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Free Cake For Every Creature – Pretty Good

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Why do you write music?
So I don’t have to take anti-depressants.
(Katie Bennett, leader dei Free Cake For Every Creature)

In occasione dell’uscita del nuovo album ormai prossimo sono lieto di consigliarvi ed esporvi “pretty good” (2014), in minuscolo, proprio come il nome della band: free cake for every creature.

Imparentati in qualche modo con The Gerbils e R.E.M., il loro è il pop punk più etereo che abbiate mai ascoltato. E non è tanto per i riff quasi accarezzati, ma per la voce innocente di Katie Bennett e per il suo essere così semplicemente “goofy”. E difatti nel pop punk di questa band non troviamo né la depressione forzata di tanti gruppi contemporanei né le riflessioni filosofiche degli anni ’90, Katie ci racconta il mondo attraverso i suoi occhi, con una lucidità ed un’ironia affascinanti.

Sebbene qualche pezzo sia rubato ai due album precedenti, questo ha un senso perché “pretty good” è il vero primo album dei fcfec, quello dove le insicurezze di “Shitty Beginnings” (2013, fra l’altro è il titolo, per un esordio, più bello di tutti i tempi) e “Freezing” (2014) se ne vanno, e lasciano spazio all’enorme personalità di Katie, che per quanto più che cantare stia sussurrando al microfono, le sue parole sono come urla catartiche che esplodono nel nostro profondo.

Mi ostino, sebbene sia deontologicamente scorretto, a scrivere il nome della band e dell’album in minuscolo proprio per rispettare il loro sguardo sui minuti movimenti dell’anima. Non credo di aver mai letto un testo più punk di too old to be a punk rock prodigy dai tempi dei mitici Violent Femmes. La fragile protesta mossa da una ventiduenne Katie contro chi la la vuole etichettare, una protesta anche troppo leggera per una che si è avvicinata ad un certo tipo di concetti grazie, almeno a suo dire, alle Riot Grrrls!, infatti sembra quasi surreale sentirsi dire:

i look too young yet already feel too old to do a lot of things
like wear a pumpkin pin to work or paint my nails green
and maybe it’s true i’m too old but i won’t let it stop me
i’ll let myself be too young to dye my hair blue
i’ll save it for when i turn seventy-two

ed invece è proprio una rivoluzione bella e buona, ma in piccolo, nel proprio privato, una rabbia che possiamo condividere e capire perché più simile alla nostra. Anche se non sono questi in particolare i problemi che spesso ci attanagliano, sono anche la cosa a cui più assomigliano, altro che Give Peace A Chance o We Are The World!

Ma la protesta è sempre positiva, non c’è mai un solo accenno alla sconfitta nei testi di Katie Bennett, non c’è spazio per l’autocommiserazione, non ci si piange addosso, e questo perché i racconti di Katie sono di una vita piena di scelte, mai statica, non tanto nel senso di viaggiare ma nei moti dell’anima (e questo un po’ ce lo accenna nella seconda strofa di rains even in summer).

C’è fame di presente più che di passato, c’è desiderio di nuovo piuttosto che di vecchio, come nella bellissima chiusa di first show:

$1.89 at stewart’s and a few minutes later
we were sort of drunk together on the roof of a parking garage
in the beginning of December
we were about to play our first show ever
at a bar, and were were a little nervous
but we didn’t go home

il qui, l’ora, senza il bisogno di fare voli pirandici o di citare per la milionesima volta L’Attimo Fuggente, non importa se le cose non sono esattamente come te le eri prefigurate, stai comunque andando avanti, anzi: sei ancora all’inizio.

Quello che differenzia free cake for every creature da band simili come All Dogs, Cherry GlazerrQuarterbacks e i Baby Mollusk di Rachel Gordon, non è una questione tecnica, piuttosto lo troviamo nella diversa visione dell’intimo. Anche i Quarterbacks ci raccontano un mondo intimo con leggerezza e con una dolce ineluttabilità, ma la visione strenuamente positiva e giocosa dei fcfec è unica nel suo genere.

Ci sono ovviamente delle note amare, ma sono sempre mescolate con l’ironia che Katie riesce a comunicarci con una veridicità travolgente, come in don’t go away ahumpf acgroomf o in it sucks hanging out with you (it even more when you leave).

Conclude l’album una cover dei R.E.M., ovviamente: It’s The End Of The World As We Know It (And I Feel Fine).

Credo sia chiaro che quello che Katie Bennett con i suoi Free Cake For Every Creature (adesso in maiuscolo, perché dobbiamo porci terzi nel giudizio) vogliono trasmettere sia che ognuno di noi ha qualcosa che ci fa star bene, il trucco sta nel fare solo quello per tutto il giorno, per tutta la vita, vivere sull’orlo del burrone mentre le fiamme avvolgono l’ambiente che ci circonda, ma sentirsi piuttosto bene.

Ehm, sono stato per parecchio tempo MOOOOOLTO occupato, tra lavoro, università, alcolismo, malattie varie e tanto, tanto, tanto lavoro. Adesso dovrei tornare in pianta stabile a vomitare sciocchezze e ovvietà su questo blog, ma non prometto niente, ok?

Audacity, The Blind Shake, White Night, Electric Citizen

Quattro succose recensioni in un solo post! Ma è così palese la mia pigrizia? Sigh…

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I californiani Audacity sono un nome che forse avrete già sentito, infaticabile band presente in più o meno tutti i festival punk-garage e giù di lì, nel 2012 pubblicano il loro primo album dopo due EP mediocri: “Mellow Cruisers”. Tutta energia punk rock, niente sostanza, un album adatto ai lunghi tragitti in auto (anche se con la sua mezz’ora scarsa di durata ci fate al massimo Pontassieve-Firenze), chiaramente siamo di fronte ad un prodotto che è sfizioso finché rimane a 5$, e con la premessa necessaria di una buona dose di euforia in corpo, perché gli Audacity non hanno molto da dare a parte il sudore.

  • prima impressione: 4/10
  • link a bandcamp: http://audacityca.bandcamp.com/

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Direttamente da Minneapolis nel ridente stato del Minnesota arrivano i The Blind Shake, e qui alziamo un po’ il tiro. Cattivi, garage, incazzati il giusto, magari senza le melodie più orecchiabili degli Audacity ma con qualcosa in più nella sostanza. Figli spirituali dei Rocket From The Crypt di John Reis (con cui hanno anche collaborato) nel loro secondo album, “Key to a False Door”, puntano su un mix bello deciso di garage e sudore, con quelle classiche cavalcate punk alla John Reis per l’appunto, qua e là troverete anche qualche riff memorabile (Le Pasion, Calligraphy, la surf-punk Crawl Out, Garbage on Glue e 555 Fade).

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Uscito nel maggio scorso “Prophets ov Templum CDXX” dei californiani White Night fa un casino della madonna, non inteso sempre come un aspetto positivo. Fughe pop come Alone sarebbero molto apprezzabili se accompagnate dall’eleganza melodica di un Jeffrey Novak o dalla vena psych dei White Fence, ed invece la caratteristica principale dei White Night è quella di non essere né carne né pesce. Non emozionano, non sperimentano, non fanno sufficiente casino, però suonano discretamente.

  • prima impressione: 4/10
  • link a bandcamp: http://whitenight420.bandcamp.com/album/prophets-ov-templum-cdxx

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Eppure c’è una band che potrebbe far faville, vengono dall’Ohio, si vestono da satanisti anni ’70, il loro hammond sembra uscito fuori dall’Inferno e sono probabilmente il prospetto hard rock più interessante del panorama contemporaneo. Gli Electric Citizen non hanno ancora pubblicato un cazzo (ma il loro primo album, “Sateen“, dovrebbe uscire il primo Luglio!), ci sono solo due singoli su bandcamp e qualcosina nella giungla dell’internet, ma bastano quei pochi ascolti per capire che la RidingEasy Records le sta azzeccando tutte da un pezzo. Non siamo sulle frequenze doom-blues dei Kadavar, né sul blues-rock dei Blue Pills, questo è hard rock vecchia scuola, Deep Purple e Black Sabbath ne sapevano qualcosa.

  • prima impressione: 7/10
  • link per prenotare ‘sta bellezza: http://ridingeasyrecords.com/product/electric-citizen-sateen-vinyl/

E ora video come se piovesse:

Questa è Burning in Hell, ditemi voi che ne pensate.

Altro riffone dei Electric Citizen registrato probabilmente col culo.

Altro singolo, Light Years Beyond.

Degli allegri Audacity con Subway Girls.

Un po’ di garage con Garbage on Glue dei The Blind Shake.

Minutemen – Double Nickels On The Dime

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Dopo il punk dannato e maledetto dei The Alley Cats, e quello beach e arrabbiato degli X, concludiamo questa brevissima e personalissima trilogia del punk californiano made in eighties con un disco che non è un disco, ma è il massimo risultato del punk come genere musicale.

Legati indissolubilmente al punk antagonista dell’hardcore anti-reaganiano, il loro sound è la geniale commistione di intuizioni musicali che spaziano dai Van Halen ai Bad Brains, dai Meat Puppets ai Hüsker Dü, fondendo jazz, funk e reggae il tutto nell’arco di canzoni brevissime ma sempre compiute.

I Minutemen sono stati una grande rock band, almeno fino al 1984.

Un trio di ottimi esecutori, dal compianto D. Boon (voce e chitarra: e che voce e che cazzo di chitarra!) al veloce ma dannatamente preciso George Hurley (batterista e talvolta voce), fino a Mike Watt, un bassista che è più un mito che un uomo, ma che adesso segue Iggy Pop nella sua inutile riesumazione di un furore punk leggermente anacronistico.

Dopo due ottimi album, “The Punch Line” (1981) e “What Makes a Man Start Fires?” (1983) i Minutemen hanno come una sorta di divinazione.

Non si sa bene come cazzo sia potuto succedere, insomma, fino a un anno prima questi tre facevano soltanto della buona musica, dichiaratamente democratici e incazzati fino al midollo con le politiche repressive e la mentalità da cavernicolo di Reagan, una band hardcore da rispettare e onorare, ma nel 1984 decisero, inconsciamente, di cambiare la storia del rock.

Se le vendite esaltavano l’ennesimo disco copia-incolla dei Queen, “The Work”, arrivato al successo grazie al singolo Radio Ga Ga (che già dal titolo fa intuire la profondità culturale e musicologica intrinseca), nessuno poteva di certo aspettarsi il successo che arriderà a questo trio hardcore.

Double Nickels On The Dimeè stato un terremoto che ha scosso le fondamenta di tutto il rock autentico. Le 45 tracce che compongono l’originale LP del 1984 sono l’esempio lampante di come delle volte il genio si manifesti senza preavviso, e di come il rock possa anche innalzarsi dalle sue chitarre suonate alla meno peggio e diventare Musica.

Un album di questa caratura va considerato da almeno tre punti di vista:

  • quello musicale
  • quello letterario
  • quello storico

In generale per fare una buona critica a qualsiasi album i tre punti sopra elencati vanno presi sempre in considerazione, ma il terzo album dei Minutemen è uno di quei rarissimi casi in cui la rivoluzione comprende tutti e tre i punti.

Musicalmente D. Boon, Watt e Hurley spingono al massimo l’acceleratore, velocizzandosi e raffinandosi ancora di più. È straordinario constatare con quale facilità la band abbia fuso tutte le maggiori intuizioni degli anni ’80 e ’70, guardando all’avant-garde come ai più materiali Black Flag, riuscendo allo stesso tempo a non ripetersi mai in 45 tracce. Il sound complessivo ne esce incredibilmente compatto, creando nell’arco di una ottantina di minuti un’esperienza unica e irripetibile.

La musica, sebbene tecnicamente tutto tranne che scontata, è anche fruibile. Al contrario di un rock destrutturato, come quello reso celebre da Captain Beefheart, o a esempi di estremismo come nel bellissimo “Right Now!” (1987) dei Pussy Galore, i Minutemen riescono a distruggere ed estremizzare senza sodomizzare l’ascoltatore, il che è innegabilmente un pregio.

A livello letterario siamo di fronte ad una sintesi della storia del linguaggio punk-rock. Dagli inni pacifisti all’introspezione indie, dalla poesia di Patti Smith al linguaggio volgare e irriverente dell’hardcore, Double Nickels è un compendio irrinunciabile per studiare il linguaggio sociale del rock, le liriche che parlano allo stomaco senza dimenticarsi del cervello, la perfetta simbiosi tra ritmo, melodia e rumore assieme al testo.

Per la storia della musica siamo invece di fronte ad un lavoro inarrivabile, un punto di riferimento per chiunque voglia intraprendere la carriera del rocker. Non solo Double Nickels si fa rappresentante musicale e sociale di un intero movimento, riuscendo al contempo a superarlo concettualmente, ma è anche un punto di incontro musicologico di altissimo livello che merita l’attenzione degli studiosi oltre che dei rimasti con le magliette dei Ramones tipo me.

Ammetto che sarebbe stimolante recensire pezzo per pezzo questo album, valutando con attenzione tutti gli spunti e le idee buttate all’interno di questo calderone infernale. Vi dico solo che comincia con l’accensione dell’auto di D. Boone, l’invito ad entrare in un viaggio modesto con tre amici punk che girano l’America tra concerti e avventure, che ne vedono e ne sentono di tutte, che te le raccontano spassionati tra una cerveza e l’altra, con i quali puoi scherzare, vomitare e magari confessarti, puoi dividerci una pizza o magari anche una ragazza, e che quando li lascerai andare via all’orizzonte non saprai mai dove e quando te li potresti ritrovare davanti.

Voto: 9,5/10.

The Alley Cats – Escape From The Planet Earth

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Con questo primo post vi propongo una sorta di trilogia del punk californiano degli anni ’80. Non sono i tre dischi più importanti, né i più infimi, in tutta sincerità riuscire a dare una collocazione storica in ordine di importanza a tutto il rock anni ’80 è ancora piuttosto difficile. Questo perché sono passati ancora pochi anni, e grandissima parte dei critici che ne hanno commentato la storia l’hanno vissuta in maniera troppo diretta per poter essere considerati dei giudici imparziali.

Oddio che rottura di coglioni ripetere sempre le solite cagate! ma è meglio pararsi il culo dagli haters del web e dai fan degli Arctic Monkeys.

Il primo è un gran bel disco, il secondo uno di quelli imprescindibili, l’ultimo un capolavoro del punk, del rock e dei cazzi più cazzi. Ma diamo inizio alle danze con i Cats:

Gli Alley Cats si formano negli anni ’70 e pubblicheranno solo due album, di cui uno è un caposaldo indiscusso del punk. “Escape From The Planet Earth” (1982) è uno di quei esempi sani di come il rock autentico faccia emozionare e sopratutto riflettere.

L’empatia è cercata e pienamente ottenuta, ed è forse la base da cui bisogna partire per assaporare questo album meno banale di come può apparire. In secondo piano ci mettiamo la tecnica micidiale dei tre componenti della band, la quale non può certo guastare.

L’anima punk di Randy Stodola e compagni farebbe arrossire qualsiasi seguace dei moderni Pete Doherty di ‘sta ceppa: malinconici, potenti, rabbiosi, fantascientifici, gothic, non lontani nella profondità dalle origini poetiche del punk (Patti Smith, ma solo per la profondità mica per l’esecuzione) ma lontanissimi dalle furie industriali di Detroit (Stooges, MC5) e in qualche modo vicini alle band che hanno portato il reggae in questo genere.

La fuga dal pianeta Terra che tentano gli Alley Cats è purtroppo solo metaforica, come tutti noi anche loro sono costretti a rimanerci, ma su questa terribile condizione – una moderna presa di coscienza della alienazione industriale (uno dei temi portanti della new wave fra l’altro), gli Alley Cats ci costruiranno un sound unico e irripetibile.

Se i Pere Ubu utilizzavano i rumori, il teatro dell’assurdo e le tastiere minimali e nevrasteniche di Ravenstine per descrivere la moderna alienazione, Stodola, Dianne Chai e John McCarthy più limitati dalle loro comunque straordinarie capacità, si rifugiano in un sound che ha tutte le caratteristiche tecniche di un punk spigliato, aggressivo sì ma non troppo da risultare gratuitamente provocatorio, ma che in realtà suona profondamente tetro e introspettivo.

L’unico momento rock è l’assolo finale di Waiting For The Buzz, il resto è punk californiano alla nuova maniera, seminando per strada molte impressioni e idee che saranno riprese a piene mani da tantissime band successive.

L’album si apre con la title track, Escape From The Planet Earth: uno dei più grandiosi pezzi punk-rock della storia. La voce di Stodola (piuttosto bassa, invece degli acuti nervosi cdi molti cantanti punk dell’epoca) ricorda un Joe Strummer disilluso, aiutato di sovente nei cori da una esotica Dianne Chai, l’aria che tira non è proprio delle più positive, ma la musica è impressionante nella sua immediatezza con una potenza espressiva incredibile. Si sente il grido di dolore, come si percepisce chiaramente anche la palese sconfitta della band, siamo agli antipodi della denuncia surf-punk degli X, si inveisce contro un malessere intangibile e come tale imbattibile.

Non c’è un pezzo che lasci insoddisfatti, semmai ci sono alcuni capolavori che si stagliano decisamente sugli altri pezzi. Tra questi la straordinaria Night Of The Living Dead, dalle atmosfere profondamente gothic, la dimensione orrorifica nei The Alley Cats è davvero sanguinolenta e oppressiva.

Bellissima anche  Just An Alley Cat, solita storia del ragazzino di diciassette anni che lascia la scuola (e che vive le sue giornate come un gatto randagio) ma immersa ormai in questa dimensione sonora che è una sorta di punk puro, scevro dalle infiltrazioni disco music di ultima generazione (il quasi-ignobile “Combat Rock” dei The Clash), ma la sua incorruttibilità non traspare tanto dalla musica quanto dallo spirito da cui essa è visitata (nota “heideggeriana” di discutibile valore).

Un disco imprescindibile, un capolavoro poco conosciuto forse, ma estremamente fruibile e godibile.

  • Pro: ci sono almeno tre pezzi che sono così belli da valere da soli l’acquisto.
  • Contro: non ne vedo, forse una minore ispirazione negli altri pezzi, e certamente una minore forza complessiva se comparato ad altri capolavori di quegli anni, ma niente di catastrofico.
  • Pezzo consigliato: Escape From The Planet Earth e Night Of The Living Dead.
  • Voto: 7,5/10