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Sbucciando una banana francese: il meglio e il peggio della Howlin’ Banana Records

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In questi giorni non ho scritto niente non perché non abbia ascoltato niente di nuovo, ma perché c’ho i cazzi miei. E sono tanti. Potete cliccare QUI per un racconto esaustivo.

Di che si parla oggi? E che c’entrano le banane? Ladies and gentlemen, oggi recensirò per vostra somma gioia qualche band dal catalogo della Howlin’ Banana Records! Come dite? “Echecazzoè”? La Howlin’ Banana Records è un’etichetta francese di garage rock-pop fondata a Parigi nel 2011 da Tom Piction, il solito giovanotto di belle speranze, un appassionato di indie rock e garage il quale, molto probabilmente, ha pensato bene che il modo più rapido per raccattare figa bollente fosse quello di fondare un’etichetta garage, genere celebre per le sue band grasse, unte e brufolose. Sarà riuscito il buon Piction a bagnare la sua baguette in del caldo burro francese? Ma sopratutto: sarà riuscito a selezionare band garage CAZZUTE, pronte a farci saltare i timpani?

Premetto subito che dopo un’ascolto completo di tutto il catalogo (sorseggiando del buon vino francese, che c’ho la pressione alta e la birra deve stà in frigo) la prima cosa che salta fuori è che, nel contesto scena europea, il garage francese è il più posato e aristocratico di tutti. Non che sia un male, cari miei seguaci, so che per molti di voi non è garage se non ci lasci le unghie sulle corde del basso, ma c’è anche il garage-folk, il garage-pop dalla California, il garage-psych di stampo barrettiano o alla Brian Jonestown Massacre, non facciamo trincee, lasciate scorrere l’amore tra i confini e i generi, lasciate che i feedback si perdano nell’abisso siderale dello spazio cosmico, seducendo e inseminando frammenti acustici, perdendosi nelle costellazioni liquide dello shoegaze, lasciandosi… oh merda, qualcuno mi tolga questa bottiglia dalle mani!

[Non ho recensito tutto il catalogo ma bensì la sbobba che ho ascoltato di più in queste tumultuose settimane, ogni album è descritto come sempre con la massima incuria e approssimazione, come piace a voi. Ma sopratutto come piace a me.]

Anna – Anna (2014)

Chi è Anna? Un tipo con problemi di collocamento sessuale? Una band? Una suora con un passato da ballerina nei night club? (cit.) Non lo so, però questo album omonimo alla fin fine non è malaccio.

I’m Note Yelling apre le danze in maniera asettica, assente e poco interessante, come se si preannunciasse il solito pappone psych senza direzione, ma è solo un minuto di incertezza, perché il garage-folk di I Love Noise mette in primo piano un piacevole songwriting barrettiano, che ci accompagnerà per quasi tutto “Anna”.

Haircut ha dei rimandi californiani decisamente influenzati dal Segall acustico del 2013, Old Man, con la voce bambinesca modificata digitalmente, è voglia di sixties pura riuscendo a recuperarne la freschezza floreale, con un dialogo di chitarre acustiche frenetico quasi-alla Violent Femmes.

Il gusto naïf francese si può percepire in pezzi come Eaten Apple, che anche nella lingua di Céline sarebbe suonato perfettamente. Ecco, forse un po’ troppo, nel senso che la perfezione formale di questo album è un pregio come un difetto, laddove riff e sezione ritmica non sbagliano un colpo ogni tanto nelle budella dell’ascoltatore raffinato si ode un gorgoglio, che non è badate bene la pizza coi fagioli all’uccelletto di due giorni prima, ingurgitata affannosamente con l’ausilio di tanta birra per facilitarne la discesa, ma la necessità di una sferzata, di un nuovo punto di vista, di una evoluzione nella struttura dei pezzi.

Una canzone come Dino nelle mani di un complesso garage del tutto schizzato come i Pink Streets Boys avrebbe raggiunto vette cosmiche di distorsione spaziale orgasmiche, qui invece è puro songwriting, e pure lineare. Ovviamente non si può imputare come errore o sbaglio una scelta di stile (pensavate di avermi colto in fallo, eh?) ma a detta del sottoscritto dopo un po’ la quadratura del cerchio comincia a diventare un po’ troppo spigolosa.

Un album semplice, che si districa in un garage fortemente derivativo da quello californiano, ma che non è per questo revival puro, ma più un ibrido, sostenuto da una ricerca melodica che ne è il motore portante, e che per il sottoscritto non è sinonimo necessariamente di qualità.

Il 23 di questo mese esce il nuovo lavoro di Anna, dall’ascolto di due pezzi in anteprima disponibili su Bandcamp sembra che il cantante/gruppo francese abbia decisamente cambiando sound, trovando un maggiore dinamismo. Vi terrò aggiornati.

The Madcaps – The Madcaps (2015)

Qualcosa mi fa pensare che Syd Barrett, come ripetevo come un cretino in loop cinque anni fa agli amici, e come da tre-quattro anni ripeto su questo blog nei margini del web, sia un’influenza imprescindibile del nuovo garage rock, artista ancora oggi troppo sottovalutato, che con tre album, il primo dei Pink Floyd e i suoi due solisti successivi, ha scolpito sulla pietra il sacro verbo psych come nessuno prima e dopo di lui. Più immediato degli sperimentatori Silver Apples, Red Crayola, Fifty Foot Hose, con un talento innato nel creare melodie complesse ma appetibili (altro che Lennon&McCartney! ecco: l’ho detto, adesso posso chiudere il blog), e dal quale ancora oggi è possibile trarre nuove idee.

Eccoci dunque all’esordio dei Madcaps dopo l’Ep anch’esso omonimo (eeeeeh la creatività!), molto garage più che psych, con il grande difetto dell’essere un revival praticamente puro, senza troppe idee, ma con un songwriting che ancora una volta dopo Anna continua a colpire là dove il nostro cuore batteva prima che scoprissimo le gioie di un rock più impegnato (ma non per questo cervellotico).

Un album nostalgico, la bella Emily Vandelay si presenta con la sua ritmica sixties, la chitarra alla The Nazz, e con forse la stessa capacità della band di Philadelphia di azzeccare prima di tutto il sound e lasciando in secondo piano la musica.

I nomi dei pezzi sanno di ricordi (Haunted House, Melody Maker, 8000 Miles From Home) ma una volta che metti play, con gli occhi umidi e le dita unte, quello che esce fuori dalle casse non sono gli stessi ricordi, sono tutt’altra cosa, e sono anche parecchio noiosi.

Baston – Gesture (2015)

Questo Ep del trio francese sembra un classico album da Burger Records, garage edulcorato dal pop, con forti tensioni psych che stanno lì solo per bellezza.

Anche perché, dopo il tiro magnifico di Maybe I’m Dead, questo Ep non sa di un cazzo. Melodie banali, suoni banali, testi banali (ma di solito non ci faccio caso), cover, quella di Little Honda dei Beach Boys, che è persino più brutta dell’originale, e non era così facile come sembra!

Mi pare strano che la Burger Records, ormai contenitore di quasi tutto il buono della scena garage assieme a tutta la merda che però fa numero (e da la possibilità a questa etichetta di galleggiare), non si sia accaparrata i diritti per il prossimo album di questa band, il classico esempio di come in una scena musicale il 90% della produzione sia musica derivativa e buona solo per riempire lo spazio tra una band e l’altra ad un festival.

Volage – Heart Healing (2014)

Ok, non mi fanno impazzire, però una cosa gli va detta: sanno come si fa un album rock! Un sound decisamente riconoscibile e un certo affiatamento sono le skill di questo “Heart Healing”.

Tra il giocoso, il garage, il weird pop e un songwriting piacevole, senza però scadere nella linearità e nella ripetizione.

Piccola parentesi sul fatto che oggi ho usato la parola songwriting tipo cento volte in tre righe di post: è tutta colpa di Giovanni, un mio collega dell’Università, il mio linguaggio è stato malamente influenzato dalla sua presenza da indie rocker che ascolta gli Arctic Monkeys. Per lui il rock È il songwriting, e non sono in pochi a pensarla così, e se siete di questa parrocchia (a mio avviso perversa e immorale) forse potreste trovare delle cose interessanti in questi Volage.

Il ritmo camaleontico si dipana ad ogni pezzo cercando di confonderci, e mostrando i  muscoli della band. Il piglio punk di Touched By Grace, si trasforma in ballad psych e poi in garage rock in poco più di due minuti, ma senza dimenticarsi la voce e la melodia.

Abbiamo anche una perla mica da poco con i sette minuti e mezzo di Loner, dove l’insegnamento degli ormai sacri/intoccabili Thee Oh Sees arriva anche nella burrosa Francia. Ma invece del profumo di croissant caldi Loner puzza di Fuzz. La chitarra del complesso californiano di Charles Moothart esplode per poi essere addomesticata e spezzata, col cazzo che cascano nel tranello di fare un calderone di cazzate incomprensibili come i Jefferitti’s Nile, i Volage riescono a ricalcare i tòpos della psichedelia senza fare revival ma buttandoci dentro palle e idee. Sicuramente non c’è da urlare al miracolo, non sono riusciti a piegare il genere a loro immagine e somiglianza (come hanno fatto con il garage psichedelico i Pink Street Boys e col new-post-punk i Nun), ma riescono ad esprimersi con l’esperienza di una band scafata da migliaia di festival.

E vogliamo farci scappare il momento Barrett? Ma stavolta dura poco, giusto i primi accordi di 6H15, per poi cambiare, mutare, evolversi senza soluzione di forma. Un po’ come gli australiani Total Control, ma se i TC sono una specie di killer-mix di Ausmuteants e Ultravox, invece i francesini mescolano tutte le influenze della scena garage senza fermarsi un attimo, senza neanche l’ombra di un po’ di auto-referenzialità.

(M’è venuto un coccolone con l’attacco indie-brit pop di Love Is All, echecazzo, eravate andati così bene e poi all’ultimo mi fate ‘sti scherzetti del menga? Dai cazzo: sembrate i Jet di “Shine On”!)

(Ah, sì, caruccio anche il 10’’ uscito due anni fa, più punk e cattivo, magari un giorno lo recensisco.)

Qúetzal Snåkes – Lovely Sort of Death (2014)

Gran bel pezzo di Ep questo dei Qúetzal Snåkes, una delle band che mi convincono di più dell’intero catalogo dell’etichetta parigina, un rock con forti influenze space e shoegaze, le chitarre si districano tra richiami nineties all’hard rock, e dal vivo devono essere deflagranti.

Assieme ai Volage sono anche quelli che dimostrano una forte personalità, per la quale puoi parlare di influenze sixties ma non di revival. Come genere non sono di certo nelle mie corde, anzi: fanno poco casino e sono troppo bravi con i loro strumenti, ma mi ha colpito il sound e la qualità delle composizioni.

Personalmente ho ascoltato due volte questo Ep, e non credo che lo riascolterò mai più, ma penso che questa band meritasse qualcosa in più che una semplice citazione, se vi piace un garage non per forza urlato e con un certa ricercatezza nel suono questo è un ensemble che può fare per voi.


Ci sarebbero altre chicche da scoprire, come il surf rock dei Los Dos Hermanos, il punk pop dei Kaviar che nell’album sembra una roba alla Audacity ma che dal vivo spaccano, il garage pop leggero pseudo-Burger dei Travel Check, i frenetici Mountain Bike dal Belgio, ma forse ne parleremo un’altra volta. Se avete tempo (quella dimensione che a me manca più di quanto a Battiato manchi il suo centro di gravità permanente) e vi sono piaciute le band che vi ho proposto dateci un’ascoltata, chissà che non scatti la scintilla.

Cristo, che chiusa del cazzo.

Magic Shoppe – Triangulum Australe EP

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Ieri abbiamo parlato del Boston Fuzzstival, un evento che riunisce i più talentuosi complessi new garage, psych e derivati vari del Massachusetts e dintorni. Alla fine dei conti la line-up non è che sia un granché, tante belle speranze, ma sopratutto tanto conformismo, un evento assai tragico in un genere come il garage, oggi appiattito dalla moda esplosa in California.

La colpa, probabilmente, sta nell’aver ridotto la furia iconoclasta del garage rock (penso ai Monks, ai Troggs, agli Stooges) al semplice DIY (Do It Yourself), che aveva ancora un senso nell’hardcore punk, un senso perlopiù politico o comunque di antagonismo, ma oggi nell’era di internet, di Soundcloud e Bandcamp, significa che chiunque prenda una chitarra in mano e suoni “alla Sonics” faccia del sacro e intoccabile garage rock.

Ogni tanto ci siamo trovati di fronte a band che, sebbene apprezzino il movimento in sé, cercano di esporre una offerta musicale non proprio piatta come come l’encefalogramma di Gasparri. Ho recensito Ausmuteants (adorati dai garagisti italiani, giustamente), Nun, Dreamsalon, Molochs, Running, i Thee Oh Sees prima che a Dwyer gli fondesse il cervello, robe così insomma.

Quello che voglio dire, prima che vi posti la foto di io che mi masturbo rileggendomi («mmm, oooh come sono bravo, mmm»), è che i Magic Shoppe da Boston, Massachusetts, potrebbero rientrare tra quei gruppi che non si limitano a scopiazzare Moby Grape e compagnia cantante.

Al primo ascolto di ”Triangulum Astrale” li ho scambiati per i Brian Jonestown Massacre, e mi è sembrato un punto a favore mica male. Pensai: nel girone infernale della neo-folk-psychedelic ho forse pescato qualcosa di davvero interessante?

Magic Shoppe è un progetto di Josiah Webb, già collaboratore dei Ghost Box Orchestra (altra famosa realtà bostoniana) e batterista nei Difference Engine (band shoegaze degli anni ’90), che consta di ben quattro chitarristi, più un basso e batteria, senza contare almeno una quindicina di collaboratori esterni.

Da questo numeroso brain-storming uscì nel 2010 il loro primo EP, “Reverb”: un nome, una religione. Cugini moderni dei leggendari Spacemen 3, ma senza scadere nel revival copia-incolla, questi sei ometti si produssero in quattro tracce una più tosta dell’altro. Sì, ok, i riverberi, sì ok, l’eterno wannabe Velvet Underground, ma pezzi come Dead Poplar mica crescono nel giardino sotto casa tua. L’EP sembra nostalgico, ma non lo è nella sostanza, e sopratutto si rifà alla seconda età psichedelica senza scimmiottarla.

Nel 2011 con i quattro pezzi di “Reverb” più altri quattro completano il loro primo album: “Reverberation”, piuttosto osannato dalla critica underground che lo ha ascoltato (quindi due o tre blog), ma per me uno strano intruglio di cose che non mi sarei mai aspettato dopo il primo EP, e che mi lasciano talvolta più perplesso che convinto.

Time To Go sembra una canzone uscita fuori da un bootleg di Peter Gabriel, Transparency è un mix di shoegaze e soft rock non proprio riuscito, Haunted Hollywood è brutta anche senza i miei commenti, alla fine della giostra Burn Right Through è l’unica novità degna di nota. L’album però riscontra un certo interesse, anche perché, ed è vero, non è la solita sbobba.

Sembra che si sia persa la verve iniziale, e poi nel 2014 arriva questo EP che tutto potrebbe sembrare tranne che un album dei Magic Shoppe.

Sì, l’eco dei riverberi è rimasto (come anche quell’intro che apriva ogni pezzo di “Reverberation”, qua presente solo nella prima traccia), ma il suono è più caldo e acustico. Sembra quasi che i Brian Jonestown Massacre siano passati per fare quattro chiacchiere, e tra una lager e una canna ne sia venuto fuori questo EP.

Struttura dronica, grande cura del suono (con tutti i limiti di una produzione da due lire), ottima intesa tra i musicisti e sopratutto qualcosa da dire. Trip Inside This House e Midnight In The Garden potrebbero benissimo essere uscite nel 1995, magari nel secondo album dei soliti Brian Jonestown Massacre, ma al contrario del piglio elettrico e anarchico di “Methodrone”, qua si respira un’aria più riflessiva, e probabilmente Webb tira anche troppo sul freno a mano.

Non è un caso se il pezzo più intrigante di questo lavoro sia Shangri-La In Reverse, davvero una perla rara: sitar, le registrazioni delle chitarre mandate al contrario, campane tibetane, eppure con una personalità LORO, senza dover per forza sembrare dei cazzo di figli dei fiori come i Lejonsläktet!

Con più coraggio questa potrebbe essere una grande band, retaggio shoegaze, animo alternative anni ’90, buona conoscenza della psichedelia anni ’80, e una solida àncora che li lascia ormeggiati al nostro tempo.

Stiamo parlando solo di impressioni, di idee buttate lì, ma se qualcuno con un po’ più di coraggio è in ascolto forse potrebbe cavarci fuori qualcosa di interessante. E scusate se è poco!

All The Way è il pezzo che apre il loro primo EP, gustatevelo in live:

D’Angelo And The Vanguard, russian.girls, Gangbang Gordon, The Stevens, Total Control

INTERNETHATE

Le recensioni di oggi sono davvero particolari per questo blog, r’n’b, hip pop, pop sofisticato, tutta roba che di solito non prendo in esame per due motivi:

  • non mi interessano,
  • notoriamente non ci capisco una emerita mazza, ed è meglio star zitti quando non sai un signor cazzo dell’argomento.

Però, dato che sono un grandissimo cojone, voglio anch’io metter bocca su faccende che non mi riguardano. In fondo è a questo che serve internet, no?

Scherzi a parte (mamma che ridere) questi sono album che ho aquistato, che ho ascoltato parecchio e sui quali c’è qualcosa da dire (o da inveire, dipende) sennò col cacchio che mi mettevo a scrivere un post nella mia unica mattinata libera.

Eeeee via con le danze!

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angeloD’Angelo And The Vanguard – Black Messiah (2014)

[So bene che con questa recensione mi butterò addosso tanta di quella merda che da domani assomiglierò clamorosamente al demone-merda di Dogma, ma vabbè, succede.]

Esattamente come con i Goat l’opinione pubblica si è fatta sentire, tutti i critici nostrani ed internazionali si sono piegati a novanta per un nuovo album assolutamente inutile, “Black Messiah”. Ma è mai possibile che nel 2015 io debba sentirmi dire da riviste che si professano rock che un album di r’n’b una tacca sopra il riesumato Prince, oltretutto versione raffinata del r’n’b made in MTV, sia un fottuto capolavoro? Anche perché visto il plauso incondizionato di critici piuttosto “importanti” (tra cui l’uomo a cui piacciono gli Who ma “Tommy” gli fa cagare) io l’ho comprato subito, senza fiatare. Da perfetto idiota.

Tutta colpa di quei impasticcati dei Daft Punk e il loro dannato ritorno al funky, genere troppo spesso legato alla merda per eccellenza, la disco music, come nel caso dei due francesi, mentre i cari D’Angelo And The Vanguard (tornati dopo vent’anni con tanto di canale Vevo su YouTube!) sporcano il funk di r’n’b e reminiscenze Funkadelic, inutilmente pompate ed esasperate da testi politically incorrect, collocandosi così lontani dai balletti imbarazzanti con Pharrell, ma non per questo vanno adulati a-prescindere.

Che poi, come con i Goat, a me mica fanno cagare al 100%, il groove assassino di 1000 Deaths per esempio è indiscutibile, ci sono dei musicisti che venderebbero l’anima a Sly Stone per suonare così, però che cazzo c’è da dire su un album del genere? Ha un bel tiro, ha un bel groove, fine. E questo basterebbe a decretarlo a capolavoro?

Belle anche le liriche, ma nulla per cui strapparsi i capelli.

Dopo una settimana di ascolto ho messo sul piatto “Maggot Brain” dei Funkadelic, e credetemi: mi sono sentito una persona migliore.

link a YouTube

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10723566_472216169585570_1463938047_nrussian.girls – Old Stories (2014)

A rieccoci con la Lady Boy Records, etichetta islandese che ci ha già donati i Pink Street Boys. Stavolta con russian.girls la questione è piuttosto diversa, siamo davvero lontanissimi dal garage incasinato dei PSB e in generale da qualunque cosa suonata con una chitarra elettrica.

Questa strana creatura nasce dalla contorta mente di Guðlaugur Halldór Einarsson (impronunciabile membro dei Captain Fufanu, band elettronica sperimentale), una sorta di folle artista ambient autore di questo questo criptico “Old Stories”.

Il primo impatto con questo “Old Stories” è stato abbastanza… difficile (l’ho essenzialmente odiato) ma nel tempo mi sono reso conto che spesso tornavo all’ovile islandese per riascoltarmi certi passaggi, per riappropriarmi di certe sfumature. Era come se davanti a me si stagliassero colori e linee del tutto casuali, e non riuscissi a capire il senso di quegli schizzi informali. Ma allontanandomi progressivamente (con la mente) mi sono reso conto che il tutto faceva parte di un quadro troppo grande per risultare chiaro al primo colpo d’occhio.

“Old Stories” è praticamente la Psichedelia Occulta Islandese, un viaggio nelle trame esoteriche e criptiche delle loro discoteche e nella loro alienante modernità. E giuro di non essere ubriaco mentre sto scrivendo (il che fra l’altro è una novità).

Non so bene come categorizzare questo album, principalmente perché sono estremamente ignorante sul frangente ambient avant-garde e via dicendo, però roba come Snake Bloker (ovvero un’incubo cubista dei Tortoise) mi intriga per la sua lontananza dal mondo e dal mio modo di pensare (anche la musica).

Un’esperienza che consiglio a chi ha già dimestichezza col genere, altrimenti statene bene alla larga.

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a3621126830_10Gangbang Gordon – Culturally Irrevelerent [EP] (2014)

Della BUFU Records riparleremo sicuramente, e probabilmente proprio per Gangbang Gordon.

Dadaista, irriverente, sconclusionato, senza dover riprendere la de-strutturazione portata avanti dai maestri come Captain Beefheart o dai perfidi Pussy Galore, questo genio da Wakefield riesce a suo modo a de-costruire il garage moderno, con una leggerezza a tratti addirittura pop (Live At The ABC).

Fa tutto lui, chitarra, voce, batteria, drum machine, dj set, tutto in una maniera sfrontata e disorganica. Non so bene come riesca a distruggere le basi della melodia riuscendo comunque ad essere melodico. I ritmi “beefheartiani” di Passed In My MCAS Exam mescolati agli interventi new wave della chitarra non sembrano infatti lontani dall’immediatezza del garage pop di Jay Reatard, o dalle melodie perfette di Alex Chilton, il che, se permettete, è piuttosto notevole.

L’hip hop sgangherato di Orgullo de Rappers, il disorientamento ritmico, timbrico e armonico di Las Days of Work, praticamente tutto in questo album porta stupore e riflessione, ma senza la premessa di una presa per i fondelli della contemporaneità.

Infatti la cosa bella di Gangbang Gordon è che riesce ad ideare la sua musica a tratti nonsense guardandosi attorno e descrivendo quello che vede, con cura ma senza nemmeno pensarci troppo sopra, risultando molto più realistico e coerente di quanto possa sembrare ad un primo impatto.

L’angoscia e la confusione di Miss Cheevas credo chiarisca piuttosto bene le potenzialità espressive di questo sconosciuto one-man-show dal Massachusetts, uno degli EP più belli che ho ascoltato nell’anno appena passato.

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a2192467939_2The Stevens – A History Of Hygiene (2013)

Senza alcun dubbio il miglior album rock-pop del decennio, e per tanto non mi piace.

Detto questo questo, il viaggio composto da ben ventiquattro canzoni nell’adolescenza e nell’immaginario di inizi anni’90 di “A History Of Hygiene” è davvero ben costruito e perfettamente equilibrato, a tratti risulta persino evocativo.

Questi australiani ci sanno fare, le note malinconiche la fanno perlopiù da padrona, ma riescono quasi sempre a suscitare una nostalgia di tempi mai vissuti (The Long Vacation, Trail Of Debt, Legend In My Living Room, True Tales Of Half Time, o la elegiaca Come Outside e altre).

La cosa che mi convince di meno però è la ripetitività del sound e delle composizioni, che sì, possono anche cambiare ferocemente mood, ma senza mai riuscire a provocare un bel niente, né coi testi né con le idee musicali.

Ci sono anche delle influenze evidenti, come in Scared Of The Men che li avvicina a tratti agli Smiths, o un pizzico di Syd Barrett in pezzi come Blind In One Ear. Ci sono note più riflessive e interessanti dal punto di vista compositivo come Time Share Community Hall, insomma bisogna ammettere che del soft rock a tinte pop questo album riesce a condensare quasi tutto, ma senza mai svariare più di tanto.

Ecco però la cosa che mi convince di più: raramente ci si annoia. Il che potrebbe suonarvi strano, dato che vi ho appena detto che è un album essenzialmente con poche idee e rimescolate all’infinito, ma paradossalmente alla fine del lungo percorso ci si sente un po’ soli, anche perché i The Stevens, volenti o no, ti trascinano nei loro ricordi, nei loro angoli bui o luminosi, anche se sempre con troppa educazione e distacco per i miei gusti.

Chi ama questo album indica Hindsight come il pezzo di punta, ma a me le nenie alla Morrissey mi scassano abbastanza i coglioni (scusa Marta!) e gli preferisco di gran lunga l’angosciosa e “beatlesiana” Time Share Community Hall.

A mio avviso ben più interessanti dei tanto acclamati Pink Mountaintops di Stephen McBean.

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a2301055101_2Total Control – Typical System (2014)

Ci avevano lasciato i Total Control nel 2011 con lo stupefacente “Henge Beat” prodotto dalla Iron Lung Records di Seattle, un misto di Thee Oh Sees e Ultravox davvero azzardato, ma in linea con la nascente scena new post-punk californiana ora capitana dai Corners.

Parliamo un attimo di “Henge Beat”. Se la compattezza del synth in The Hammer sembra uscita dritta dritta da un album degli Human League, l’anthem garage di One More Tonight lasciava prospettare grandi fuochi d’artificio alla Ty Segall, una sorta di Ausmuteants più garage e meno synth, in pratica era un album riuscito a metà, dove non si capiva dove cacchio volevano andare a parare questi australiani! La cosa più bella è che TRE ANNI non sono serviti a schiarire le idee.

Non so se è un bene, ma il dialogo tra new wave e garage rock si fa ancora più denso in “Typical System”. Vi faccio un esempio con la seconda traccia, Expensive Dog, dove l’iniziale martellamento garage rock si perde a metà in una variazione new wave, per poi riprendere il ritmo forsennato alla Oblivians e infine ricadere in un incubo synth. Purtroppo questo dinamismo nella composizione non si ripeterà per tutto l’album, ma nei tratti in cui compare è evidente che le due passioni della band si stanno fondendo più armonicamente.

In effetti, a forza di riascoltare questo “Typical System” credo che un passo avanti i Total Control lo abbiano fatto, basta godersi il nichilismo esistenziale nelle liriche, o la distaccata ma potente Flesh War. Non me la sento di dire che siamo ai livelli dei Nun, anche perché in sole nove tracce non sempre l’estetica new wave risulta sufficiente a tenere botta.

Systematic Fuck ha degli interventi di chitarra sul finale che me lo rizzano, ma il resto del pezzo è del tutto fine a se stesso, noioso, ridondante. Liberal Party è semplicemente imbarazzante mentre The Ferryman è evidentemente un riempitivo, un riempitivo in un album di sole nove tracce!

Sebbene sia stato fatto un passo avanti importante (anche i 7 minuti densi di ottimo garage psych di Black Spring lo dimostranochiaramente) ancora il dialogo tra new wave, post punk e garage rock sembra raffazzonato, barcamenandosi tra grandissimi spunti e inutili variazioni sul tema.

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The Frowning Clouds – Legalize Everything

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Ok che mi piace da matti il garage rock, ok che mi piacciono le band australiane, ok che sono un sostenitore del “per fare qualcosa di nuovo devi prima imparare dalla tradizione”, ma sono anche convinto che “la tradizione è custodia del fuoco, non l’adorazione della cenere”, come disse il buon Gustav Mahler, e qui i The Frowning Clouds mi cascano proprio dal pero.

È inutile dire a giro che ti “ispiri” al garage rock, dì pure che vuoi fare la cover band di Kinks, Sound Sandwich, Crystal Chandelier e in generale riprendere il garage psych e blues senza aggiungerci nulla di più, così perlomeno sei onesto, non stai mica rubando in gioielleria!

Non solo, dopo l’esordio omonimo del 2013, con ben 14 tracce di pura nostalgia sonora, eccoli l’anno dopo sfornare “Legalize Everything”, praticamente una continuazione dell’album precedente. Manco il tentativo di migliorarsi nel fare la cover band!

Che poi mi stanno pure simpatici a me ‘sti cinque ragazzi, perché alcuni riff sono succosissimi (elettrizzante Carrier Drone) e riascoltare del garage blues che non siano i White Stripes ci può stare, anzi ci deve stare (No Blues), però dopo un po’ o sei fissato con questo genere o ti scassi i coglioni, è ineluttabile.

La voglia di ricongiungersi con i figli dei fiori è meno interessante di uno che si spacca bottiglie in testa. Mi spiego: se almeno Ty Segall, che non è propriamente un genio della composizione, ci mette la rabbia (un po’ borghese, ma va bene comunque) invece i Frowning Clouds ci buttano addosso nenie psichedeliche come Leopard Print Tint, cantante con gioia e piano piano, per non disturbare nessuno, non molto diversi da un Jeffrey Novak qualunque.

Su dodici pezzi almeno sei sembrano riempitivi. Non male.

Move It sembra uscita fuori da “The Piper At The Gates Of Dawn” con un finale finto sperimentale che ti fa prudere le mani.

Radio Telescope è un esercizio psichedelico che non si capisce bene cosa ci incastra col resto. Perchè non facciamo dei paragoni con la scorsa recensione, ovvero con “Trash from the Boys” dei Pink Street Boys, anche loro garagisti ma senza nostalgia? Ma sì dai. Anche lì ci troviamo di fronte ad una Korg Madness di cinque minuti che non va da nessuna parte, ma ha un senso nel contesto dell’album, la sua natura ripetitiva (“a bordone”, per gli stronzi) che ci trasporta dolcemente verso la loro personale idea di psichedelia, si congiunge col resto dell’album che vuole essere un tributo alla contemporanea stagione garage californiana ma allo stesso tempo la de-contestualizza nella fredda ed europea Islanda, d’altro canto in Radio Telescope subiamo due minuti e mezzo di rumori già sentiti e risentiti che dovrebbero rifarsi alla tradizione sixties, ed invece sono solo un triste copia-incolla di una sperimentazione morta e sepolta, ormai iper-sfruttata e prosciugata.

Che poi ti ascolti in cuffia una Somewhere Else ed è ovvio che apprezzi il lavoro sul suono, e anche le capacità tecniche della band, non pazzesche ma adeguate, però cazzo mi compro un qualsiasi album di Electric Prunes, Acid Gallery e compagnia cantante e sono a posto, a cosa mi servirebbe la stessa solfa solo registrata meglio? Boh.

Personalmente adoro il ritmo cadenzato di See The Girl, è proprio il genere che piace a me, però che dovrei dire? Mi piace=compralo? Di tutta l’incredibile scelta garage degli ultimi cinque anni i Frowning Clouds rientrano a far parte dei revivalist, ovvero quelli meno interessanti.

Ci sono a giro Molochs, Dreamsalon, Ausmuteants, ci siamo goduti i Thee Oh Sees che hanno riesumato Barrett e lo hanno riportato qui da noi, come fece per gli anni ’80 un certo Robyn Hitchcock, insomma, di roba che ha davvero riscoperto i sixties ma cercando di donargli la propria impronta e nuovi significati ne abbiamo ascoltata a bizzeffe. E questi non ci vanno nemmeno vicino.

Diciamo solo che se proprio hai bisogno di ballare al ritmo garage notte e giorno, e ti sei già stufato dei The Seeds, dei Monks e dei Rats perché ogni giorno vuoi un album nuovo da consumare, allora “Legalize Everything” saprà allietarti le prossime 24h.

Tra l’altro guardando il video che segue ho pensato che sarebbe il caso di recensire i The Memories, che fanno praticamente la stessa cosa solo con una auto-ironia feroce. Loro invece ci credono, cazzo.

Pink Street Boys – Trash from the Boys

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Loudest band in Iceland
(dal profilo Facebook della band)

We are garage rock. We are not trying to be garage rock, but we come to this scene because we are loud and obscene and we are not hardcore.
(Axel Björnsson, membro dei Pink Street Boys)

Ho sempre pensato che un’isola che venne scoperta da un tale Naddoddr non potesse che produrre metal a fiotti (lo stesso “Naddoddr” è un nome praticamente perfetto per qualunque band metal), ed invece nella sperduta Islanda, precisamente nella fredda Reykjavik, è nata la Lady Boy Records, una delle etichette più interessanti e intraprendenti di tutto il panorama europeo.

Con un catalogo ancora limitatissimo, dove si trova tanta avanguardia e curiose creature, c’è pure spazio per una stranissima band garage, forse la più atipica che abbiate mai sentito girare sul vostro piatto, i Pink Street Boys.

Ho smesso da tempo di fare le recensioni pezzo per pezzo, anche perché perlopiù inutili, ma in questo caso vale la pena di spenderci del tempo.

Già dalla prima traccia questo “Trash from the Boys” colpisce per la sua incompatibilità con tutta la scena garage psych contemporanea. Che cacchio sarebbe Up in Air? Sembra un sogno ad occhi aperti di White Fence, finalmente non apatico ma felice di questa vita tra Syd Barrett e album (i suoi) mediocri. Si percepisce dalla spigolosità degli interventi chitarristici la derivazione psichedelica, mentre la melodia sembra rubata ad un film Disney mai uscito perché troppo lisergico per dei bambini.

Il garage vero e proprio arriva subito con il secondo pezzo: Sleazus, con un pizzico di hardcore e la costante sensazione che qualcosa non quadri. È come se una band scesa da Marte si fosse appassionata di Shadows, Thee Oh Sees e Soft Boys, decidendo di tradurli nel loro linguaggio musicale.

La stessa cosa vale per Drullusama, Body Language e Warrior, la band riscrive a suo modo i canoni estetici del 90% delle band garage a giro in questo momento, ribaltando l’esigenza pop della Burger Records attraverso una commistione di sperimentazione e… boh, “spirito islandese”? In fondo Body Language potrebbe essere un pezzo di Ty Segall e Mikal Cronin, ma la volgarità del suono e dell’esecuzione manca effettivamente ai due californiani, più legati alla tradizione e quindi più prevedibili.

Persino Warrior sembra uscita fuori da “Floating Coffin”, l’ultimo album della madonna dei Thee Oh Sees, ma è come lo avrebbero suonato una cover band dei Residents!

Get Away è un altro tributo ai Thee Oh Sees, stavolta più fedele e legato all’acustico “Castlemania”.

In Psilocybe Semilanceata si percepisce il vento freddo fuori dalla sala di registrazione, mentre l’alcol scorre lento nelle vene, e una musica calda e acida inebria i nostri sensi, in una lenta spirale certamente disorientante ma dolcemente piacevole.

Kick the Trash Out è un minuto e mezzo di garage abrasivo, dove l’estetica dei Thee Oh Sees viene piegata a piacere della band.

L’attacco di Kassastarfsmaður probabilmente farebbe piangere d’invidia il buon Dwyer, cazzo è proprio quello che ci aspettavamo da “Drop” dei Thee Oh Sees, un passo avanti verso la psichedelia e un suono più disorientante, meno attenzione al pubblico e più al rumore, al fastidio.

Ecco, i cinque minuti di Korg Madness (il titolo è pienamente rispettato, fidatevi) valgono l’acquisto di questo “Trash from the Boys”. Non c’è un tentativo né di autocompiacimento né di compiacere il pubblico ormai frastornato, i Pink Street Boys si lasciano trascinare dalla marea travolgente del suono, ripetitivo, artificiale, come dei Kraftwerk sotto anfetamine. È circolare come Blow Daddy-o dei Pere Ubu, ma invece che inquietare aliena, ma è un’alienazione dolce, che sa di bourbon e neve.

La chiusura dell’album con Fautar non aggiunge molto al resto e suona come un riempitivo non ben nascosto.

Il quadro che ne esce fuori è piuttosto omogeneo, se non consideriamo l’apertura e la chiusura dell’album. Un garage sicuramente potente e ignorante, come vuole la tradizione, ma con una tocco particolare, unico, a tratti tremendamente glaciale, in altri quasi sperimentale.

Un album veramente curioso, ci ho trovato cose tremendamente banali e alcune stupefacenti, alla fine della giostra ascoltarlo mi diverte, è come un giocattolino rotto a cui ti sei affezionato senza un preciso motivo.

Per lasciarvi anche a voi col sorriso vi consiglio di leggere questa intervista ad uno dei membri della band, per il resto vi lascio con il lettore bandcamp qua sotto con tutto l’album e una stupefacente live con tanti pezzi ancora inediti.

Ausmuteants – Order of Operation

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Is there any shared creed, code, ideal or mantra that the band shares or lives by?
No fat chicks.

Vi piace il synth pop? Allora adorerete fino allo sfinimento gli Ausmuteants, pochi cazzi e fine della recensione.

No? Davvero? È che c’avrei da studiare per gli esami, da comprare le diciotto bottiglie di rosso per il poker di sabato e… e vabbè, prima il dovere poi la lussuria.

Direttamente dall’Australia (o almeno credo) gli Ausmuteants sono tra le quelle band che invece di guardare ai sixties si sta interessando agli eighties. Mentre i Dreamsalon riscoprono Pere Ubu e Fall, mentre i Corners si sfondano di Gun Club e synth punk, mentre i Nun risciacquano nel pop gli immortali Einstürzende Neubauten, questi pazzi Ausmuteants sono una sorta di Devo dei tempi moderni, solo che invece di addobbarsi come un albero di natale e professarsi cultori di una filosofia spicciola buona solamente per riempire le note dell’album, questi sono davvero fuori di testa.

Sebbene i suoni ricordino quelli degli ottanta più synth questa band è radicata nel suo tempo e il loro terzo album uscito quest’anno è senza troppi giri di parole un fottuto capolavoro, dove la follia dadaista è sinonimo di informazione (quella schizofrenica di internet), dove il porno non è più trasgressione, dove è inutile parlare di de-evoluzione ma piuttosto di de-personalizzazione progressiva del soggetto.

Order of Operation” è uscito a Settembre per la Goner e la Aarght Records, polverizzando di fatto tutta la scena garage, che dopo questo album sembra talmente fuori luogo da provocare un sincero imbarazzo anche a chi, come me, la adora anche nelle sue sfaccettature più ridondanti. La copertina richiama ai moderni manuali di istruzione per PC, con una fotocopiatrice in bella vista, eppure il senso di distacco del bianco-nero-grigio e quel suono così sintetizzato e freddo, nelle loro mani diventa pura furia punk.

Capisco che Bertoncelli consigli di non recensire più i singoli pezzi, ma come cazzo fai quando ti trovi di fronte a qualcosa di talmente paradossale come Bolling Point, dove il feedback degli Stooges e il ritmo ballabile dei Talking Heads si mescolano come cioccolata in polvere e latte, o forse no, o forse questi Ausmuteants sono veramente l’unica novità in una anno dove le riviste rock cercano nuovi spunti nell’elettronica, nella dubstep, nell’alt pop (che definizione di merda) o nei nuovi album di cinquantenni/sessantenni che ormai hanno dato tutto a tutti, tranne al fisco.

Quando parte Freedom Of Information non sai bene se stai ascoltando degli scapestrati dal CBGB o degli artistoidi da SoHo, ma poi le liriche ti riportano ad un mondo più reale, perché è quello che hai intorno mentre la ascolti.

Furia e demenzialità si incontrano in We’re Cops, una specie di hardcore punk suonato da dei Devo impasticcati, oppure sentite come le atmosfere dark dei Nun che si possono ritrovare nei primi istanti di Family Time vengano spazzate via dalla chitarra post punk di Shaun Connor o come direbbe Jake Robertson «fake synth punk», è meraviglioso come gli Ausmuteants riescano a declamare slogan senza senso o parlare di disgrazie (tra cui il suicidio) mantenendo sempre un’allegria nevrotica, è come ascoltare dei commenti su Facebook interpretati da David Thomas!

Quanto sono potenti e poetici i due minuti scarsi di Wrong? La poesia non è nel testo ma nella commistione tra testo e musica, proprio come nella diametralmente opposta Felix Tried To Kill Himself (composta mentre Robertson rifletteva sul proprio suicidio guardando La Strana Coppia di Gene Saks), proprio non mi spiego come facciano questi pazzi a riuscire a mantenere una così geniale tensione fra ritmo e liriche per tredici tracce, non rallentano mai, non si stancano, riescono sempre a trovare una melodia (o un rumore) dannatamente interessanti ed a incastonarci le parole giuste, non importa che sia un testo descrittivo o semplicemente casuale, l’effetto è sempre lo stesso: armonia.

Come si può realizzare in modo innovativo un classico pezzo stile inno punk come 1982? Ma è chiaro: con quel sound piatto del synth di Jake Robertson, quella chitarra pulita ma incazzata di Shaun Connor, la sezione ritmica garage punk di Marc Dean (basso) e Billy Gardener (batteria) sembra tutto banale e innovativo allo stesso tempo, non sai mai se gli Ausmuteants ti stanno prendendo per il culo oppure stanno facendo della fottuta arte inconsapevolmente.

C’è una importante evoluzione dall’esordio (“Slip Personalities”) e dal secondo album omonimo dell’anno scorso. Nel primo pagavano una certa sudditanza ai grandissimi Chrome, regalandoci comunque momenti notevoli (Blood Nose ha un giro di synth che mi fa impazzire), nel secondo i pezzi raramente superavano i due minuti e l’estetica alla Kraftwerk (troppo distaccata) ogni tanto veniva fuori, certo c’erano i Kinks (Bad Day è una geniale versione non-riesco-a-suonarla di You Really Got Me) e perle punk geniali come No Motivation, ovvero quello che gli Hives non sono riusciti ad essere in vent’anni di carriera in una sola canzone. Ma sopratutto Shaun ha preso in mano i testi e i concetti, elevando la band da semplici cantori delle solite stronzate (sesso, droga e rock and roll) a dissacratori delle stesse, rimescolandole, denudandole e contestualizzandole come poche band o forse nessuna, prima.

– Va bene – diranno i più rompicazzo – tanta roba, però non sono mica i Goat con le loro atmosfere anni ’70 e le influenze nordiche-mistiche-tribaleggianti-alt-rock, perché dici che ‘sti sgorbi hanno prodotto un capolavoro? – Perché quando quando dei ragazzini che hanno come copertina su Facebook una loro foto con indosso delle tette finte, tirano fuori un album così, dove si scoprono gli automatismi e la schizofrenia dell’informazione e della parola nei nostri giorni, allora SÌ, quella è arte.

Non so se ho sbattuto la testa troppo forte, ma dopo una settimana di ascolto “Order Of Operation” mi sembra sempre più bello, sempre più incredibile, sempre più un capolavoro del garage rock contemporaneo.

La citazione all’inizio dell’articolo, e le altre sparse a giro, le ho prese in prestito da questa bella intervista alla band dal mitico blog It’s Psychedelic Baby, ve la linko QUI.

Che si fa ora, ce li spariamo un paio di video? Massì, dai…

Perfomance in studio di Felix Tried To Kill Himself:

Live di Freedom Of Information, con alla voce Shaun Connor (il pezzo d’altronde è suo):

Psychomagic, The Molochs, Jefferitti’s Nile, Santoros

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L’operazione “rizzatil’uccello con la Lolipop Records” è iniziata! Se la Burger Records ha cominciato (e non da poco) a interessarsi a qualunque cosa si muova e suoni una chitarra, fregandosene della qualità (il più delle volte), la Lolipop è fedele al sacro vincolo dell’autenticità, quella forza latente nel rock che puoi esprimere solo urlando (o sussurrando) ad un microfono chi sei. Il loro catalogo da interessante è diventato il mio preferito in assoluto dopo pochi mesi di estenuante recupero, mica zucchine gente: questi due ragazzi californiani hanno tirato sù un’etichetta con i cojones belli grossi e bitorzoluti.

Dopo parecchi ascolti avrei dovuto scrivere parecchie recensioni, ma l’alcolismo e la pigrizia hanno preso nuovamente il sopravvento. Sembra che rum e studio non vadano d’accordo. Strano. Comunque sia, giusto perché è un imperativo categorico, ho fatto un enorme sforzo scrivendo brevissime recensioni di alcuni album che ho ascoltato di recente.

Alcuni sono carini, uno merdoso, un altro quasi un capolavoro, ma tutto sotto la illuminante guida della Lolipop, ultimo baluardo contro un garage rock sempre meno rock e sempre più moda.

Psychomagic – Psychomagic (2013)a3808446709_2

Se ieri sera fosse stati dalle parti di Los Angeles avreste potuto assistere ad uno show con The Memories, Joel Jerome, Wyatt Blair (progetto solista del batterista dei Mr.Elevator & The Brain Hotel) e Billy Changer (bassista nei Corners). Forse tra tutte queste realtà ormai consolidate della nuova scena garage vi sareste stupiti ad esaltarvi per gli sconosciuti Psychomagic dall’Oregon, protagonisti da qualche anno della scena psych garage.

Se non fosse per la Lolipop Records come avremmo fatto a scoprirli? I 43 scarni secondi di I Don’t Wanna Hold Your Hand sono troppo poco idioti per la Gnar Tapes, e troppo poco rock pop per la Burger. Le influenze pop di Mutated Love non devono spaventare, la linea psych è sostenuta dalle varie I’m Freak (ecco, questa quasi coerente con i prodotti della Gnar), I Wanna Be That Man, Hearthbroken Teenage Zombie Killer, ma le influenze che compongono questo album omonimo sono delle volte troppe.

C’è qualcosa di Late Of The Pier in I Just Wanna Go Home With You, ci troviamo addirittura il peggio di Elton John (sempre che ci sia un meglio) in Bottom Of The Sea!

Che razza di animale sia questo Psychomagic non ci è dato saperlo, un misto amarissimo di psych pop garage che delle volte esalta e altre tramortisce, senza però convincere del tutto.

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The Molochs – Forgetter Blues (2013)

Ma allora qualcuno che ha sposato la linea blues garage c’è! Certo, non è quella hard dei White Stripes, stavolta siamo su lidi molto intimisti, pregni di una poesia e di una potenza sconvolgenti.

Stiamo parlando probabilmente di una delle migliori band di tutta la scena contemporanea, motivo per cui non la troverete in cartellone con i big del momento, dato che se strafottono di aderire al sound patinato che sta facendo sbancare troppe band mediocri (Bass Drum Of Death, FIDLAR, Audacity), i The Molochs si rifanno ad un concetto di autenticità nella chitarra acustica che passa direttamente dal Greenwich Village fino ai Violent Femmes, così dolcemente disillusi, così dannatamente reali.

Il genio di Lucas Fitzsimons nel comporre musica perfetta per le sue ottime liriche è comprabile a quello di Warren Thomas, forse gli unici due cantori dei nostri giorni, alla faccia di certa merda che ci propinano le riviste passando fenomeni da baraccone come cantautori.

Il ritmo ineluttabile di una Oh, Man era davvero tempo che non lo ascoltavo, quanta amarezza in Drink the Dirt Like Wine, così minimale ed espressiva, lontanissima dalla freddezza e dall’isolamento di “Same Old News” di Tracy Bryan (Corners), non c’è un tentativo di descrizione né di allontanamento dal fruitore (come nella musica di Bryant), parole e musica seguono la melodia della necessità.

Stupenda, anzi: immensa cover di Syd Barrett, Wined & Dined, padrino della scena contemporanea come spesso ripeto e sottolineo, fino allo sfinimento.

Se vi volete bene (o se vi volete male ma non sapete esprimerlo) dovete comprare questo “Forgetter Blues”.

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Jefferitti’s Nile – The Electric Hour (2014)a2604003945_10

Non si fa che parlare di questo album da parecchi mesi, così alla fine ho dovuto acquistarlo! La potenza devastante e il wall of sound sono notevoli già di per sé, ma sono le miriadi di influenze sixties che compongono questo schizofrenico mosaico le protagoniste, spesso nella singola canzone ne puoi contare quattro o cinque.

Senza dubbio spaventerete non poco i vostri vicini mettendo a tutto volume Midnight Siren, tra Hawkwind, Ty Segall, Blue Cheer e la velata ma percepibile presenza dell’indie dei Late Of The Pier.

Detto questo dopo aver ascoltato a riascoltato “The Electric Hour” mi sono tremendamente annoiato. Va bene saturare lo spazio, va bene buttarci dentro grandi band come i Blue Cheer e gli Hawkwind, va bene passare da un genere all’altro senza troppi complimenti, però non c’è sostanza!

Insomma, prendete una band qualsiasi della Captcha Records che faccia psych e capirete che voglio dire. Qui la psichedelia è una scusa per mostrare un po’ di virtuosismo, tante paillette colorate e luci stroboscopiche, ma è tutta forma. Che cazzo di senso avrebbe quel gran casino di Stay On? Quale ricerca, quale concetto si cela dietro? Certo, direte voi, non è che per forza bisogna dare un senso profondo a tutto quello che si fa, sono d’accordo, solo che la musica dei Jefferitti’s Nile è pretenziosa, tracotante, barocca, senza motivo di esserlo!

Se fai due accordi e parli di quanto vorresti farti una canna mi sta bene, ma se devi fare terra bruciata del mio spazio vitale sonoro per infilarci tutto quello che ti passa per la tua mente bacata allora posso pretendere un minimo di senso, o no?

Ma poi quelle virate alla Coldplay in Upside? Non ve ne siete accorti? Davvero?

Mah, un album semplicemente ridicolo.

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a1462399879_10Santoros – Animals [EP] (2014) 

Ecco una band con le palle, pochi fronzoli e tante cazzate. Non lo nascondo: provo una profonda e poco dichiarata attrazione sessuale per i volti sudaticci dei Santoros, il loro psych garage sgraziato mi fa frizzare il ravanello. E poi sono messicani. Non lo so, mi sembra tutto troppo bello per essere vero!

Il lamento insopportabile di Jossef Virgen all’inizio di I Didn’t Know è di una bellezza estetica inarrivabile, le incursioni della chitarra di Adolfo Canales sono pura libidine.

L’attacco di Diego Pietro alla tastiera in Rabbits farebbe scendere una lacrima di pura gioia a Ray Manzarek. La sua successiva discesa negli inferi psych garage invece fa piangere d’invidia gli amici Mr.Elevator & The Brain Hotel, chissà come si è torturato le dita Thomas Dolas ascoltando questa Rabbits, un brano che dal vivo si presta al delirio totale, ma che trova la sua definizione nel sound unico e brillante dei Santoros.

Regà: so’ quattro dollari su Bandcamp. Quattro dollari, porcodemonio, quattro, manco lo so quanto viene in euro, meno di qualunque merda ingurgitiate durante la giornata, quindi poche scuse e comprate questo EP.

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I profondi segreti del garage rock texano

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Edinburg è una città di 70 mila abitanti circa nel polveroso Texas, girovagando nel suo centro troverete il Galax Z Fair un malfamato locale di musica alternativa aperto tutti i giorni a qualsiasi ora, non molto distante c’è anche la sede della Deep Secret, microscopica etichetta passata all’attenzione della ben più celebre Burger Records per via dell’astruso progetto del proprietario, riesumare il garage rock dei sixties… texani!

Michael Flanagan dice di aver studiato filosofia prima ad Austin e poi a San Antonio, non so bene quale riflessione intorno al logos o al dasein lo abbia portato a produrre musicassette di sconosciute band garage, ma per questo lo ringraziamo di cuore e vorremmo offrigli una birra al più presto.

Prima che esplodesse la moda in California Flanagan ha puntato tutto su un ritorno al disgraziato formato delle musicassette invece del solito vinile, non perché sia un hipster tra gli hipster (quello è Slow Magic), ma perché quel piatto di plastica nera costa troppo, mentre i cari vecchi tapes te li tirano dietro assieme agli improperi.

Grazie al supporto del festival locale gestito proprio dal Galax Z Fair, Flanagan trova sponsor per la sua etichetta e non pochi acquirenti. Il garage, sebbene ancora non sulle pagine delle riviste (siamo intorno al 2007) è già il fenomeno del momento, e Flanagan registra una compilation delle band che passano per il locale, selezionando quelle che secondo lui sono più meritevoli.

Il risultato è “Deep Secret Vol. 1” (uscito credo intorno al 2012), un delirio di psych garage, un collage schizzato di band perlopiù incapaci di tenere una chitarra in mano, ma dannatamente interessante. Difficile non innamorarsi di Crutches dei Vatican Beach, come dello scoordinato rock and roll dei KЯUX, la dichiarata incapacità dei The Puzzles troverebbe uno spazio di riguardo nella Gnar Tapes tra ubriachi fattoni che cantano Africa dei Toto e i melensi e ambigui The Memories. Ci sono anche sprizzi pop come in Soap Box dei Dandy Heat, o il meraviglioso blues strumentale dei Pyramid Mirror. “Deep Secret Vol. 1” non può passare inosservato e il culto comincia ad espandersi.

Con “Deep Secret Vol. 2” Flanagan alza il tiro e ripesca perle perdute tra il 1964 e il ’69 del garage texano, cominciando a dare una profondità storica alla sua ricerca musicale. Stiamo parlando probabilmente di una delle raccolte più belle di sempre assieme alle già leggendarie Nuggets e Back from the Grave, composta ancora da solo dodici pezzi “storici” ma decisamente gustosi.

Accenni di proto-hard rock in You Keep Me Hangin’ On dei Sight & Sounds, lo scapestrato garage alla Music Machine dei The Cavaliers, un atroce giro di synth per These Are The Tender Years dei The Esquires che del tutto irrazionalmente adoro fino allo sfinimento, i tamarrissimi Liberty Bell di Reality Is The Only Answer, non si butta niente per Flanagan, che per fortuna non ripesca necessariamente le band più legate agli stereotipi garage rock, ma anche chi ci è passato semplicemente vicino.

Notevole la chiusura strumentale, un garage surf rock travolgente con The Birds dei The Outcasts, il chitarrista che immagino sia sconosciuto mi ha conquistato per la sua indole casinista.

Dopo la riscoperta ecco “Deep Secret Vol. 3” uscito quest’estate, tutte band selezionate quest’anno e che meritano più di un ascolto. Dall’ottima presentazione con Hay Kamu! dei The Secret Prostitutes, fino a la luna dei The Rich Hands è un viaggio tra i più psichedelici che siano mai stati raccolti e distribuiti. 14 cazzutissime perle di psych garage di band che stanno riscoprendo i peccati dei loro padri per ripeterli il più fedelmente possibile, a soli 5 dollari su Bandcamp (quindi quanto, tre euro?).

Il fenomeno garage rock americano oltre a non essersi mai veramente fermato sta scoprendo una nuova linfa vitale, anche se già da dove è partito (California) si sta cominciando a guardare verso nuovi lidi, a riscoprire i suoni degli anni ’80 post punk (vedi Nun, Corners e Dreamsalon) sembra incredibile che nell’età di internet solo adesso in regioni lontane come il Texas (e, se avrò tempo, presto parleremo anche dell’Australia) stiano cominciando a esplodere festival garage rock. Forse un po’ del merito va anche a Michael Flanagan e al Galax Z Fair, chissà…

Eccovi un po’ di succosi link: cosa fa Flanagan nel tempo libero? Ha un canale YouTube ovviamente! Cliccate QUI se volete gustarvi qualche intervista alle band che passano per il Galax Z Fair, se invece volete saperne di più sol locale eccovi QUI un comodo link per la pagina Tumblr, se volete rimanere aggiornati sulle uscite della Deep Secret eccovi il QUI il link per la pagina Facebook. So’ troppo buono.

Froth – Patterns

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Froth? Ma che roba è?

Intanto una breve premessa sulla Burger Records.

Nel caso non la conosceste la Burger Records insieme a Drag City e Castle Face Records fa parte delle etichette californiane protagoniste del revival garage di questi anni. La Burger in particolare è la classica etichetta rock indipendente, una quantità inimmaginabile di band esordiscono con quel marchio a forma di cheesburger ogni anno, delle quali se ne salvano sette o otto all’anno.

La tattica di saturare il mercato solo di garage rock in tinta psichedelica ha un che di eroico, ma alla lunga sfrangia i coglioni.

Mentre la roba del loro catalogo intasa ogni angolo di camera mia ogni tanto spunta fuori una band veramente degna di nota. Ecco, i Froth sono tra questi.

Giovanissima band californiana piena di energia e acidi devastanti, con del talento che potrebbe in prospettiva portarci degli album notevoli, anche se questo album d’esordio, “Patterns” (2013), non è ancora un capolavoro.

Chitarra, voce e di un carismatico JooJoo Ashworth, al basso Jeremy Katz, Cameron Allen alla batteria e Jeff Fribourg… beh, lui suona l’omnichord.

Il loro garage non è rabbioso né acido, è trasognato, basta ascoltarsi la dolce nenia psichedelica di Oaxaca per apprezzare a pieno il loro sound così leggero da librarsi in aria. Una via di mezzo tra Mr. Elevator & The Brain Hotel e i primi indimenticabili Brian Jonestown Massacre, la chitarra e la voce di JooJoo sono il collante della band ed è l’elemento che viene subito colto quando “Patterns” scorre veloce sul piatto, la puntina non deve nemmeno abbassarsi troppo nei passaggi “eterei” che JooJoo strimpella in Not Myself.

I pezzi forti comunque sono quelli più psych garage, quanto sarà dannatamente accattivante Lost My Mind? Quante altre band avrebbero voluto scriverla? Dreamsalon, Thee Oh Sees (ai tempi di “Castlemania”), gli stessi Mr. Elevator & The Brain Hotel, magari pure i Quilt. I giri sixties dell’omnichord, le accelerazioni proto punk che fanno tanto Nuggets, sono elementi propri anche di General Education, altra perla di questo album.

Date un’occasione ai Froth, potreste non pentirvene.

  • Link Utili: per ascoltare l’intero album su Bandcamp clicca QUI, per dirgli quanto vi attizzano su Facebook cliccate QUI, se volete consultare il catalogo della Burger Records cliccate vigorosamente QUI.