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Non è colpa dei talent o del pubblico se la musica in Italia fa schifo

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Scrivo questo post dopo una serie di considerazioni su quest’altro comparso sul blog La Grande Concavità. Vi invito leggerlo ma se non vi andasse vi faccio un breve riassunto: l’autore cerca di spiegarsi il progressivo disinteresse verso la musica in Italia e punta il dito contro il pubblico, a suo dire sempre più assopito dalle nuove tecnologie e dai talent televisivi.

Sebbene comprenda a pieno il suo punto di vista, anche perché abbiamo tutti notato quanta gente preferisca fare video o foto ad un concerto piuttosto che ascoltarlo, credo che la colpa di questa di questa disaffezione sia invece causata al 90% dai musicisti stessi.

Avendo anche commentato sotto quel post vi riporto alcune considerazioni già presenti il quel commento.

Il Commento (Revisited)

Oggi abbiamo migliaia di possibilità di ascoltare musica durante la giornata (qualsiasi essa sia e proveniente da ogni parte del globo) e non siamo costretti a viverla come un rito se non ne siamo appassionati. Per me l’ascolto di un disco qualsiasi, da Ty Segall a Iannis Xenakis, è un momento di totale immersione, ma non deve esserlo per tutti!

Fino a qualche anno fa ascoltare musica nei locali o in radio era spesso l’unico modo per ascoltarla se non avevi molti soldi, o se le uniche musicassette che avevi erano quelle dei Matia Bazar che ti aveva regalato la zia a natale, oggi tutte quelle persone che non erano appassionate di musica ma ne volevano solo un po’ per conciliare la giornata, sono libere e quindi anche più disinteressate quando i suoni della band sul palco o su Radio Fiesole non gli stuzzicano il cervello più di tanto. Chi invece è appassionato di musica ora può ascoltarla e ricercarla senza limiti spazio-temporali e fruirne come più gli aggrada, e non solo: può espandere i propri interessi come mai prima d’ora. Fino a un decennio fa avere la discografia dei Residents era impossibile, trovare album come “Cauldron” dei Fifty Foot Hose o tutta l’opera di Francis Poulenc era un’impresa titanica, oggi spesso basta un click.

Si è persa la pazienza dell’ascoltare attivamente? No, semplicemente chi prima era costretto a sorbirsi lato A e B senza fiatare ora può farne a meno, e sono le stesse persone che lo avrebbero fatto anche prima se possibile. Naturalmente c’è il rischio di perdersi qualcosa che magari negli anni avresti riscoperto (qualche volte è capitato ad ognuno di noi!) ma per questo esistono i forum e i social network, indove trovare appassionati alla musica che ascolti è diventato facilissimo, anche se sei un cultore di robe astruse come Merzbow, e in una discussione su questo o quell’altro album può uscire fuori il nome di quel pezzo che avevi prematuramente cancellato dalla playlist.

Diciamo che oggi la quantità di stimoli è sì aumentata a dismisura ma non ne è aumentata proporzionalmente la qualità. È lì sta al critico e all’artista il compito di educare e appassionare l’ascoltatore.

Difficile che ci sia una cultura dell’ascolto in un paese dove non si insegna musica se non ai pochi che l’hanno scelta come percorso scolastico (o per i quali hanno scelto i genitori), è vero che si applaude per inerzia (già lamentava questa pratica un certo Freak Antoni nel 1978!) ma non solo ai concerti, anche a teatro dove uno spettacolo complesso e culturalmente stratificato di Antonio Latella è messo sullo stesso piano di uno parrocchiale sulla vita di San Francesco da un pubblico ormai sterile, ma non per colpa sua ma perché sono pochi gli artisti in Italia che fanno dell’arte una missione.

Gran parte delle band che ascolto in Italia (in particolare in Toscana) sono derivative e auto-referenziali, pretendono attenzione solo perché studiano lo strumento da anni e non perché abbiano composto qualcosa di valido. Manca la sfacciataggine e la voglia di sconvolgere il pubblico, la quale non è un mero mezzo per far parlare di sé ma bensì un modo piuttosto pratico di trascinare lo spettatore nel mondo del musicista. Nelle loro liriche i Troggs parlavano di sesso e non troppo tra le righe, gli Small Faces di droga, gli Who pure e nel frattempo spaccavano tutto, Alice Cooper dava sfogo alle turbe adolescenziali con un rock che doveva shockare proprio come la vita ci shocka ogni fottuto giorno quando si è giovani e pieni di brufoli, oggi per fare un esempio nostrano La Piramide di Sangue propone spettacoli quasi tribali e psicotropi che intortano il pubblico con rimandi fortemente ancestrali e mediterranei (e infatti fanno parte di una scena musicale italiana molto fertile e con un seguito molto attivo nell’ascolto).

Se la proposta musicale in primis è sottotono non ci si può aspettare interesse da parte del pubblico, il quale può ascoltarsi mentre è in treno “Shiny Beast (Bat Chain Puller)” o “Zeichnungen des Patienten” o i Mai Mai Mai piuttosto che i For Food e poi si va vedere l’ennesima band brit-pop o post-rock di ‘sto cazzo. E parlo del pubblico appassionato, perché gli altri, i disinteressati, sono sempre esistiti e sempre esisteranno.

A New York ho trovato locali pieni e grande interesse verso qualsiasi band, lo stesso vale per Belgrado o Amburgo. Ma quelle band si sono costruite un pubblico perché c’era un’idea dietro la loro musica (vedi il fenomeno nascente del drama-rock sulle sponde californiane, o l’interesse nell’Italia post-sessantottina per il prog) e non solo tecnica.

La verità è che le persone realmente interessate all’ascolto ascoltano altro, e non una massa inconsistente di band e musicisti che non appartengono a nessuna scena perché non hanno nessuna idea, oppure peggio ancora “suonano” quell’indie del cazzo alla Stato Sociale.

Ma… e i talent?

Molto semplicemente le stesse persone che prima guardavano Sanremo, o il Festivalbar, o i vecchi programmi radio di contest musicali ora si guardano i talent. Quel pubblico, attirato dalla fruibilità di una melodia italica e dalla immediatezza di una voce forte e nitida, ci sarà sempre perché c’è sempre stato.

Se una persona non è interessata ad approfondire la sua conoscenza musicale perché deve farlo? Se gli basta Tiziano Ferro perché deve si ascoltare Frank Zappa? Come mai la cosa dà così tanto fastidio poi!

La musica culturalmente rilevante è sempre stata apprezzata da una piccolissima parte della popolazione, anzi che dal ‘900 in poi quel pubblico si è allargato a dismisura in confronto ai tempi di rockstar come Carl Philipp Emanuel Bach.

Non ci sarà mai la fila ad un concerto di Antony Braxton o dei Pere Ubu, fatevene una ragione.

E i soldi in tutto ‘sto popò di predica dove li mettiamo?

Problema tutt’altro che secondario i big money. Oggi poi ci sono circa seicento blog solo su WordPress che sanno tutto su come farvi fare soldi suonando quello che vi pare, senza stampare un disco e senza fare una live, ma con l’uso di astruse tecniche di marketing che, deduco dal numero spropositato di siti e blog che ne parlano, funzionano alla grande.

Ironia a parte è un grossissimo problema fare soldi se come mestiere fai il musicista in questo Paese. Ma qui il problema è più ampio, provate a fare i registi teatrali o i costumisti, provate a fare i pittori o gli scultori, provare a fare i coreografi, gli scrittori, gli sceneggiatori cinematografici, i fumettisti, provate a fare dell’arte il vostro mestiere in Italia. Se ci riuscite le dodici fatiche di Ercole le potete affrontare tutte alla guida di una Punto col gomito di fuori e On the Road Again in heavy rotation sulla radio.

Non è un problema di pubblico o spettatori o fruitori, lo Stato crede poco nell’arte contemporanea in senso lato e preferisce investire sulla salvaguardia del nostro glorioso passato. Quel glorioso passato che va dalle rovine di Pompei che crollano di pezzo in pezzo ogni giorno, alle chiese medievali in ristrutturazione dall’inizio della riforma Protestante, fino ai palazzi nobiliari che diventano sedi di banche e via dicendo.

Poi ovviamente c’è il modo di sfondare senza leccarle il culo alle major o senza fare il verso a Jovanotti. Si chiama Superenalotto.

Ma esattamente che cazzo dovremmo fare?

E che te le devo dire io? Io sono solo un fruitore.

Il ruolo della critica

Andrebbe invece rivalutato il ruolo della critica, proprio oggi che non c’è più bisogno di comprarsi una rivista per sapere che se ti piacciono i Throbbing Gristle oltre ad essere un probabile sociopatico ci sono altre band simili a loro, perché quella funzione è oggi esautorata da una barra laterale di YouTube, è invece necessaria una figura che contestualizzi lo tsunami di proposte musicali contemporanee.

Più che filtrare il critico può come detto contestualizzare e interpreta l’idea di un artista, perché lui al contrario del fruitore medio passa buona parte della sua giornata a studiare l’oggetto della sua critica. Difficile godersi a pieno Mahler se non si hanno nozioni tecniche anche minime di musica, se non si sa che visse nella Vienna di Schiele, nell’epoca dei Tre saggi sulla teoria sessuale di Freud, come anche i già citati Pere Ubu se non si sa cosa sia la Patafisica, se non si conoscono i principali protagonisti del post-punk, se si è mai letto J.G. Ballard o visto Taxi Driver o Shivers. Ma il critico questa robaccia l’ha studiata per voi, e se non è uno stronzo megalomane può anche spiegarvi perché è tanto fica e perché ha influenzato il vostro amato o incomprensibile artista.

Abbiamo bisogno della critica, dei siti e dei blog, magari scritti da gente un po’ più preparati della media e di me, ma per quello c’è tempo.

Fino a qualche decennio fa il commento di un critico provocava riflessioni o scontri il più delle volte produttivi, non paragonabili ai commenti a caldo sotto un video di YouTube, anche se potrebbero benissimo essere il futuro se la sezione dei commenti fosse più curata dal punto di vista grafico, e se il tenore delle discussioni migliorasse come nei forum che andavano di moda anni e anni fa.

Il luogo e i mezzi della critica cambiano, anche la forma può e deve cambiare, ma non la serietà e la credibilità, che si basa unicamente sullo studio appassionato e fottutamente approfondito.

Morale della favola

Insomma, non date la colpa ai talent o al pubblico se quello che suonate non se lo fila nessuno, se credete che all’estero vi possa andare meglio PROVATECI PERDIO, che oggi le occasioni per farsi sentire da etichette francesi, inglesi, coreane ne avete a bizzeffe. Se volete svegliare un pubblico perso nel livellare su Dash Quest piuttosto che ascoltare la vostra sbobba, fate più casino, insultateli, dipingetevi la fava di rosso e suonate con quella, il rock è anche questo, è tirare fuori le tette goffamente mentre parte quel riff, è spaccare gli strumenti – di nuovo, è urlare al microfono «siete un pubblico di merda/ applaudite per inerzia», e magari vi diranno che siete volgari, che siete in cerca di attenzioni, che siete solo dei provocatori dementi. Però intanto parlano di voi, la gente vi ascolterà, e se dietro tutte le stronzate ci sarà qualcosa di interessante gli stronzi che preferiscono i Pussy Galore a Vasco Rossi se ne accorgeranno, vedrete.