre a Belfast la tensione era alle stelle e alla TV si seguiva la cronaca del rapimento del nipote di Paul Getty, nessuno sano di mente avrebbe scommesso che quell’accozzaglia di generi stereotipati dal buffo nome di “Regina” in pochi anni avrebbe raggiunto un successo planetario, raccogliendo centinaia di milioni di fan ai loro concerti, conquistando una popolarità inaudita e che infine sarebbe stata assunta a divinità pop leggendaria. Ma se la critica rock ha spesso rivalutato artisti che aveva inizialmente giudicato negativamente (come nel celebre caso Rolling Stone-Led Zeppelin o quello Lester Bangs-Stooges) con i Queen non è proprio andata così, all’inizio infatti c’era sincera curiosità quando non proprio dell’entusiasmo, calato all’improvviso con l’affacciarsi dei primi successi planetari.
Continua a leggere Sul perché i Queen fanno cagare. Un’indagine su ciò che ai critici non piaceEpépé – Epépé
Etichetta: uscito via Bandcamp
Paese: Francia
Pubblicazione: 2019
“Epépé” è tutto quello che “More” e “Obscured by Clouds” volevano essere ma non sono stati. No, non è una colonna sonora, ma riesce perfettamente nell’evocare scorci e vicoli di un magico paesino di provincia, e come se fossimo dei novelli Lancelot Edward Forster ci perdiamo in notti eterne dentro locali immaginari.
Continua a leggere Epépé – EpépéPodcast – Gli album peggiori delle band migliori
Sì, ok il titolo fa schifo ai cani, ma il podcast è interessante a bestia. Ci stanno Television, White Stripes, Velvet Underground, Rolling Stones, insomma roba che scotta gente! Sparatevelo nelle orecchie e serbatelo per un po’ tra il cerume, perché la prossima settimana non andiamo in onda (di solito è ogni martedì alle 21:30 su Radiovaldarno).
«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook?»
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»
Thee Oh Sees – Mutilator Defeated At Last
Davvero una carriera strana quella di John Dwyer e dei suoi Thee Oh Sees. I primi album interessanti, ma non particolarmente memorabili, alla fin fine ci si ricorda di “The Master’s Bedroom Is Worth Spending A Night In” giusto per quattro tracce, come anche di “Dog Poison” e via dicendo, eppure ‘sta band di depravati garagisti, figli di Syd Barrett, Can e Deviants, nel 2011 riescono a sfornare un quasi-capolavoro: “Carrion Crawler/The Dream”.
Nato dall’unione di due EP, Carrion Crawler è l’album della consacrazione, quello dove i Thee Oh Sees prendono solo il meglio della loro produzione passata (come Go Meet the Seed, Grease, The Sun Goes All Around, MT Work) fuzzandola all’inverosimile, raddoppiando la batteria, e tirando fuori dei pezzi memorabili, inventandosi di sana pianta un nuovo garage rock.
Escono raccolte, collezioni dei singoli, le fottute musicassette, e la leggenda diventa sempre più mondiale e meno californiana. Seguono un eccezionale (e molto acustico!) “Castlemania” e “Putrifers II” con una certa Lupine Dominus, un grande garage strumentale, ma è l’anno successivo quello in cui tirano fuori un altro coniglio dal cilindro ripieno di speed, il magniloquente “Floating Coffin”, un album devastante, dove l’estetica dei Oh Sees trova la sua definizione, nel 2013 sembrava che ormai non li potesse più fermare nessuno. Tranne Dwyer stesso.
E difatti l’anno scorso parlavamo di quella merda di “Drop”, un album anemico, senza i veri Thee Oh Sees ma con dei comprimari che accompagnavano ossequiosi le nenie psichedeliche-beat di Dwyer, passato da Syd Barrett a Jeffrey Novak senza pensarci troppo sopra. Manca il nerbo dei Thee Oh Sees, ma sopratutto mancano le idee, i riff sembrano tutti riciclati dagli album precedenti, come le melodie e i rumori, ma compressi in un formato più appetibile a tutti, meno claustrofobico e ipnotizzante.
Meno di un mese fa è uscito “Mutilator Defeated At Last”, l’ultima fatica di Johnny D., dove registriamo il ritorno di Brigid Dawson, e un timido accenno alle origini della band dopo la derapata di “Drop”.
Quello che mi lascia perplesso di questo album è che trova i suoi momenti migliori quando Dwyer evita di coverizzare se stesso, ma piuttosto si butta su sonorità nuove.
Sticky Hulks è sicuramente il piatto forte di Mutilator che per il resto, ve lo dico subito, non sa di un cazzo. Sticky Hulks si basa su un continuo rimando ai settanta, con assoli micidiali, il ritmo e il cantato alla Pink Floyd (Waters, purtroppo), cambi di tempo prevedibili fin dal primo secondo di ascolto, ma riuscendo forse in quello che Tame Impala e compagnia revival cantante non è riuscita finora, ovvero a far proprio un sound di quarant’anni fa.
La cosa tragica è che le prime cinque tracce sono tutte delle pseudo-cover dei Thee Oh Sees, e non se ne proprio capisce il motivo. Roba riciclata all’infinito quando poi dimostri che puoi fare altro, e meglio!
Anche Holy Smoke si staglia sul resto, perché non sembra un pezzo dei Thee Oh Sees, una fuga acustica che non ha nulla a che fare con “Castlemania”, con un mellotron incantevole.
Quello che si può dire è che l’arrivo di Chris Woodhouse (al sintetizzatore, mellotron e anche al missaggio finale) ha cambiato non poco il sound della band, ma non è bastato di fronte al bisogno ontologico di Dwyer di ripetersi all’infinito. Sebbene pezzi come Withered Hand e Palace Doctor siano eccezionalmente camuffati dal prodigioso lavoro di Woodhouse, ci vuole poco per capire che è già tutta roba vecchia solamente tirata a lucido.
Prima che qualcuno se ne risenta perché «che cazzo vuol dire tirata a lucido, scrivi come mangi stronzo» maledetti fangirl & boys, metto le mani avanti: le sentite più quelle linee di basso hardcore? No, perché invece di Dammit qua abbiamo Tim Hellman, che punzecchia le quattro corde come nel Mersey Beat si ‘sto cazzo. Vi ricordate il ritmo kraut-apocalittico del duo Finberg-Shoun alla batteria? Niet, c’è spazio solo per Nick Murray, che al massimo scimmiotta la forza trainante di Finberg.
Ma poi cazzo l’avete sentita quella roba di Poor Queen? Sembrano i Thee Oh Sees versione Top of the Pops, col canto da sciacquata di ascelle sotto la doccia e il piglio dei Monkees.
C’è chi la chiama maturità, per me sono solo i vecchi album missati da Woodhouse, che è quello che ne esce meglio di tutti da questo sperpero di energie (che fra l’altro dura giusto mezz’ora, perché nel 2015 si ragiona ancora con lo standard dei 33 giri, porcatroia).
Colgo l’occasione di questa ultima recensione per annunciare l’arrivo di un nuovo collaboratore nel blog! La cosa bella è che ho aperto questo ricettacolo di cazzate sul web proprio grazie a ‘sto tipo, appassionandomi alla critica leggendo le sue funamboliche recensioni su Splinder. Ne vedrete delle belle!
Mountain – Climbing!
Fare le recensioni serie va bene fino ad un certo punto.
Sopratutto se parliamo di rock.
Se poi parliamo di hard-rock la prima cosa da fare e stapparsi una birra e guardarci dritto-dritto nelle palle degli occhi.
Amanti dell’hard, di quello vero, di quello incazzato, di quello che se ne frega se è più metal o più dark, l’importante è che sia hard. Di quelli che nel cellulare per riconoscere la ragazza hanno come suoneria Gypsy dei Uriah Heep, che come musica di sottofondo erotico-romantico gli piace spararsi Speed King dei Deep Purple, coloro i quali In-A-Gadda-Da-Vida ce l’hanno pure in musicassetta. Parlo a voi.
Ma che cazzo state là ad ascoltarvi quelle merdine dei The Answer? O quelle macchiette da Hard Rock Café dei Airbourne? Scommetto che qualcuno di voi si è ridotto ad elogiare anche qualche pezzo dei Muse. Come vi compatisco.
Ma invece che menarvelo con quelle mezze seghe, non provereste più gusto nel riscoprire e nel far assaggiare a chi non li conosce, il duro e puro membro dei Mountain?
Nel lontano 1969 Leslie West assieme al buon Felix Pappalardi tirano sù una band che più hard proprio non si può. E no, non erano ex-porno attori.
Ammetto che il discorso si sta volgendo pericolosamente verso il gay ingenuo, torniamo alla nostra birra, e intanto tiriamo fuori dagli altri vinili “Climbing!” dei Mountain.
Pappalardi è un bassista, noto turnista nel giro di chi conta, reduce da un’esperienza assai positiva con “Bleecker & MacDougal” (1965) di Fred Neil, ormai è un nome. Assieme alla moglie, artista completa, saranno protagonisti anche nei Cream.
West è un cazzo di nessuno (epocale cazzata) che bazzica in tredicimila sconosciute band (non sapete chi sono i Vagrants?), ma la sua chitarra brucia posseduta da un demonio ancora incatenato all’Inferno, che aspetta la sua ora, aspetta il 1970.
Se vi piace la roba masturbatoria alla Atomic Rooster forse non apprezzerete i Mountain, però sareste anche degli stronzi – è un’equazione matematica finissima.
Il sound della band è semplice, così semplice da essere considerato oramai all’unanimità come l’archetipo più credibile per l’hard rock. La “corposità” del suono di West alla chitarra sfiora lo stoner vero e proprio, i ritmi indiavolati non sono mai susseguiti da fughe barocche per checche prog, solo una lenta ma inesorabile successione di riff granitici.
Possiamo smetterla di sparare cagate ed ascoltare questa roba? (lo dico a me stesso, chiaramente)
Mettiamo sul piatto il buon vecchio “Climbing!” e drizzate le orecchie.
Cosa? Riconoscete il riff della prima song? Porca pupazza gente, quella è Mississippi Queen, uno dei pezzi più hard che la mente umana abbia mai concepito! Pura dannata energia, un attacco che ha fatto storia (notevole anche il lavoro di Laing, il batterista, non così scontato nel ’70).
Ci sono i riff e gli assoli. Sì amici miei, proprio come nei bei vecchi tempi.
E i riff non sono glammizzati alla Glitter o resi innocui dai Kaiser Chiefs di turno. Siamo alle origini, nessuna influenza commerciale o brit-pop del cavolo.
Si continua con la magniloquenza di Theme Form An Imaginary Western, un elogio alla grande epopea americana (anche se, va detto, c’è poco di Tiomkin e molto di loro, però vabbè).
Si torna al riffone spezza caviglie con Never In My Life, e intanto godiamoci i testi impegnati e pieni di spleen tipici dell’hard:
“Never in my life
Could I find a girl like you
Never in my life
Could I find a girl like you
When I wake up in the morning
You make me feel so good
Bringing me the cider whisky
Feel a bit lonely too […]”
Aaahhhh (*boccata d’aria fresca dopo una settimana di Tom Waits*)
Ma non c’è tempo e si rimonta subito in sella con Silver Paper, e l’hammond tradisce la presenza di Steve Knight, aficionados della band. Gran rock.
Giriamo l’LP senza fretta, gustandoci il momento con una birra torinese ghiacciata. Ci guardiamo soddisfatti di cotanti decibel liberi nell’aria. Via col lato B.
E quando pensi che forse ti basta anche così giù di nuovo con For Yasgur’s Farm, per alcuni la punta di diamante dell’album. Rimani basito.
Finalmente una pausa dall’epicità straboccante, Leslie da solo con una bella chitarra acustica ci trasporta assieme a lui in un bellissimo viaggio. To My Friend.
E già ti rendi conto di come questo album sia già di per sé un classico, anche se meno conosciuto di altri. Inspiegabilmente, nell’era di internet.
Bella prova anche The Laird, troppo anni ’70 per essere vero, scritta dai coniugi Pappalardi, coppia purtroppo celebre più nella tragedia che in questi dolcissimi componimenti (in cui si troverà benissimo il soft rock dei Pink Floyd del lato A di “Meddle”).
Il ritmo indemoniato di Corky Laing ci introduce nella bellissima Sittin’ On A Rainbow, l’ennesimo riff da paura della premiata ditta Mountain.
Si conclude il tour con un’altra prova dei Pappalardi, malinconica ma potente Boys In The Band, non riuscitissima a dir la verità, ma non è facile tenere botta con i pezzi precedenti.
Non so davvero che dire, album così hanno fatto la storia del loro genere, basta. Comprate questa roba, dannazione!
E poi “Climbing!” non neanche è il loro miglior disco. Immaginatevi gli altri!
- Pro: praticamente storia del rock.
- Contro: se non ti piace l’hard rock tienilo lontano un miglio dal tuo piatto.
- Pezzo consigliato: sebbene storica Mississippi Queen ormai la sappiamo tutti abbondantemente a memoria, dunque mi butterei più su Silver Paper, la quale racchiude anche l’atmosfera epica di cui è intriso l’album.
- Voto: 7,5/10
Pink Floyd, la discografia (parte terza)
[questo post è preceduto da questo]
Ed eccoci nel mitico 1973, anno in cui i nostri sfornano “The Dark Side of the Moon”. Se la portata rivoluzionaria di un album si basa essenzialmente sulle novità tecniche e sulle ripercussioni pratiche nel modo di fare musica Dark Side in realtà si impone come modello perfetto di “come si costruisce a livello massimo di ingegneria del suono un album”.
Dark Side come sound è la perfezione assoluta, unitarietà allo stato puro, a voglia di criticare lo stacco blues di Money o la supposta lentezza di Us and Them, questo album è compatto come un dannato pezzo di marmo, non ci trovi un difetto.
Anche qui però i Floyd mi cadono a livello concettuale.
In teoria il disco è un concept album ma… di che cacchio parla esattamente? Secondo un articolo nel primo speciale italiano del Rolling Stone è un disco “sull’inconscio umano”, ma per Waters negli anni il significato di questo album è cambiato, prima era solito martellare i coglioni dei giornalisti sul fatto che era un album che serviva a comprendere le differenze sostanziali tra l’uomo e la scimmia (Darwin ringrazia), ora dice che l’album spiega come “la vita non sia un gioco”.
La povertà letteraria di Waters non dovrebbe indisporre nessuno, a parte i fanatici che hanno bisogno di idoli per andare avanti nella vita, in fondo anche un genio come Barrett era un perfetto idiota, quindi non c’è da stupirsi se anche Waters alla fin fine non sia chissà chi.
Stavolta nessuna suite, sotto la l’idea di concept (falsa) Dark Side si estende per nove canzoni (escludendo quindi Speak To Me, una brevissima ouverture) pillole del miglior soft rock di tutti i tempi.
La musica commerciale ha il suo capolavoro al quale quasi nessuno si ispirerà mai, non tanto per la composizione, ma per quella ricercatezza nel sound che dicevamo prima. Tantissimi però coverizzeranno questo album, dal tentativo dei Dream Theater (per me tutt’altro che decente) e quello interessante dei Flaming Lips, l’unico ad ergersi dal punto di vista della cura ingegneristica.
Fatto sta che nel 1973 il kraut rock aveva trovato la sua degna conclusione (“Faust IV“, “Future Days“, “Neu“) cominciando la sua parabola discendente, Oldfield aveva pubblicato il suo capolavoro “Tubular Bells“, il prog trova il suo apice compositivo in “Lark’s Tongues In Aspic” mentre i New York Dolls, ora burattini nelle mani di Malcolm McLaren, ponevano le basi per un nuovo rock. A tutto questo i Pink Floyd non daranno nessun peso, isolandosi sempre di più nella loro bolla dorata.
C’è pochissimo da aggiungere su questo album leggendario, per chi ama il sound della band non può che ammettere che questo è il suo massimo raggiungimento (chi dice “Animals” e “The Wall” ha per me un’idea distorta del rock e dei Pink Floyd in particolare, ma ne parlerò meglio successivamente, se me ne ricordo). Ecco, l’unica postilla che metto è che, per quanto leggendario, questo sia un album del tutto inutile.
Mi sembra chiaro ormai quanto i Pink Floyd siano prima di tutto una macchina ingegneristica, la loro musica non ha né scopo né idee che non siano puramente estetiche. Le melodie cantabili che ti trascinano per mezz’ora, altro non sono che idee riciclate ma riproposte in Full HD (o in 4K se preferite), è il massimo raggiungimento per il soft rock, ma il minimo risultato artistico per la band.
Il 1974 servirà per raccogliere tutto il materiale necessario per “Wish You Were Here” e con quello che rimase ci fecero pure “Animals”.
“Wish You Were Here” esce nel 1975 e la miriade di interviste e biografie sulla band non lasciano scampo: se c’è un album che i Pink Floyd hanno amato quello è proprio “Wish You Were Here”.
Perché questo più degli altri?
Cos’ha Wish che gli altri album non hanno?
Wish si discosta dal resto per una sorta di bipolarismo intrinseco, da una parte il sentimentalismo, dall’altra una velenossima critica all’industria musicale.
Tutti noi conosciamo la genesi di Shine on You Crazy Diamond, ma perché perché il pezzo e diviso in due, apre e chiude l’album ed è così lungo? Questo genere di domande non sono superficiali, capire come un disco viene costruito può essere un punto di vista per comprenderlo rivelatore. Questo omaggio a Syd Barrett non è una ballad, ma un vero e proprio velo che copre l’intero album e il resto dei pezzi. Attorno ai Pink Floyd c’è sempre stato Barrett, in ogni momento, in ogni composizione, in ogni idea, lui era un diamante perfetto, un genio irraggiungibile, e loro lo sapevo bene. All’interno del velo ci sono le prime uscite del vero Waters. Shine on, con i suoi toni che vanno dallo space rock all’orfico e al solito soft rock, dipinge un vuoto esistenziale mille volte meglio di qualsiasi altro pezzo o album della band, sicuramente mille volte meglio di “The Wall” o di “The Final Cut”.
Welcome to the Machine è una prova dell’ipocrisia di Waters, che ancora esprimeva la propria insofferenza verso il genere umano prendendosela con l’industria musicale (coerente), ma come poi saprà bene esprimere con “The Wall” in realtà era il pubblico che lo amava a disgustarlo. Continua questo malessere in Have a Cigar, cantata dal Donovan dei poveri ovvero Roy Harper. Dietro una perfetta incastonatura ingegneristica c’è solo insofferenza medio-borghese, Waters utilizza il rock come mezzo per far vedere quanto lui sia bravo e quanto gli altri invece siano degli stronzi, non il massimo obiettivamente.
Wish You Where Here, anch’essa dedicata a Syd, è forte come non mai in quanto empatia. Un colosso del soft rock, conosciuta e cantata in tutto il mondo (come Yesterday e Mamma Mia).
Da notare quindi come se nell’intenzione della band di omaggiare un amico, e ancor prima un mito per tutti loro, la forza del rock ci propone delle liriche più profonde, un suono più “ampio”, un soft rock che ha qualcosa da comunicare, appena la palla torna a Waters si scade in una critica di basso livello, fatta di veleni e diatribe effimere.
“Wish You Were Here” è un grande album, ma è anche il primo passo verso la fine della band.
Ora i Pink Floyd fanno tour mondiali, i tempi si dilatano, la voglia di stare insieme diminuisce sempre di più, lo storico astio nella band si fa strada in modo inesorabile, e per produrre un disco assieme la forza trainante ormai sono solo i soldi.
Proprio in questo clima i Pink Floyd assemblano “Animals” (1977). Questo album semplicemente ripropone il materiale di scarto del disco precedente, infatti levando la vena “romantica” che pervade gli omaggi di Wish resta solo l’odio o l’ostentazione quasi ossessiva di questo.
Leggere “Animals” come un’opera di stampo orwelliana, o comunque semplicemente dispotica, è una visione distorta del messaggio completo che il disco, tramite Waters, ci comunica.
Waters maschera ancora una volta il suo odio verso l’umanità adesso non più contro l’industria musicale, ma contro l’industria in senso lato.
Peccato che le liriche siano elementari per quanto riguarda l’aspetto letterario, e che la musica sia un riciclare continuo di due o tre spunti interessanti. Taluni vendono in “Animals” un disco fortemente politico, peccato che sia una guerra contro tutto e tutti, piuttosto è un disco nichilista ma i concetti espressi sono banali e superficiali. Altri vedono in “Animals” un disco quasi d’avanguardia per alcune sonorità dark (considerazione incommentabile).
Musicalmente la prova compositiva dei Pink Floyd non propone nulla di strabiliante, l’ennesimo ottimo lavoro di Wright, una buona prova del resto della band, uno straziante quanto banalissimo Roger Waters.
Accumulando rabbia, odio e insofferenza verso il genere umano in tutta la tournée del ’77 Waters concepirà “The Wall”, la fine di un’idea di band, di un sound e di un pezzo di rock.
Ma prima di “The Wall” i membri della band, ormai allo sfascio totale, sfiancati da un disco che di soddisfazioni ne darà ben poche, cominciano a prodigarsi in progetti solisti. C’è il piatto e inconsistente “David Gilmour” (ma che sarà per lui una fonte di ispirazione per gli album successivi, il dovrebbe far riflettere) del 1978, che verrà seguito nel ‘84 da “About a Face” il quale sebbene le collaborazioni di spessore fa cagà, fino all’ultimo “On a Island” del 2006, probabilmente il miglior disco solista di Gilmour, perché il più modesto.
Sempre nel ’78 esce “Wet Dream” di Richard Wright, purtroppo niente di che, seguito da quell’aborto vestito da album di “Identity” (1984) e dal ben concepito “Broken China” (1996). Il 1984, data che vede l’uscita di due dischi solisti dei Pink Floyd, seguiti a ruota nel 1985 anche da Mason (di cui, lo ammetto, non ho mai ascoltato nulla da solista, ma dicono che non sia malvagio) sono ovviamente lo sfogo personale dei membri della band dopo il crollo verticale seguito dalla produzione di “The Final Cut”, l’ultimo album dei Pink Floyd sotto la tirannide perpetuata da Roger Waters.
Quando esce “The Wall”, ovvero nel 1979, i Pink Floyd erano ormai totalmente al di fuori della realtà musicale inglese. Se a Londra era già bello che scoppiato il punk, e da un anno buono eravamo agli albori della new wave, i Pink Floyd (ops! volevo dire: Roger Waters) decidono che è il momento giusto per un disco soft rock leggermente più hard pieno di singoli formato radio-tv. E poi si lamentano se li chiamano “dinosauri”.
“The Wall” è un lavoro auto-referenziale, un disco autistico, che non vuole avere niente a che fare col resto del mondo, rinnegando se possibile anche la sua umanità.
E difatti sconvolgente come il pubblico festeggi l’alzata di quell’enorme muro bianco che li separa dalla band, un’enorme vaffanculo galattico perpetuato da Waters nei confronti di un pubblico che odiava ma amava (ah, il potere dei soldi).
E da questa idea da perfetto stronzo ci tirerà fuori lo spettacolo più ipocrita, geniale, ed esteticamente favoloso della storia del rock.
“The Wall” è Roger Waters, peccato che i Pink Floyd siano scomparsi.
Fuori dal suo tempo Waters compone un’opera enorme su se stesso e la sua visione del mondo, seguita dai soliti testi che si alternano a momenti felici a momenti di una banalità sconvolgente. Se da una parte le doti di istrione di Waters vengono fuori con tormentoni alla Is There Anybody Out There?, o in ballad lacrimevoli come Mother, è impossibile non sorridere pensando che questo dovrebbe essere uno dei più grandi parolieri dei rock e poi sorbirsi Young Lust o Comfortably Numb. Credo che gente come Tom Waits meriti qualcosa in più, no? No? Ok. Pazienza.
Musicalmente non c’è una virgola fuori posto, se non che suoni vecchio oltremodo e superato sotto tutti i punti di vista.
Se fino a “Wish You Were Here” il fatto che la musica rock progrediva mentre i Pink Floyd restavano gli stessi ci poteva anche stare, data la ricerca ossessiva di Waters di far cassa su un sound ben preciso (che li ha resi una delle band più particolari della storia e anche tra le più inimitabili), una volta uscito fuori dallo schemino pre-costruito ecco che esce un album che, non mi sento un’idiota a dirlo: può piacere solo ad un fanatico masochista. Come me, per l’appunto.
Sul film non mi pronuncio, scandaloso tecnicamente, il peggior Alan Parker di sempre.
Imbastardito e senza più vergogna Waters (accompagnato da Gilmour, suo nemico, ma pecora nella vita com’è risaputo) fa uscire un best of nel 1981 dal nome esplicativo; “A Collection of Great Dance Songs”. Eh beh.
Contenente pezzi addirittura re-mixati (non ricordo quali di preciso, e ‘sti cazzi che me lo riascolto) propone One of These Days, Sheep, Money, Shine On You Crazy Diamond, Wish You Were Here e Another Brick in the Wall. Ecco dunque cosa rimaneva dei Pink Floyd, diventati macchietta di se stessi, mostrandoci quello che nella loro discografia si riconduce ad una forma commerciale del rock, svelando dunque che dietro la freddezza di certe composizione c’è proprio una idea di rock lontanissima dal suo furore originario, che non deve per forza esprimersi con rabbia e violenza, ma che comunque qualcosa deve esprimere, cosa che i Pink Floyd si sono palesemente dimenticati, forse già da “Ummagumma” in poi.
D’ora in avanti sarà un gioco al massacro.
Piacevole “The Final Cut”, un disco discreto, ma che se contestualizzato storicamente (siamo nel 1983) si salva solo per l’ottima ingegneria del suono (un’orgia di soluzioni pazzesche che valgono l’acquisto) e basta. Interessante per i fan, indecente per il resto del pianeta. Giustamente, direi.
Concluso ormai il “fattore Pink Floyd”, a causa dell’implosione mentale di colui che l’aveva creato, il gruppo si scioglie e partono le esperienze soliste.
Abbiamo già visto sinteticamente quelle di Gilmour, Wright e Mason (ok, di lui no, ma vabbè, si rimedierà), ora prendiamo in considerazione Waters, a bocce ferme dal 1970. Ed eccolo nel 1984 con “The Pros and Cons of Hitch Hiking” (venti euro buttati nel cesso), seguito da “When the Wind Blows” del 1986, una colonna sonora di non so cosa che ancora non ho mai comprato, e che credo un giorno comprerò (perché sono marcio dentro), e si giunge al 1987 col più famoso disco solista di Waters ovvero “Radio K.A.O.S.”. Tornano le tematiche nichiliste di “Animals” e la musica è di un piattume devastante.
Dopo una serie di album in cui ripropone “The Wall” in tutte le salse (che poi è un po’ come avere un blog dove si postano solamente foto della propria fava), fa uscire anche “Amuse to Death” (1992) un album dimenticato da tutti, eppure il migliore di Waters dopo “The Final Cut”. Conclude lo scempio con “Ça ira” (2005), discreta prova compositiva senza motivo di esistere.
Ed eccoci dunque alla merda, eccoci quindi ai miei soliti toni incazzosi quando mi ritrovo davanti album che meriterebbero la gogna mediatica ed invece vengono ancora salvati da quella schiera di fanatici folli che credono che il loro idolo caghi oro e pisci acqua minerale.
Nel 1987 David Gilmour si rende conto che pubblicare album con la sua faccia non rende poi così tanto, nemmeno se ci piazzava a caratteri cubitali “DAL CHITARRISTA DEGLI STRA-MITICI PINK FLOYD DI ‘STO CAZZO” vendeva quanto gli serviva per appagare il suo ego, ormai libero dalla presenza sodomizzante di Waters.
E infatti ecco arrivare “A Momentary Lapse Of Reason” (del 1987) ovvero la sagra delle banalità, non a caso sarà un successo mondiale e il tour che ne seguirà viene tutt’ora ricordato come il più seguito dei Pink Floyd (testimoniato dal celebre “Delicate Sound of Thunder”, doppio live del 1989). Gilmour incapace di portare avanti il lavoro da solo si farà seguire da compositori esterni, il disco è indecente, ma tanto ormai siamo già verso gli anni ’90, la gente và a vedere qualsiasi merda sia riconosciuta come “fighissima”. Non si spiegano sennò i dati di vendita degli ultimi album di AC/DC e Stooges, o di band mediocri come Strokes e Foxygen.
Nel 1992 si apre per la band una piccola parentesi cinematografica che non si discosta in termini tecnici dalle precedenti prese in considerazione, ovvero il quasi sconosciuto “La Carrera Panamericana”, un bruttissimo documentario su una famosa gara automobilistica che si svolge in Messico a cui parteciparono per l’occasione anche Gilmour e Mason.
A concludere la storia di questa band ci pensa “The Division Bell” (1994), che quanto meno recupera una certa unitarietà sonora, oltre a contenere qualche momento “felice”, come in Wearing the Inside Out di Wright, un gioiello di soft rock, l’interessante Marooned, e l’ultima e celebre hit dei Pink Floyd, ovvero High Hopes, il quale almeno è un pezzo elaborato bene e con un assolo finale degno di Comfortably Numb.
Ormai leggende viventi i Pink Floyd possono anche cagare sul palco, fanno sold-out a prescindere. Anch’io da perfetto coglione ogni volta che Gilmour o Waters hanno fatto visita al nostro paese me li vado a vedere spendendo cifre eticamente ignobili, e a volte anche per più date nello stesso tour.
Il più attivo resta Gilmour, nel 2006 esce come abbiamo già detto il suo miglior lavoro solista, esattamente un anno dopo la mitica riunione della band con Waters per il Live 8. La melensa On a Island che dà il nome al disco ci propone un’idea generale del prodotto di Gilmour, favoloso dal punto di vista degli equilibri, del sound e della solita ingegneria del suono stratosferica (anche se oggi è un po’ più facile che nel ’75) ma senza sostanza. Rimandi addirittura a “The Wall” la creatura di Waters (Take a Breath), un blues acustico di qualità con This Heaven, e poi tanta roba inutile perlopiù. Un disco totalmente fine a se stesso, fosse stato fatto da un signor nessuno poteva anche interessare per un certo tipo di sonorità, peccato che quel tipo di sonorità c’è dal 1970. Cazzo.
Semplicemente una fregatura “Metallic Spheres” (2010) con i The Orb.
Ora i Pink Floyd sono un marchio prima ancora che una band, un simbolo, e per alcuni addirittura una band underground o di musica alternativa se vogliamo, quando invece sono stati una della band più esplicitamente commerciali della storia.
È un male? Io non credo, però trovo quanto meno strano che qualcuno ancora ci si batta per definire i Pink Floyd come una band sperimentale o addirittura fuori dagli schemi. Uno schema c’è l’avevano, e dal 1970 fino a “The Wall” l’hanno mantenuto con una costanza asfissiante, il che non è certo segno di una qualche forma di genialità creativa, ma di una mentalità da spietato marketing.
Un lavoro storico come “The Piper at the Gates of Dawn” non lo ripeteranno mai più. La svolta per il rock derivata da questo album è stata tra le più profonde mai legate ad un singolo lavoro, le sue idee melodiche, timbriche e compositive hanno influenzato tantissimi album successivi, e ancora oggi se ne percepisce l’ascendenza su tante scene europee o oltreoceano (tutta la scena californiana contemporanea, tanto per dirne una). Un discorso diverso va fatto per “The Dark Side of the Moon”, campione in fatto di vendite e porrà dei nuovi standard per la qualità del suono, ma sono solo questi i suoi meriti. Invece “The Wall” è un disco rock ben scritto, ben ideato e con un messaggio molto forte (“siete tutti brutti e cattivi e avete trattato me [Roger Waters] come una fottuta merdina!”) ma sopratutto è un’incredibile show live, il più memorabile della intera storia del rock dopo quelli di Woodstock..
Beh, basta così, so che ho saltato migliaia e migliaia di cose e avrò cannato qualche data e qualche nome, però chissene, ora sono stanco e vado a letto.
Alla prossima.
Pink Floyd, la discografia (parte seconda)
[questo post è preceduto da questo]
Ritorniamo nel 1969 con “More”, un’opera interessante ma quanto mai sopravvalutata. In sé l’album contiene della buona musica, non un vero e proprio passo avanti per i Pink Floyd, ancora alla ricerca di una vena creativa che esploderà l’anno successivo, però c’è un qualcosa che inficia pesantemente su questo album come su “Obscured by Clouds” del ’72: questi due album erano pensati in teoria per essere colonne sonore.
Fare musica per film è una cosa seria. La musica dev’essere non solo accompagnamento, ma deve rientrare nel progetto filmografico ed essere una parte narrante attiva. Per quanto Moroder sia bravo (ehm) la colonna sonora rifatta di “Metropolis” è uno scempio mai visto, aggiunge parole, concetti e suoni del tutto estranei all’opera di Lang, distorcendone inevitabilmente la visione. Al contrario la semplice The End di Jim Morrison, che Francis Ford Coppola ha voluto per il suo “Apocalypse Now”, funge come un coro greco donando profondità al personaggio e ci aiuta a comprendere meglio la poetica e il messaggio che sta dietro al film. Per non parlare di lavori ben più raffinati dove la musica è ancora più importante dell’immagine per comprendere lo sviluppo della narrazione come in “Trois coleurs: Bleu” di Kieślowski, oppure nei film del grandissimo Sergio Leone musicati da Ennio Morricone, dove il regista (un totale ignorante in fatto musicale) per ideare una scena partiva quasi sempre dalle note di Morricone, costruendo il montaggio in sincrono con esse.
Quello che invece fa Schroeder (il regista di “More” (1969) e di “La Vallée” (1972) musicati dai due album sopra detti dei Pink Floyd) è un’operazione di tragico copia-incolla, prendendo i pezzi composti dai Pink Floyd e incollandoli nei suoi film raramente con criterio. “More” per i primi ’50 minuti sembra un film di propaganda per le droghe (ma per fortuna non è così), e la musica è messa lì senza un vero perché, già con “La Vallée” ci sono dei riferimenti ben precisi tra musica e trama, ma il lavoro di sovrapposizione delle tracce in alcuni momenti del film è abbastanza casuale, o comunque non riesce mai appieno.
Nel ’70 ci provano addirittura con il genio Antonioni, l’album si chiama come il film: “Zabriskie Point”; una prova leggermente migliore come incastonatura cinematografica, anche se quasi tutte le proposte musicali dei vari artisti impegnati col film non furono molto apprezzate da Antonioni (i Floyd parteciperanno con tre pezzi, di cui due originali, ma inizialmente dovevano occuparsi dell’intera colonna sonora). Da ascoltare Come In #51, probabilmente la miglior versione esistente di Careful with That Axe, Eugene.
Presi come album “More” e “Obscured by Clouds” hanno i loro pregi e i loro difetti, e per quanto mi riguarda sono entrambi dischi più che dignitosi (anche Clouds, che a livello di composizione è banale, ma il suo dialogo con l’azione filmica è migliore di “More”), ma come musica per film fanno proprio pena.
Il 25 ottobre del 1969 esce “Ummagumma”, assieme al celebre bootleg in Belgio con Frank Zappa. “Ummagumma” è un doppio, in bilico tra la sperimentazione e nostalgia.
La nostalgia si esprime con il primo disco, una live, dove i Floyd ripercorrono la loro breve storia: dalla psichedelica cosmica di Astronomy Domine al pandemonio controllato di A Saucerful of Secrets (sonorità che saranno riproposte nel celebre “Pink Floyd: Live at Pompeii” del ’72).
Il secondo disco è certamente il più interessante (ma non necessariamente il migliore). Ci tengo a far notare come nessun membro dei Pink Floyd dirà mai di esser stato soddisfatto dal proprio lavoro in questo album, rinnegato da quattro quarti della band. Proprio per questo “Ummagumma” risulta essere il miglior album dei Floyd del post-Barrett fino al ’70, la libertà creativa, i problemi, le pressioni, le angosce e le diverse personalità vengono fuori con prepotenza, un disco autentico e che denuda i singoli membri e li mostra in tutti loro difetti. Con Sysyphus Wright mostra intanto di essere quello con le basi musicali più solide, e come per i Velvet Underground e gran parte dei movimenti d’avanguardia conosce bene John Cage e i suoi insegnamenti. Con un sound angoscioso e forzato Sysyphus resta la prova di maggior spessore dell’album. Grantchester Meadows e Several Species Of Small Furry Animals Gathered Together In A Cave And Grooving With A Pict sono due uscite di Waters molto divertenti quanto fini a stesse. Non ha intenti “alti” il buon Waters, e forse con queste due composizioni sembra quasi beffarsi un po’ del resto della band, quando in realtà come confermerà negli album successivi non si discosterà poi così tanto da questa idea goliardica di sperimentazione.
The Narrow Way è un’occasione per David Gilmour di dimostrare di possedere una qualche dote compositiva. Alla fine non và oltre il compitino, ma le atmosfere si collegano comunque all’irrequietezza che aleggiava nella band e quindi nel mood nell’album stesso. Si conclude il giro con The Grand Vizier’s Garden Party di Mason, il più onirico dei quattro. Virtuosismo (non incredibile) senza direzione. Anche nel loro volto più sperimentale i Pink Floyd deficitano però di narrazione musicale. Meglio se mi spiego, però.
Album ormai conosciutissimi come “Parable Of Arable Land” (1967) dei Red Crayola hanno nella loro dimensione caotica un sottoinsieme narrativo piuttosto forte. Il disco è un passaggio ipotetico da “Junkie” (1953) il romanzo di Burroughs (edito in Italia con il titolo “La scimmia sulla schiena”) al free-jazz più spinto, frutto di una esperienza (la droga) che viene narrata tramite il caos più inascoltabile. La narrazione in un disco sperimentale può essere la chiave di lettura più affascinante e funzionale, che permette all’ascoltatore di non limitarsi ad un ascolto attivo ma meramente tecnico, quanto ad una immersione diversa dal solito nell’ambiente sonoro, fatta di stimoli e impressioni che devono essere colti dalla nostra personale sensibilità. In questo senso non si discosta nemmeno così tanto un album come “From The Caves Of The Iron Mountain” di Steve Gorn, Jerry Marotta e Tony Levin , un viaggio straordinario in queste meravigliose montagne che ha nei suoi ambienti sonori dei rimandi narrativi piuttosto espliciti (il suono dei passi, per esempio).
“Ummagumma” è un dunque un ottimo sunto dei Pink Floyd nel momento di passaggio tra Barrett e Waters.
Prima di passare ad “Atom Heart Mother” soffermiamoci un attimo su Roger Waters, in particolare con il suo primo album solista per il film “The Body” (“Music From “The Body””) del 1970. In realtà l’idea e la composizione di questo album, per alcuni sperimentale (per me un passatempo, oppure una sorta di musica descrittiva morbosamente realista), è di Ron Geesin, lo stesso che comporrà per i Floyd la mastodontica suite di Atom, autore assolutamente marginale, celebre per una continua spettacolarizzazione di esperimenti musicali di nessun valore. La sperimentazione per Waters è un qualcosa di leggero, divertente ma non troppo irriverente, difatti Waters non vuole essere un profeta della musica rock, piuttosto ha quella spinta nell’invenzione a tutti i costi di matrice infantile (perché non porta a nulla, non perché sia scritta male).
L’idea di un suono sperimentale commerciabile nasce proprio con i Pink Floyd (anche se ha i suoi precedenti nella Tobacco Road dei Blues Magoos e in “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”, con la sostanziale differenza che per i Floyd divenne un marchio di fabbrica) ma nasce in primis da Waters, che già con i suoi interventi in “Ummagumma” riesce a utilizzare il linguaggio della sperimentazione in chiave incredibilmente soft-rock.
“Atom Heart Mother” era essenzialmente il “o la va o la spacca” della band, orfana definitivamente di Barrett e senza le sue idee così appetibili al mercato dovevano per forza di cose concludere qualcosa. Grazie a Geesin riusciranno a donare alle impressioni inizialmente confuse dei singoli membri una unitarietà inaspettata (di questa esperienza faranno tesoro fino a “The Wall”, per poi dimenticarla senza un motivo preciso).
Il primo lato di “Atom Heart Mother” è occupato dalla suite composta da Geesin (il quale non vedrà mai il suo nome stampato sull’album, anche se da qualche anno i legali hanno rimediato a questa “svista”) che mescola senza timore sperimentazione (Red Crayola, Magma) al blues e al prog rock. Probabilmente la suite più divertente della storia del rock assieme a Echoes (di cui parleremo dopo). Difficilmente il rock meno impegnato riuscirà a sfornare musica di questo livello, non ci sono dubbi: per quanto riguarda il soft rock commerciale i Pink Floyd di Waters sono il meglio a disposizione, e questa suite lo certifica. Il lato B propone quattro tracce, la prima minimalista e in bilico tra l’intellettuale e l’effimero, ovvero If di Waters, la bella e nostalgica Summer ’68 di Wright (che conferma la sua statura compositiva nei confronti di Waters, genio sregolato senza direzione fino al ’79), seguita dalla ottima Fat Old Sun di Gilmour, ancora oggi un suo cavallo di battaglia nelle live, una delle sue poche composizioni degne di nota. Conclude la carrellata Alan’s Psychedelic Breakfast, composta da tutti i membri della band e che trova la sua definitiva consacrazione nel leggendario bootleg “A Psychedelic Night” sempre del 1970.
Poco prima dell’uscita di questo album, come detto “o la va o la spacca” (e andò assai bene, sbancando anche in U.S.A.) uscì anche la prima raccolta dei Pink Floyd, che non è “Relics” la quale uscirà l’anno successivo, ma bensì “The Best of Pink Floyd” meglio conosciuto nelle recenti ristampe come “Master of Rock”. Questo disco è un vero e proprio spaccato della band nel periodo più critico, ovvero il passaggio di consegne da Barrett a Waters, e ci propone tutti pezzi o coevi e precedenti a “The Piper at the Gates of Dawn”, quasi una bocciatura ufficiale di quanto fatto oltre quel primo leggendario album!
Ripresi dalla botta di soldi arrivati con “Atom Heart Mother” (i quali aiutano sempre a ritrovare una certa autostima) nel 1971 pubblicheranno il ben più famoso”Relics” (la copertina originale era un disegno di un fantasioso strumento musicale, quella odierna rappresenta lo stesso strumento ricostruito da Storm Thorgerson e poi regalato a Mason, autore del disegno originale), il best of anche stavolta prende molto da Piper, ma spuntano fuori singoli dagli album successivi: i Pink Floyd stanno finalmente superando la sudditanza dal genio di Barrett.
Poco prima di “Relics” viene fatto uscire “Meddle” (sempre nel 1971), un disco che ho amato profondamente, di certo uno di quelli che ho ascoltato di più da adolescente, ma che negli ultimi anni ho dovuto ridimensionare non poco (questo non toglie il piacere dell’ascolto, sia chiaro).
Difatti il buon “Meddle” è la più grande presa per il culo mai sentita nel rock (ok, non la più grande, però ci voleva una cosa d’effetto se no qua ci s’addormenta). Non per la musica, che è tutt’altro che scarsa o mal suonata o cazzi e mazzi. Ancora una volta il lavoro di ingegneria del suono è impressionate (non lo abbiamo detto di Atom, ma è un discorso trasversale che d’ora in poi vale per tutti gli album dei Floyd che prenderemo in considerazione), ci sono pezzi che sono nella leggenda, ma il concetto dietro l’album e la sua composizione ne sviliscono non poco il prodotto finale.
“Meddle” è il copia-incolla di Atom, non solo per struttura del disco in sé (un lato per la suite e l’altro per i pezzi singoli) che va bene, ci mancherebbe, è una libertà indiscutibile e che non toglie né dona valore ad un album, ma per il copia-incolla della struttura della suite (con pochissime variazioni in generale), e poi per l’aver trovato delle sonorità che “funzionano” e averle riproposte tali e quali senza alcun tentativo di migliorare il prodotto musicale finale.
I Pink Floyd, leggasi anche come “Roger Waters e i suoi fantastici amici”, hanno trovato la formula magica per fare della musica tutta uguale ma vendibile come unica. Il sound particolare e inimitabile e la cura certosina dal punto di vista ingegneristico sono da una parte una sicurezza per i fan (vedi me, che adoro il disco in questione) ma certamente non sono un pregio per chi vuole avvicinarsi ai Pink Floyd con ormai una certa cultura rock appresa negli anni.
C’è poco di sincero e di autentico in “Meddle”, lo studio freddo e distante della band fa poco rock, ma piuttosto pop o soft-rock da masturbazione emo-tiva. Che poi tutto questo sia filtrato dal Rock e dalla sperimentazione non cambia il risultato finale. La critica sociale nei Floyd praticamente non esiste, e la capacità liriche di Waters, oggi innalzato come uno dei più grandi parolieri del rock, sono in realtà assi povere di contenuti e sopratutto a livello letterario (ovvero a quello che le compete, nulla più, nulla meno) sono piuttosto mediocri. Quello che resta alla fine è un sound.
Stavolta il lato A ci presenta i singoli e il B la suite. One of These Days già contiene in in potenza qualcosa di “The Dark Side of the Moon” ed è uno pezzi più riusciti nella carriera dei Pink Floyd. Poi c’è Fearless tra le migliori collaborazioni made in Waters/Gilmour a mio modesto avviso, semplice ma intensa, favolosa l’intuizione di Waters di inserire il You’ll Never Walk Alone (anche se, se non ricordo male, il sample usato da Waters deriva da un collage di un altro musicista, ma non mi sovviene alcun nome, inoltre questo post lo sto scrivendo a braccio in piena notte, dunque abbiate pazienza per queste dimenticanze o imprecisioni del cazzo!) famosissimo coro dei tifosi del Liverpool. Si chiude con San Tropez e Seamus, un lato A di un pop raffinato ma sopratutto, non mi stancherò mai di ricordarlo, straordinario per l’ingegneria del suono. Si è persa quasi totalmente la vena psichedelica.
Echoes è una sintesi perfetta del sound dei Pink Floyd, copiando quanto fatto con Geesin (rivelatosi un spunto di fondamentale importanza per la loro carriera a venire, e ringraziato a suon di patate) riescono condurci in un viaggio immaginifico, costruito con sapienza ma anche con una certa dose di freddezza. Resta un pilastro della composizione del soft rock, ben poca roba nel prog che vedeva i King Crimson sfoderare in due anni “Lizard” e “Island” (preparandosi all’apice compositivo di “Lark’s Tongues In Aspic” del ’73) e i Soft Machine robetta come “Volume Two” e “Third”. I paragoni con la scena progressive ormai non reggono più, ma i Pink Floyd sono già un prodotto a sé stante, proprio come voleva Waters.
Divertente il “caso” italiano di Paolo Ferrara e del suo “Profondità”, un album che creò qualche diatriba anni fa a causa di alcune assonanze con i pezzi dei Pink Floyd, se non addirittura dei veri e propri plagi. Secondo qualcuno la band di Waters avrebbe copiato molte idee da questo disco di Ferrara per poi inserirle in album come “Meddle” ma anche in “The Dark Side of the Moon” e “Wish You Were Here”. Vi invito all’ascolto delle tracce facilmente reperibili su YouTube, capirete da voi come le sonorità siano ben oltre la data suggerita da Ferrara (1972, secondo l’esimio), ma resta comunque un album piacevole e per niente scontato. Un caso simpatico, nulla più.
Nel ’72 esce “Obscured by Clouds”, sul quale direi di aver speso il giusto numero di righe. Ma nel 1972 esce anche il meno conosciuto “Pink Floyd – Zürich 1972”, con una bellissima versione di Childhood’s end da Obscured, che merita l’ascolto per quanto mi riguarda.
Pink Floyd, la discografia (parte prima)
Questo speciale sulla discografia dei Pink Floyd [diviso in tre parti, questa, quella e quell’altra] lo faccio per allontanarmi ufficialmente da due categorie di pensiero sulla band:
- la prima è quella per cui “The Piper at the Gates of Dawn” è l’unico disco decente della loro discografia, per me non è così, anche se lo ritengo il migliore (tranquilli, spiego anche il perché);
- la seconda categoria è quella per la quale qualsiasi cosa abbiano prodotto i Pink Floyd, dagli album alle raccolte, dai singoli ritrovati ai bootleg, fino ai dischi solisti dei componenti della band è oro colato, dannato oro colato. O comunque meglio di tanta altra roba a-prescindere;
I Pink Floyd sono stati la terza band rock che ho conosciuto, subito dopo Genesis e Led Zeppelin, non c’è dubbio che esista un legame affettivo tra me e il gruppo, non lo nego né tanto meno cercherò di negarlo proponendovi una visione oggettiva della loro discografia, le mie opinioni sugli album sono un miscuglio che va dall’ascolto giovanile e passivo fino alla riflessione storico-contestuale, senza dilungarsi troppo e senza alcun punto di riferimento se non la mia esperienza.
Non parlo quasi mai delle band fuori dal contesto degli album prodotti, non mi interessa, ho letto biografie di molti gruppi e anche dei Pink Floyd, ma non le ritengo quasi mai rilevanti a meno che non ci sia una diretta correlazione tra il prodotto finale e la percezione dell’ascoltatore (badate bene: non dell’autore ma dell’ascoltatore).
Possiamo cominciare?
Bene.
Piuttosto celebri i primi passi dei Floyd, spesso ci si dimentica come la band non soffrì mai così tanto la fame come qualcuno dice, infatti già con i primi singoli da Arnold Lane/Candy and Currant Bun fino anche ai meno celebri Apple and Oranges e Julia Dream riscuoteranno subito un buon successo. Il pubblico che accoglierà i Pink Floyd di stampo fortemente “barrettiano” è un pubblico ormai ben allenato alla psichedelia (quasi sempre legata al garage almeno in America), in fondo anche Fresh Garbage degli Spirit era un hit, i ragazzi ascoltavano i The Leaves, i Canned Heat, il grandissimo Tim Buckley, i The Move, i Jefferson Airplane e duemila altre band che non mi metto qui a elencare.
Quindi il sound dei Floyd non era ostico per niente alle orecchie europee e statunitensi, in particolare per essere una band psichedelica i Pink Floyd non tratteranno mai male l’ascoltatore e quasi mai lo porteranno ai limiti della sopportazione, anche nelle sperimentazioni più “estreme” i Pink Floyd resteranno sempre ben aggrappati a dei canoni estetici e comunicativi universali.
La forza carismatica di Barrett dettava legge nella band, la sua creatività esplosiva lo poneva inevitabilmente al di sopra degli altri membri. Probabilmente Syd Barrett è stato uno dei musicisti più influenti di tutta la storia del rock, e la portata di questa influenza non è ancora stata ancora stimata con precisione.
Anche singoli come It Would Be So Nice di Richard Wright soffrono fortemente l’ascendente musicale di Barrett, si salva proprio il b-side di questo singolo, ovvero Julia Dream di Roger Waters, non così tanto forse, ma di certo se c’era una personalità che voleva spiccare nella composizione di singoli appetibili (non facendo carta carbone di Barrett) quello era Waters.
I Floyd si fanno strada nei locali più “in” del momento, la psichedelia in quegli anni sta già perdendo la sua carica rivoluzionaria iniziale per diventare un divertissement per la medio-borghesia, la gente leggeva Burroughs, Kerouac e Bukowski, ma pochi ne assimilavano il contenuto, stava nascendo una moda.
Nel 1967 esce “The Piper at the Gates of Dawn”, con molta probabilità il più grande album psichedelico di tutti i tempi, e anche quello che ne decretò la fine come genere (nella sua accezione classica, of course), inoltre è uno degli album più seminali di sempre e che ancora oggi ha delle influenze gigantesche (Thee Oh Sees, White Fence, Jacco Gardner, Jeffrey Novak, solo per citarne alcuni dei giorni nostri).
Piper è una raccolta incredibile di idee e intenzioni, da una parte Barrett che vorrebbe diventare come Jimi Hendrix, dall’altra lo stesso Barrett che al massimo è l’incubo folle di Jimi (mettete in confronto Interstellar Overdrive a Uranus Rock, Syd è chiaramente contemplativo e introspettivo, Jimi estroverso e manierista). Distorto, confuso, allegro e irriverente, sono pochi gli aggettivi che sfuggono alla penna del critico quando si ritrova di fronte ad un disco così complesso quanto elementare, così importante quanto incompreso.
Qui c’è la sintesi di tutto il movimento psichedelico, diluito in brevi pillole appetibili (anche commercialmente) dalla fulgida e insana mente di Syd Barrett. Il resto della band fa da comparsa se eliminiamo Take Up Thy Stethoscope and Walk, il singolo di Waters che musicalmente però non si discosta dal sound imposto da Barrett (e intavola già dal 1967 quel personaggio che Waters si porterà dietro di critico dell’umanità, impegnato a discostare l’uomo dalla scimmia, un ruolo che, a parer mio, non riuscirà mai a interpretare in modo credibile).
Astronomy Domine, l’attacco di Lucifer Sam (geniale la recente cover dei MGMT), il riff di Interstellar Overdrive, lo scampanellio delle biciclette di Bike (splendidamente coverizzata nel secondo album di Ty Segall), tutto in Piper è passato alla leggenda. L’unico brano ereditato dai singoli è The Scarecrow (uscito quello stesso anno assieme alla celebre See Emily Play) per il resto Barrett dimostra la sua infinita capacità creativa, un genio incredibile.
Peccato che Barrett decise di bruciarsi il cervello, dimostrando ancora una volta che anche un genio può essere un perfetto idiota. In fondo anche un visionario come Kubrick disse che Spielberg è un grande regista, e lo disse da sobrio, dunque a posteriori possiamo dire che al buon Barrett non è andata poi così male.
Il successo di singoli come Interstellar Overdrive inizieranno i Floyd ad una carriera non proprio qualitativamente altissima nel cinema (diciamo pure merdosa, dai). La traccia sarà difatti utilizzata per “Tonite Lets All Make Love In London” di Peter Whitehead, un regista mediocre noto soltanto per aver registrato molte band rock agli esordi, lo si ricorda perlopiù per il precedente “London ’66–67” che raccoglie due registrazioni dei Pink Floyd e qualche intervista. Secondo Wikipedia Whitehead è considerabile come un precursore del video-clip, ma è solo una delle tante voci imbarazzanti di Wikipedia, nulla più.
Nessun album dei Pink Floyd intaccherà in modo così profondo la musica rock, per quanto le vendite siano propense a farci credere che con “The Dark Side Of The Moon” e “The Wall” i Floyd abbiano espresso il loro meglio, il che non è improbabile almeno se consideriamo l’uscita di Barrett e l’inevitabile avvicendamento di Waters come la creazione di un’altra band diversa dalla prima, Piper è una pietra miliare che la musicologia deve prendere in considerazione in modo più serio e analitico, un monumento dalle proporzioni colossali.
L’attività dei Floyd tra il ’67 e il ’69 è frenetica, il che quasi sempre presuppone un notevole calo della qualità, eppure questi tizi riusciranno a produrre comunque qualcosa di interessante.
Senza il genio folle di Barrett i Floyd rischiano seriamente di diventare una copia edulcorata di Arthur Brown o dei The Move, ma si salvano grazie ad una serie di scelte dettate dal caso e dal cinismo di Waters.
Gilmour arriva per rattoppare i vuoti lasciati da Syd e porta un sound nella chitarra che pian piano verrà fuori e resterà nell’immaginario collettivo fino ad oggi. Una tecnica pulita, un suono sempre riconoscibile. Peccato che non valga un laccio di Barrett in quanto composizione, non è un caso se con l’insuccesso di Point Me at the Sky Waters deciderà conclusa l’esperienza dei singoli (sapendo bene di non poter più contare sulle idee geniali ma appetibili commercialmente di Barrett) e si concentrerà sugli album e sul donare un sound ben preciso alla band. Il suo.
Nel ’68 ci riprovano con il cinema, scrivendo qualche pezzo mediocre per il tragico “The Committee”, una merda allucinante del prode Peter Sykes, conosciuto dagli studenti del DAMS e dai nerd per aver dato vita al mitico serial “The Avengers”, un divertente serial inglese che seguiva la moda cinematografica del momento delle spy-story e si basava sui feuilleton a tinte poliziesche e pieni di figa.
Dopo questa indecente prova si rifaranno con “A Saucerful of Secrets”.
Il disco è una pietra miliare della band, un po’ meno del rock. Perché dico questo? Waters prende le redini della band e la trasporta verso dei lidi pericolosi, dalla psichedelia di stampo garage si passa al prog inglese, ma sopratutto mette giù le basi per un sound talmente particolare da essere unico.
Se da una parte il sound inimitabile dei Floyd è una caratteristica che esalta i fan, dall’altra rende inattaccabili i suoi detrattori, i quali quelle sonorità proprio non riescono a mandarle giù. Forse il problema dei Pink Floyd di Roger Waters è quel lavoro da equilibrista che non porterà mai la band alla sperimentazione estrema come invece poteva sembrare con “A Saucerful of Secrets” e con “Ummagumma” dell’anno successivo, e neanche ad un tentativo di fare genere (tranne che per il caso “The Wall”).
Quindi sebbene Saucerful non sia una pietra miliare del rock (per quanto riguarda la composizione e la portata innovativa – che è di fatto nulla) è un disco abbastanza della Madonna. Bisogna chiaramente apprezzare il sound della band, ma questo vale per tutti i gruppi con un sound così “personale”, unito al fatto di avere a cuore il prog.
Saucerful è dannatamente prog, un prog che si muove in termini quasi mai seri o puramente tecnici, ci sono molti rimandi ancora alla psichedelia americana, e Barrett incombe sulla band come un fantasma che li tiene tutti per le palle (Jugband Blues). Per quanto mi piaccia questo album alla lunga stanca, spesso le idee buone vengono ripetute fino alla nausea, ma alcuni spunti sono indimenticabili.
L’atmosfera generale dell’album si percepisce da due tracce potenti e epiche sotto molti aspetti: Let There Be More Light e Set the control for the Heart of the Sun. Riff ripetuti all’infinito aleggiano nell’aria e scandiscono il tempo come in un rituale sacro, nel mezzo un mucchio di idee non sempre attinenti, ma ben costruite e sopratutto ben realizzate dal punto di vista dell’ingegneria del suono.
Ed ecco quindi comparire fin da subito un altro caposaldo che caratterizzerà la band in tutti i suoi album successivi, e in particolar modo da “Atom Heart Mother” in poi, ovvero la cura maniacale del suono dal punto di vista prettamente ingegneristico. Una carta che i Floyd sapranno giocare bene sempre dal 1970 in poi.
Detto questo Saucerful è stato molto rivalutato recentemente come album, forse anche troppo, in particolare considerando il brio del primo album, qui del tutto sparito.
Nel ’69 Barrett si ripresenta con l’uscita del singolo Octopus/Golden Hair, un prologo di quel che sarà “The Madcap Laughs”, il suo primo album solista del 1970.
Di “The Madcap Laughs” ci sarebbe molto da dire, ma se mi prolungassi per ogni album sarebbe un post ancora più tremendo di quanto già è. Delle sessioni di registrazione di questo incredibile disco si è parlato fin troppo, tanti ancora però non ascoltano con attenzione questo lavoro, come anche il successivo “Barrett” uscito qualche mese dopo (e con qualche acciacco in più).
Dalle leggende che lessi su quelle sessioni notai perlopiù due cose: la fragile e inconsistente personalità di Gilmour, quasi intimorito da Barrett, e la totale follia di Wyatt nel vedere in Barrett qualcosa che in realtà non c’era già più.
Il disco è ovviamente geniale, ben diverso dalle sonorità di Piper, maturato non direi, piuttosto Barrett si è dato ad altro continuando a sfornare singoli straordinari per ecletticità e commerciabilità (Terrapin, Love You, Here I Go, Octopus, Long Gone, She Took A Long Cold Look). Quello che si evince accostando il Barrett del dopo-Piper e il resto dei Floyd è che sebbene nella totale pazzia che stava divorando Syd in quegli anni era lui quello ad avere le idee chiare, al contrario del resto della band, la quale era alla disperata ricerca di singoli “alla Barrett”. Sarà la progressiva presa di posizione di Waters a salvare i Pink Floyd da un lento ma chiarissimo declino (almeno per i critici e per gli ascoltatori dell’epoca). Per lui sarà facile superare la passività di Gilmour, la timidezza di Wright e l’indifferenza di Mason per poter imporre la sua idea su cosa dovessero essere i Pink Floyd.
Le sonorità di Madcap derivano da tutto quello che Barrett ascoltava, dai Nice ai Soft Machine, ma sintetizzato dalla sua personalissima visione. Wyatt vedeva in Barrett un genio avveniristico, cosa che Barrett è stato finché la droga non gli ha bruciato il cervello. Ora era solo un genio sregolato, ma che da solo, senza cioè l’aiuto di altri musicisti e di amici, non avrebbe potuto fare molto.
“Barrett” è l’ennesima (e ultima) prova di quanto detto: un genio unico, un fenomeno irripetibile, ma la sua portata è stata irrimediabilmente bruciata da una emotività prepotente che lo rese troppo fragile per questo mondo.
Lontano dalla pochezza della critica sociale di Waters (nulla in confronto ad altri musicisti coevi del bassista dei Pink Floyd), Barrett viveva in un mondo tutto suo, magnifico e terribile, fantasioso quanto tragicamente reale.
Quando a Lucca, al Summer Festival del 2006, Waters (per l’occasione accompagnato anche da Mason, me lo ricordo bene dato che c’ero anche io) dedicò la prima parte del concerto a Barrett deceduto il giorno prima, avevo sedici anni, e per quando idiota già lo fossi sapevo comunque bene che Barrett non avrebbe mai potuto fare altro ormai, dato il suo stato mentale e fisico, eppure mi sentì molto triste. Mi resi conto che un’epoca intera era stata spazzata via, e che quel concerto altro non era che un rituale pagano per ricordare quello che fu, come più o meno tutti i concerti dei sopravvissuti a quegli anni di sesso, droga e non sempre rock and roll.
[per la seconda parte clicca qui]
David Bowie, Iggy Pop, Deep Purple, Eric Burdon
È la dannata stagione degli zombi, centinaia di band del passato, rinvigorite dal dio denaro e da internet, tornano a sfornare dischi che si ostinano ad intasare il mio cesso.
Il fatto che ad una certa età si possano ancora fare dischi piacevoli non è qui messa in discussione. Infatti finché sento dire che “On An Island” (2006) di David Gilmour è ascoltabile, se non addirittura carino, e che “Mighty ReArranger” (2005) di Robert Plant e la sua band dal vivo renda abbastanza bene, sto tranquillo, sto sereno. Ma appena qualche idiota in qualche rivista patinata comincia a vomitare cose come “il miglior disco dei Pink Floyd dai tempi di The Wall” o anche “come, o forse meglio di Physical Graffiti” io mi incazzo come una scimmia.
Ma poi il problema non è tanto il mio, che c’ho pochi soldini e li spendo perché sono stato ammaliato da un critico stronzo che legge i nomi in cover e poi dà il voto senza ascoltare l’album, il problema vero sono proprio quei deficienti che comprano questi dischi e sono d’accordo con il critico! A me non piace dare giudizi assoluti, preferisco insultare l’artista piuttosto che l’ascoltatore, perché ognuno è libero di comprare e amare qualsiasi musica. Ci mancherebbe altro, cazzo. Ma quando si parla di band come i Deep Purple, per l’amor del cielo, si potranno prendere in considerazione gli album precedenti e la storia del fottuto rock, oppure no? Forse dobbiamo metterci a novanta e dire “dai però, Bananas comunque è suonato molto bene” bella figa, allora inizio a comprarmi tutti i dischi di Steve Vai e Joe Satriani così sono a posto con l’anima. Peccato che a me della masturbazione sia venuta a noia qualche anno fa, ora mi piace il Rock.
Tutto questo per dire: non basta il nome, anche la musica, la storia e il contesto sono argomenti che dovrebbero far parte di ogni buona critica a qualsiasi forma artistica. Non tutto quello che ha fatto Leonardo Da Vinci è perfetto, non tutto quello che caga Lou Reed è musica raffinatissima. E così, invece che tediarvi con le mie solite lunghe e laboriose recensioni, stavolta vi butto là qualche impressione di questo genere di album usciti nel 2013, anche perché non meritano un minuto in più del mio tempo.
David Bowie, “The Next Day”: un disco ben costruito da ottimi ingegneri del suono, ben mixato e… basta. Bowie non si spreca nel vendersi come il solito camaleonte, peccato che questo valga per le prime tre tracce, dopo di ché non gli riesce neanche il solito trasformismo e comincia a riciclarsi violentemente. Docet Valentine’s Day, una ballad ammuffita con quel sound così Bowie, ma che per il quale esistono album molto più vecchi e validi. Cosa me ne faccio di “The Next Day”? Di certo Bowie non ha mai spiccato per doti compositive, le cose migliori sono uscite grazie a collaborazioni importanti (Brian Eno e Robert Fripp fra tutti), e questo album lo conferma. If You Can See Me che roba sarebbe? Musica scritta a tavolino, senza anima né idee.
[voto: 4/10]
Iggy and The Stooges, “Ready To Die”: credo sia una presa per il culo. O almeno suona proprio così. È inutile buttare lì miti assoluti come Mike Watt, potevano metterci anche Kermit la Rana, il disco continuerebbe a suonare come la cover band degli Stooges, senza rabbia, violenza, potenza, è più significativa la colonna sonora del film di Spongebob! Di certo la rabbia è un sentimento che mi pervade mentre ascolto questo aborto fatto album, un’inutile sequela di cliché suonati non tanto come se fossero “pronti per morire”, ma piuttosto: “pronti per rapinarvi con un nuovo tour mondiale”. Neanche da ubriaco riuscirei a trovare una giustificazione plausibile per cotanto acquisto.
[voto: 3/10]
Eric Burdon, “‘Til Your River Runs Dry”: per quanto la voce del buon vecchio Burdon sia sempre apprezzata dalle mie casse questo album poteva farselo scrivere da qualcuno che ci capiva qualcosa di musica. Brutto e triste rimescolare le carte di quanto già sentito nella sua monotona carriera solista, pezzi come Devil And Jesus forse possono accontentare vecchi cinquantenni che si lamentano perché “i Clash sono punk quindi fanno cagare” o che “una volta qui era tutta campagna” ma personalmente mi aspetto sempre qualcosa di più, non so perché, sarà irrazionale, però è così, sarà perché ho pochi soldi e non mi piace spenderli in dischi così palesemente inadeguati.
[voto: 3/10]
Deep Purple, “Now What?!”: dai cazzo no! No, no, no, no, no, rifiuto di sentirmi dire da esseri razionali che questo è un buon album, addirittura al di sopra della sufficienza! “Now What?!” dovrebbe essere ritirato dai negozi per salvaguardare la pubblica decenza, ascoltare Vincent Price mi ha quasi ucciso, le orecchie sanguinavano e non riuscivo a fermare le lacrime. Questa non è la cover band dei Deep Purple, questa è la band-parodia dei Deep Purple! Chi ritiene questo album decente non può che ignorare tutta la discografia della band, non ci sono cazzi, oppure non capisce una mazza di rock. Rifiuto a piè pari qualsiasi altra spiegazione, e non mi interessa sentire alcuna difesa a favore di questo scempio assoluto. Se poi le considerazioni sono del tono “però è meglio di Rapture Of The Deep” allora cago mattoni seduta stante. Cazzo, meglio di “Rapture Of The Deep”, allora il Tristan und Isolde di Wagner sembrerà “Glitter” di Gary Glitter. Ma vaffanculo!
[voto: 1/10]
Rare Bird – As Your Mind Flies By
Parlare di prog è sempre difficile.
Prima di tutto una considerazione: è un genere piuttosto da riccardoni. Ma io lo amo oltremodo.
La sua struttura così aperta lo rende un terreno estremamente fertile per i barocchismi, inoltre fa anche sì che lo si possa mischiare con qualsiasi genere esistente, dal free-jazz all’elettronica.
I cultori del prog sono sparsi in tutto il mondo e purtroppo anche il materiale disponibile è sparso in tutti gli stramaledetti angoli del mondo, ed è spesso introvabile, o a prezzi inaccessibili per un uomo con una sola vita da vivere. Non è un caso se il disco di cui oggi vi parlo l’ho trovato nei bassifondi di Belgrado la scorsa estate, ad un prezzo per loro molto alto, ma grazie ai magici poteri dell’inflazione, per me accessibile.
Dei Rare Bird, fateci caso vi prego, non ne parla nessuno. Nessuno. Sono tra le band più sconosciute del prog, ed è una cosa davvero strana. Vedete, i veri appassionati di prog, per farsi odiosamente fighi con gli amici, amano scovare dischi sconosciuti di band improbabili (e improponibili) per poi propinarle in serate accompagnate da metanfetamina e dvd di Spongebob. Eppure i Rare Bird si trovano ancora in una condizione di limbo assai particolare.
In realtà qualcosa per cui gli Uccello Raro (ok, me la potevo risparmiare) sono ancora ricordati c’è. Purtroppo, però.
Nel 1970 uscì un loro 45 giri, con una hit: Sympathy. Fu un successo mondiale, un grande colpo per la band, peccato che la canzone faccia davvero cagare. Cioè, dannazione, è una roba un po’ Beatles sotto LSD e Procol Harum in stato confusionale, senza contare che è oltremodo noiosa. Dove sono i barocchismi? I sali-scendi vorticosi? È per me incomprensibile come un band che arriva al successo con una palla allucinate come questa possa fare un disco che spacca il culo come “As Your Mind Flies By“.
Un attimo ancora però.
Il loro primo disco, ovviamente titolato “Rare Bird” come la band, esce nel 1969, ed è una mezza fregatura. Cioè, l’inizio è decisamente epico: Beautiful Scarlet (il link è di una versione live, mille volte più figa di quella da studio) certamente non è un pezzo che sprizza di originalità, ma è suonato decisamente bene. Ok, magari non è così epico, però dai, è interessante. Il resto del disco invece è assai anonimo.
Ma in difesa di “Rare Bird” (1969), va detto che in quell’anno lì non è che esistessero poi chissà quali esempi di prog. E riascoltando il disco, contestualizzandolo nell’anno in cui è uscito, ne riesce abbastanza rivalutato.
I Genesis si erano appena presentati e non si può di certo dire che “From Genesis To Relevation” fosse già un lavoro maturo. I Van Der Graaf Generator cominciano il loro glorioso percorso con “The Aerosol Grey Machine“, carino, ma incongruente. Invece i King Crimson quell’anno tirarono fuori un dannato capolavoro, un disco che è ancora considerato uno dei massimi esempi di progressive rock della storia: “In The Court Of The Crimson King“. Mamma mia! Direbbe Super Mario.
In Italia Le Orme produssero una versione edulcorata di In “The Piper At The Gates Of Down”, ovvero il geniale “Ad Gloriam“, mentre sul fronte trash c’è l’indimenticabile “In Cauda Semper Stat Venenum” dei tragici Jacula (sì, a parte Le Orme, il nulla più totale).
In questo contesto va detto, in tutta onestà, che i Rare Bird avevano prodotto un disco con un sound piuttosto maturo, e decisamente molto prog. Proprio sotto In “The Court Of The Crimson King”, come consapevolezza, c’è il primo disco dei Rare Bird. Poi chiaramente andrebbe fatto un altro discorso sulla qualità del disco, e cazzi e mazzi, ma sai che palle!
Comunque arriva il 1970, e con lui i capolavori internazionali del Prog. Non mi metto a fare l’elenco, l’unica cosa che si può dire è che ogni band trova il suo sound, si cominciano a mescolare il folk, il jazz e il blues all’interno di tracce molto lunghe, l’idea di suite nel prog si fa strada ben presto, anche perché molti musicisti della scena inglese uscivano freschi freschi dai conservatori. E non mi vergogno affatto ad affermare che il miglior disco di quell’anno magico fu proprio “As Your Mind Flies By“.
Prodotto dalla famosissima Charisma Records, un po’ l’etichetta per eccellenza del prog inglese, il disco non solo dimostra che la band ha studiato, si è migliorata, ed ha sviluppato una personalità unica, ma pone nuovi limiti al prog ancora neonato.
What You Want To Know è in assoluto il pezzo più bello che abbia mai aperto un dannato disco prog dopo 21st Century Schizoid Man. Una cosa: non usano la chitarra elettrica. Sono un gruppo rock. Fanno prog. Non usano la chitarra elettrica. Poteva essere una merda, ed invece è bellissimo. L’hammond suonato da Graham Field è pura poesia, non c’è la potenza (e anche la volgarità, che amiamo) di Jon Lord, ma nemmeno il tocco jazz di Steve Winwood, è una cosa tutta sua, poesia.
Si arriva a Down On The Floor, un bellissimo pezzo che non ha nulla da invidiare alle produzione coeve dei Genesis, tanto per fare un nome. Sebbene uno spiccato carattere “medievaleggiante” non è niente che si possa ricondurre per esempio ad “Alchemy” (1969) dei Third Ear Band, o a qualcosa dei Jethro Tull, i Rare Bird sono esageratamente moderni e unici.
Hammerhead conferma l’eccezionale forma dell’organista (non ho detto che è virtuoso, dico solo che sa che sa che note toccare, senza stupidi barocchismi), le doti vocali di Gould sono eccelse, ma pur non facendo niente di trascendentale fa già moltissimo. Il sound complessivamente è calibrato molto bene, e la band se ne esce con eleganza, senza gli inutili orpelli del prog più pomposo, come in molte cose degli Emerson, Lake & Palmer (che sarebbero stata tanta roba senza un quinto delle note che mettevo ad ogni pezzo).
I’m Thinking conclude il primo lato con potenza e armonia. Folle e geniale connubio tra un prog fatto di fughe con l’organo e uno più rilassato, una amalgama che non lascia niente al caso. Uno dei miei pezzi preferiti di tutti i ’70. Nel finale Steve Gould si lascia scappare un sommesso wow, come se anche lui si fosse accorto che stavano facendo qualcosa di Grande.
Il lato B…
Non so davvero come parlarvi del lato B di questo disco.
Una delle prima suite dell’epoca prog si nasconde in questo lato. Si chiama ovviamente As Your Mind Flies By. Incredibile come già nel ’70 i Rare Bird avessero assimilato il prog, praticamente in questa suite ci sono i cinque successivi anni racchiusi, sintetizzati. Non è normale. È qualcosa di visionario, pazzo, controcorrente.
La critica elogiava questa band, ma nessuno sembrava comprenderli a fondo. Eppure questo album, in confronto a gran parte dei dischi prog, non soffre di abrasioni dovute al tempo, sembra nuovo, brillante, moderno. Sarà perché è un capolavoro nascosto, sarà perché non è sulla bocca di tutti, sarà perché quando lo metti sul piatto non ti aspetti molto, forse una qualcosa tipo alla The Nice, o al massimo alla The Move, ed invece ti becchi questa gemma della musica popolare, una delle massime espressioni del suo genere.
Se amate il prog dovete avere questo disco.
- Pro: è un disco piuttosto avanti con la sperimentazione prog fino al 1970, dimostra una maturità eccellente, nessun orpello, nessun riempitivo, è un prog esageratamente puro per l’epoca. Inoltre la chitarra è sostituita da un piano elettrico alquanto ispirato.
- Contro: se non ti piace il prog è una pappa noiosissima, una roba da riccardoni che piangono davanti a “Picture At An Exhibition” e non hanno un orgasmo ascoltando gli MC5.
- Pezzo Consigliato: ascoltatelo tutto, dalla prima traccia alla suite.
- Voto: 7/10