… e Vivo malgrado me stesso… Franco Battiato, Fenomenologia, “Fetus”, 1972
In un periodo di passaggio particolarmente delicato del rock italiano, il 1972, Franco Battiato era in pieno furore compositivo, il suo periodo d’oro con la Bla Bla di Pino Massara. Si può dire, ad ormai parecchi anni di distanza, che tra il ’72 e il ’73 il prog italiano conobbe la sua definitiva maturazione, sia nelle varie forme che nei suoi temi più ricorrenti (l’ecologismo, la rivoluzione giovanile, le droghe, la libertà sessuale, ecc.), ma assieme alla consapevolezza arrivò una saturazione del mercato discografico, spesso ridondante nelle proposte.
Dopo aver sputtanato senza ritegno qualche scamorza mal pensata o semplicemente mal riuscita del prog italiano in Non è tutto prog quel che luccica, appropinquiamoci alla seconda parte di questa mia modesta trilogia alla riscoperta non tanto critica, ma piuttosto sentimentale e ingenua, del mitico movimento prog italiano.
Vi consiglio degli acquisti non sempre di facile reperibilità, ma di assicurata qualità.
Troppo spesso ci soffermiamo sugli album più conosciuti o sulle band più consigliate. PFM, Area, il Banco, Rovescio Della Medaglia, Le Orme, Il Balletto di Bronzo (e gli altri dodicimila) senza contare tutte quelle che magari ci aspettavamo meglio, ma che invece non hanno passato la prova del tempo divenendo perlopiù materiale dal valore prettamente archeologico.
Quelli che vi propongo oggi sono album che secondo il mio modesto parere dovrebbero obbligatoriamente comparire negli scaffali di un appassionato. Naturalmente se siete appassionati di vecchia data è del tutto inutile che vi sorbiate anche questo post (tanto c’avete pure l’originale dei Gleemen e dei Dalton, pervertiti!), ma di solito il vecchio progger è nostalgico quanto Winnie The Pooh goloso di miele, o se preferite quanto Bukowski voglioso di una birra.
Cominciamo con un album che, se non avessi la ristampa del 2002, potevo permettermi solo se di nome facevo Bill e di cognome Gates.
La Seconda Genesi – Tutto Deve Finire (1972)
Questo capolavoro assoluto uscì in 200, e dico solo 200, fottute copie, e tutte (e dico TUTTE) con una copertina diversa.Ma per quale cazzo di motivo, mi chiedo, la gente fa queste cose? Forse già immaginavano che giovani virgulti come me, sentendo le prime note di Dimmi Padre, presi dalla smania di avere una dannata copia di quel discone avrebbe sborsato, chessò, 4.000 euro??? Maledetti!
Ma grazie ad un progressivo interessamento verso il prog (notare il gioco di parole) di questi ultimi anni molte di quelle opere perdute o ultra-valutate sono oggi disponibili a prezzi umani.
“Tutto Deve Finire” è un capolavoro di composizione, stile e testi, l’epicità e la squisitezza tecnica sono sopra le righe, un disco che può tranquillamente rivaleggiare con molta produzione coeva inglese. Se vi piace il prog italiano, o se volete approcciarvi a questo genere, non vedo come non partire da questo album.
Voto: 7,5/10
Il Giro Strano – La Divina Commedia (1992)
Non fatevi ingannare dalla data di uscita, le registrazioni di questi pezzi risalgono ai primi anni ’70, ma purtroppo la band non riuscirà mai a pubblicarli mentre erano in attività.
Questa pubblicazione postuma è una fortuna, non tanto per la qualità musicale (che varia dall’eccelsa alla confusionaria in pochi attimi) ma perché rivela uno spezzato musicale senza i troppi filtri che spesso intercedono nella costruzione di un album. Liberi di spaziare e inventare Il Giro Strano capitanati da Mirko Ostinet e Alessandro Feltri non provocano l’ascoltatore con esercizi di stile, né con la sperimentazione, ma suonano quello che gli piace come gli piace.
Ascoltarsi questo album è come ritrovarsi di punto in bianco in un locale di Milano, Roma o Torino nel 1973, riassaporando le impressioni e le espressioni di quel periodo.
Voto: 6,5/10
Jumbo – D.N.A. (1972)
Il miglior disco di tutto il prog italiano.
E adesso potete picchiarmi.
Purtroppo “D.N.A.” dei Jumbo è un album che divide decisamente l’opinione tra gli appassionati, ma credo che ciò avvenga perché esistono due appassionati di prog: il primo è appassionato di rock in generale, particolarmente di quello diretto e incazzato, il secondo invece ama più di tutto il prog nelle sue forme più complesse e esasperate.
I Jumbo sono incazzati, sono sporchi, sono virtuosi eppure imprecisi, controllati eppure anarchici, poetici come volgari. Nel loro secondo album, questo “D.N.A.”, la band di Alvaro Fella (voce e unico autore) pongono una personalità forte e decisa nel sound quanto nei concetti espressi, divenendo di fatto l’unica band di tutto il panorama italiano a riuscire a fondere l’aspetto tecnico a quello concettuale in modo perfetto, senza privilegiare né l’uno né l’altro, senza mai staccarsi da terra per volare su pensieri filosofici e senza mai adombrare la mancanza di idee con abbellimenti non necessari.
Alvaro Fella, con quella sua voce così particolare da sembrare semplicemente inadatta, è il più grande cantore della rabbia rock in Italia, sempre sull’orlo del precipizio, sempre sul punto di spezzarsi quanto gridava anatemi via via più terribili e ineluttabili, per poi riprendersi all’ultimo, consapevole che c’è sempre un momento per la rabbia come per la riflessione.
Politici, poetici, filosofici e proletari, i Jumbo sono l’essenza di cosa dovrebbe essere una rock band, al di fuori dell’appartenenza culturale e nazionale.
Magnifica ed elegiaca la suite che prende tutto il lato A: Suite Per il Sig. K, ma è altrettanto indimenticabile come comincia il lato B, con i cambi di ritmo e l’essenza rock di Miss Rand, probabilmente il singolo rock più bello della storia italiana.
Nessuna band MAI ha raggiunto le vette lirico-espressive dei Jumbo, i quali cercarono di ripetere il miracolo col terzo album “Vietato ai minori di 18 anni?” (1973), dove però l’equilibrio si perde, e dove la bilancia cede sotto il peso delle ispiratissime liriche lascia a mezz’aria la qualità musicale, meno aggressiva e autentica che in “D.N.A.”.
Disco obbligatorio non solo per i progger ma per tutti.
Voto: 9/10
Ultima Spiaggia – Il disco dell’angoscia (1975)
Partiamo subito dicendo che se un giorno, possibilmente prossimo, qualche benefattore decidesse di ristampare tutta la discografia di Ricky Gianco gli saremmo veramente grati.
Eh sì, perché voi leggete Ultima Spiaggia (ehi: mica siamo ciechi) ma in realtà questa è la nuova fatica di Ricky Gianco dopo l’esperienza beat di Alberomotore (“Il grande gioco”, 1974), il quale per pubblicizzare la sua nuova etichetta (Ultima Spiaggia, attiva dal 1974 al 1979) produsse un album assolutamente allucinante e fuori dagli schemi.
Non è un caso se anche i più appassionati del Riccardo nazionale trovano una certa difficoltà a collocare questo album. È progressive? È pop? È rock?
“Il disco dell’angoscia” è uno di quei rari casi in cui un musicista invece che seguire il tradizionale metodo di composizione prova una strada diversa. Questo album infatti è una sorta di visione d’insieme che depreda e riassimila tutti gli input della musica underground dell’epoca, incollandole in un concept psichedelico che principia da un terribile incedente d’auto.
Gianco infatti non narra una storia (modus operandi di un concept classico), né una vicenda, non cerca di esprimere una sensazione o un singolo concetto, ma ci introduce all’interno della mente di un uomo che ha avuto un incidente automobilistico, e ci fa schizzare a destra e a manca all’interno del suo inconscio, producendo così un’opera ben più azzardata di quanto si creda.
Più che un album si può parlare di esperienza.
Un caposaldo del rock, del pop e della musica italiana.
Voto: 8/10
Delirium – III – Viaggio Negli Arcipelaghi Del Tempo (1974)
Ultimo album dei Delirium e anche il più estremo e sperimentale.
Finalmente fuori dall’ombra di “Dolce Acqua” i Delirium danno vita ad un affresco complesso e davvero avvincente (quando non incomprensibile). Il tono epico ed elegiaco riprende buona parte della produzione italiana, ma con un piglio personalissimo e un ispirato sax di Martin Grice.
Spesso snobbato, questo album contiene perle di indiscutibile valore, oltre che la certezza che i Delirium avessero ancora molto da dire.
Voto: 7/10
J.E.T. – Fede, Speranza, Carità (1972)
La band più hard di tutto il panorama prog italiano, le sferzate di chitarra in questo album e le urla dell’hammond fanno impallidire gran parte delle altre band coeve (esclusi New Trolls). Strano constatare che dalle ceneri di una band così nacquero i Ricchi e Poveri e i Matia Bazar. Mah.
Unico album di questa strana formazione, ottima variabile ai New Trolls in tinta cattolica.
Notevolissimo anche il singolo che compare come bonus track: Guarda coi tuoi occhi, che nella sua semplicità e senza l’eccessiva ricercatezza degli altri brani dell’album se ne esce come il più quadrato e convincente!
Voto: 7/10
Maxophone – Maxophone (1975)
Inspiegabilmente ancora poco conosciuti i Maxophone hanno scritto una delle pagine più interessanti della storia del prog italiano.
L’unico grande difetto (oltre la presenza di cori in falsetto, i miei nemici da sempre) è stata la data di uscita del loro primo complesso album: 1975. Un po’ tardino per il prog classico, ma i Maxophone a ben ascoltare non erano mica così classici.
Esperti musicisti con una sensibilità davvero particolare, tale da unire in alcuni momenti King Crimson a Supertramp! Il loro primo e unico album è davvero un ponte di passaggio che decreta la fine dell’epoca underground del prog, spostando l’attenzione su un piano più pop che lentamente invece che liberare il prog dalle catene della tecnica fine a se stessa lo trasformerà in una parodia di se stesso.
Uno degli album italiani che ho amato di più, a diciott’anni mi sono bruciato il cervello ad ascoltarli notte e giorno.
Voto: 7,5/10
Pierrot Lunaire – Pierrot Lunaire (1974)
Ma che sto ascoltando? Ma siamo scemi?
Più o meno fu questa la mia reazione all’ascolto del primo album dei romani Pierrot Lunaire, una band che mi ha scombussolato le interiora.
Le impressioni che compongono questo esordio sono come appena appena accennate, molti pezzi per qualcuno potrebbero addirittura sembrare incompiuti, siamo lontanissimi dalle tinte hard dei J.E.T. o dalla profusione tecnica dei Seconda Genesi, il romanticismo dei Pierrot Lunaire però non è mai ampolloso ma sempre ben calibrato.
Magnifico quando modesto, questo è un album che dispregia il prog auto-referenziale e si produce in 12 pillole di soft-rock fuori dal tempo.
Un disco che dal ’74 ad oggi non è invecchiato di un giorno.
Voto: 7/10
Museo Rosenbach – Zarathustra (1973)
Io credevo fosse un classico ormai talmente conosciuto da essere annoverato tra i grandi capisaldi del prog italiano, ed invece trovo molti, sopratutto giovani della mia età, che ‘sti Museo Rosenbach non sanno proprio a quale parrocchia appartengono. Eppure nelle live vedo sempre un sacco di ragazzi… mah…
Comunque credo non ci sia molto da dire su questo album, ormai quasi più leggenda che altro.
I Museo Rosenbach sono sempre stati perseguitati dalla sfiga, prima tacciati di fascisti nel ’72 (il che potete immaginare cosa potesse significare in termini di apprezzamento in un circuito spartito da comunisti e catto-comunisti), poi dimenticati in Italia, successivamente rivalutati quando ormai l’unica cosa che riescono a fare è riproporre sistematicamente questo album e nient’altro.
Mi ripeto, non c’è nulla da dire su un monolite così, compratelo di corsa e non rompete il cazzo.
Voto: 8/10
Anche per stavolta abbiamo dato, nel prossimo capitolo di questa trilogia sul prog italiano vi consiglierò qualche pezzo notevole magari non sempre incastonato in dischi indimenticabili.
Per questo post sarò gambizzato da qualche progger alterato, però prima di essere ucciso e violato da uno di voi vorrei premettere qualcosina.
Il prog italiano è stato il mio primo amore, ma lo è stato anche di tantissimi altri. Prima del movimento prog non c’era molto in Italia di cui andar fieri (per quanto riguarda il frangente rock chiaramente). Ma la totale adesione alla rivoluzione inglese e in secondo piano americana a posteriori è quanto di più prevedibile ci potesse essere.
Se in America il rock si sviluppa su una idea fondamentale di immediatezza e autenticità (con le dovute eccezioni) in UK il rock è ammaestrato tramite la tecnica e il virtuosismo (con le dovute eccezioni). L’Italia manierista anche in musica ha preferito affrontare un discorso alla Soft Machine piuttosto che Velvet Underground, più King Crimson che Captain Beefheart, più Yes che Who.
Affermare che nel prog italiano di originale non ci sia un granché non è una bestemmia, e sopratutto non toglie valore ad alcune opere uniche ed irripetibili (di queste qualcuna sarà discussa tra qualche post).
Ho partecipato ad una accesa discussione su questo tema proprio qualche giorno fa e come al solito quando gli animi si scaldano a me girano i coglioni. La gente si offende molto di più quando gli offendi il clavicembalista preferito che la mamma. Per me i musicisti, in particolare quelli che amo, mi sembrano tutti dei gran coglioni, e comunque sanno difendersi da soli dagli insulti o dalle illazioni di un cazzone sul web.
Per fortuna che in Italia siamo così ben forniti di cavalieri senza macchia e senza paura per difendere i Queen di turno. C’è da riempirsi il cuore d’orgoglio tricolore.
Comunque quello che vi presento quest’oggi è il primo passo verso una mia brevissima trilogia (sì, m’è presa con le trilogie, sono brevi, inconcludenti e approssimative, per questo mi piacciono tanto) , lo scopo prefisso stavolta è presentarvi una parte del mio percorso nella scoperta del prog italiano.
In questo primo post stilerò una lista di quei pezzi che proprio non capisco come possono essere stati pubblicati senza vergognarsi o di quelli che non hanno passato la prova del tempo. Nel secondo vi consiglierò alcuni pezzi che invece sono (secondo me) da rivalutare. Nel terzo vi proporrò gli album che in assoluto mi sono piaciuti di più (eliminando i soliti noti: PFM, Banco, Area e via dicendo perché imprescindibili e noti a tutti).
Partiamo?
I Vocals – Il Cuore Brucia
[Per gli svegli: è una cover di Into the Fire] Eh, sì, I Vocals non sono esattamente prog, ok, ma perché privarvi di questa perla? Mica si coverizzava solo David Bowie e il brit pop, c’è chi ha tentato la strada maestra delle hard rock band inglesi con fierezza e forse poco acume. Considerando che i testi dei Deep Purplenotoriamente fanno schifo e provocano la morte di un neurone di Umberto Eco ogni volta che li cantate a squarciagola sotto la doccia, la versione dei Vocals è talmente brutta da essere incommensurabilmente bella! Un capolavoro trash che travalica i limiti umani dell’immaginazione! Aggiungo una postilla personale: Il Cuore Brucia dei Vocal è anche la canzone con più ascolti completi di tutto il mio iTunes.
Gli Uh! – Più nessuno al campo
Gli Uh! citano nel nome chiaramente gli Who, ma sono una band prog. Coerenti. Più nessuno al campo fa parte di quella lunghissima trafila di canzoni che si annoverano nella grande categoria: “Salva un albero, mangia un castoro”. Ma perché la gente non ara più la terra? A che servono ‘sti campi incoltivati? Un tema micidiale per l’epoca, oggi al ragazzino con l’iPod ultima generazione, disperato perché non sa se riuscirà a comprarsi il PC pompatissimo per l’uscita di Dragon Age 3, fottesega del campo d’arare. Il pezzo in sé è tutto tranne che maligno, carina anche la parentesi strumentale, ma cazzo, ‘sto testo fa davvero scendere le palle!
I Califfi – Fiore Finto, Fiore di Metallo
Ma cosa non vi scovo io? Quali perle! I Califfi si prodigano in un rock impegnato vecchio stile con un risultato a metà tra una sigla di un anime anni ’70 e una serie di virtuosismi fuori luogo, più che rock sembra plastica tale è la sua immediatezza e freschezza compositiva. Ecco, gran parte del sound di moltissime band prog era legato ad una sorta di finzione, era tutto molto cartonato, mancavano però i sani attributi maschili.
Jacula – In Cauda Semper
No ma… davvero? Davvero qualcuno ha preso sul serio gli Jacula? Davvero qualcuno li ha accostati ai Black Sabbath? Anche scavando nella memoria sono pochi gli album così spiccatamente tamarri e privi di contenuti come “In Cauda Semper Stat Venenum”. Ok le atmosfere gotiche, ma una cosa sono i Current 93, un’altra gli Jacula! Quando a metà dei 9 lunghissimi minuti di In Cauda Semper parte anche la sezione ritmica c’è da mettersi le mani nei capelli. Il testo in italiano poi è da infarto…
Flea On The Honey – Mother Mary
Sebbene siciliani, e quindi per me son già due voti in più, i Flea On The Honey (poi Flea, poi Etna e poi per fortuna si son fermati) nel loro primo omonimo album mi hanno insegnato molto, in primis come si fa un album rock davvero brutto. I musicisti son mica scarsi, però la musica torna a far scendere i coglioni. Mother Mary anche stavolta presenta un testo da nobel, utilizzando un tema epico molto caro ai progger italiani: il cattolicesimo. Cosa c’è in fondo di più epico e devastante di un uomo crocifisso e risorto, Re della gente tutta, il quale tornerà per giudicarci inesorabilmente? Dai cazzo, in effetti è figo. Anche se, dopo 2000 anni, un po’ ripetitivo.
I Maya – Salomon
No, non state ascoltando il coro della chiesetta di paese dove vostra nonna va tutte le domeniche mattina. Sono I Maya. Praticamente la conferma ufficiale che in Paradiso si ascolta un sacco di merda.
Moby Dick – Il Giorno Buono
Nel caso non l’aveste capito da soli i Moby Dick si chiamano così in omaggio ai Led Zeppelin, e tra cover e pezzi di collage tra idee originali e plagi di questa caratura si sono fatti paladini della hard rock band inglese per eccellenza. ‘Na roba deflagrante.
Il Balletto Di Bronzo – Incantesimo
Non vi incazzate, a me piacciono i Balletto di Bronzo, ma ditemi voi se questo è un testo normale oppure è stato rubato da un set di fantascienza porno-soft. Ditemelo. Sù.
Milords – Solo vento, solo sabbia
Difficilissimi da reperire i Milords non mancano di certo tra i collezionisti più compulsivi. Tra strumentali alla Il Punto e schizofrenia beat, momenti filo-Battisti e pop, senza dimenticarci degli “effetti speciali” atroci, giuro, cazzo lo giuro davanti a tutti voi, i Milords hanno creato un genere unico, nuovo, inimitabile. Una smerdata davvero inimitabile.
Black Sound – Smog
Torniamo sul tema civiltà contro natura con i Black Sound, band trevisana ormai di culto della sotto-cultura musicale italiana. Commistione unica di cliché e strutture sfruttate fino all’inverosimile, i Black Sound sono una fotocopia vivente di tutto quello che tirava all’epoca, mettendo qua e là un eco (che fa figo).
Hunka Munka – L’aeroplano d’argento
“Dedicato a Giovanna G” degli Hunka Munka fu un acquisto obbligatorio, primo: lo conosceva un sacco di gente tranne me, secondo: la copertina è una figata allucinante. Essendo stato ristampato di recente lo comprai senza dover spendere i canonici sessanta euro che di media ti spillano per queste bellezze italiane (parlo ovviamente di pezzi di plastica graffiati dai gatti e con copertine ricamate con un km di scotch, le copie messe bene vanno via a botte di 100.000 €!). Cazzo gente, ma che droga vi sparate in vena? No, sul serio, che cazzo succede in questo album??? Tutti ‘sti suoni che esplodono dalle casse saturano l’ambiente peggio di un disco degli Sly & The Family Drone, ma poi l’avete capito bene il testo? Che cazzo vuol dire “se avessi un aeroplano d’argento farei le corse con il vento, ed una sigaretta col sole mi accenderei” ma scherziamo??? Porca vacca gente, all’epoca ne passava di roba buona…
So bene che questa mia lista è incompleta e di certo non spaventosa come potenzialmente potrebbe, così invito chiunque passi di qua a lasciare pure un suo contributo, sarà pubblicato (deh, sì, col vostro nome, ok) assieme agli altri – se avete un link da qualsiasi piattaforma dove poter ascoltare il pezzo consigliato sarebbe gradito, ovviamente mi aspetto anche una gustosa descrizione!