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RASSEGNA STAMPA #0 Critica alla critica rock italiana

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La critica rock in Italia non esiste.
Esiste semmai una critica musicale, la quale però ha un difettuccio alla base: voler essere Totale.

Il critico musicale medio italiano recensisce avant-jazz, avant-rock, avant-dubstep, avant-polka e così via, senza problemi, e lo fa da quando aveva diciannove anni appena compiuti.
Qualcosa non mi torna. Ma mica perché a diciannove anni io recensivo l’Uomo Ragno e i peggiori locali dove bere la peggior birra (cioè, anche per quello, ma vabbè) e non Moondog.

Bisogna intanto fare una premessa necessaria: almeno il 50% dei critici ha dalla sua un’ottima conoscenza musicologica, spesso sono anche musicisti di buon livello e sopratutto sono davvero appassionati della musica Tutta. Però non sanno esprimere un cazzo di concetto.

Lo stile del critico musicale italiano (perché, ricordiamocelo, la critica rock in Italia non esiste, ma ci torneremo magari in un altro post) si divide in due macro-categorie:

  • l’elegiaco citazionista (detto anche lUmbertoeco©)
  • il Lester Bangs de’ noantri©

L’Umbertoeco© è quel critico etnomusicologo che in 10 righe ti cita Flaubert, Heidegger, Evola, Papa Francesco e qualcosa di Alberto Basso (su Bach) mentre sta recensendo l’ultimo di Madonna. L’inutile prosa satura di citazioni enciclopediche che oltre alla mera masturbazione non solo non ti aiutano alla comprensione del dannato album, ma spesso lo trascendono andando verso la dimensione metafisica dell’Iperuranio lasciandoti estasiato e rincretinito allo stesso tempo.

Peccato che, con quei 20 o 30 € al mese che mi ritrovo per comprarmi qualche disco (saltando qualche pranzo) mi piacerebbe sapere cosa cazzo c’è dentro, non cosa frulla nella testa psicotica dell’Umbertoeco©.

Il Lester Bangs de’ noantri© è quel critico che molti credono rock. Ah! Il pavido discepolo di Bangs non capisce che non basta scrivere cazzate per trasformarsi nel suo mito di infanzia, perché Leslie era un poeta della critica, mentre lui è più vicino al pollo di bensoniana memoria. Per spiegarti l’ultimo degli Arcade Fire tira fuori una parabola sulla buona cottura del cotechino, per una review storica di un album degli Agent Orange parla dei suoi problemi con la ragazza, per esprimere quello che prova nei confronti di “Metal Machine Music” riempie la pagina di scarabocchi mettendo in crisi la redazione (ma come lo pubblichiamo???) ma lui è Il Poeta, Voi non lo potete capire. Ma manco io.

Tutta ‘sta menata per dire che?
Per dire che semplicemente quando compro una rivista di critica musicale mi sta bene trovare un bell’articolone di diciotto pagine sugli album fondamentali del rap thailandese, magari in stile Umbertoeco©, però le cazzo di recensioni da dodici righe che siano comprensibili!

Sintesi, prima di tutto, perché chiaramente c’è poco spazio, quindi evitare di parlare della nonna o scansare l’idea di utilizzare passaggi da Chiffren der Transzendez di Jaspers.
Si deve sapere il genere (senza per forza andare nel particolare, se si posso evitare i vari avant-indierockpsichedelicofolkmetal sarebbe gradito), si devono sapere le influenze (va bene quando sono mirate, ma non tirate fuori band conosciute solo da amici e parenti, perché se no siamo punto a capo) e infine un bel giudizio personale.

Il giudizio personale è la cifra, Pirsig direbbe il valore statico, che vi definisce e che permette al lettore di capire per cosa protende un critico. Se so che Tizio ama il punk e abbiamo gusti simili quando leggo una sua recensione di un disco punk mi oriento bene per l’acquisto, quando invece lo stesso tizio ne scrive una di un gruppo free jazz metto le mani avanti e aspetto il parere di qualcun altro prima di lanciarmi in negozio.

Qui scatta un altro problema, ovvero che il 90% dei critici italiani non ha gusti.

Sono arrivato a questa conclusione dopo anni di letture e ho notato che molte delle mitiche penne anni ’70 e ’80 si sono ammorbidite in modo indecoroso. E quelle che non si sono ammorbidite o sono quei giovani che dovrebbero dare fuoco a tutto, non hanno gusti, per cui gli piace tutto e recensiscono qualsiasi cosa con un entusiasmo trascinante. Però io non posso comprare tutto e sopratutto non avendo Te critico un metro di giudizio (ami qualsiasi cosa produca dei suoni/rumori) né dei fottuti gusti, dato che dici di amare gli MC5 ma adori anche gli Arcade Fire, sbavi per i Sonics ma anche per i Radiohead, ti fotteresti Arthur Brown ma anche King Krule, allora sei inutile.

Compro le riviste perché con due lire da spendere le voglio spendere bene. Nella mia finora breve vita ne ho prese di inculate micidiali grazie ai vari talentuosi critici di Buscadero, Mucchio, Rumore, Blow Up (e altre riviste metal e pop che compravo all’epoca del liceo ma che non vedono più la luce da anni). Probabilmente avessi usato i soldi degli abbonamenti comprando dischi a casaccio sarebbe andata meglio.

Gary Glitter, Utopia, Arctic Monkeys, il peggior album di Paul Weller, ma sopratutto i vari ultimi “capolavori” dei mostri considerati sacri (e che ho dovuto rivalutare profondamente) come Eric Burdon, David Bowie, Eric Clapton, Deep Purple e via dicendo, che impestano il mercato con la loro roba riciclata senza un minimo di creatività e con tanto marketing.

Per me se un critico scrive che l’ultimo dei Deep Purple (“Now What?!”, 2013) è un bel disco non capisce un cazzo di musica e di rock in particolare. Mi dispiace. Uno che considera “AM” (2013) degli Arctic Monkeys un potente e innovativo disco rock (e sottolineo: ROCK) ha un’idea di rock che non solo non combacia con la mia, ma che è chiaramente confusa e corrotta, o quantomeno soffre di disturbi bipolari.

Bene.

Questo post è una presentazione di una mia nuova e sempre simpatica rubrica dove andrò a elogiare o sputtanare senza rimorsi, con pochissima modestia (lo so che sono la feccia delle società, non ci sono problemi, mi sta bene così) e con tutta la rabbia di chi ha speso più di venti merdosi euro per “Glitter” di Gary Glitter, tutti gli articoli che troverò meritevoli della mia funesta ira.

Comincerò presto perché nei numeri di dicembre di Rumore e Blow Up ci sono delle chicche gustosissime.

Alla prossima.

Rock Tamarro (2)

Ritorna la vostra rubrica preferita, pervertiti! Voi che in una mano stringete “Burnt Weeny Sandwich” di Frank Zappa e nell’altra (quella zozza, la mascalzona) “Bat Out Of Hell III: The Monster Is Loose” di Meat Loaf.

Abbiamo tutti nella nostra collezione di album un angolo oscuro, un cassettone che non viene mai aperto se non nella totale solitudine, indove alberga l’osceno e irrazionale piacere del MALE.

Sì perché il rock tamarro è il male, come avevamo già detto qualche post fa:

Il rock tamarro è quel rock che esaspera le sue caratteristiche fino a farlo diventare caricaturale.

Non fate finta di niente, sapete bene di cosa parlo. Oppure siete metallari, e allora non capite un cazzo.

Eccovi dunque una breve lista di nuove perle, anche se stavolta bisogna fare attenzione e non vomitare insulti senza ragionare un pochino prima. Sono presenti delle eccezioni, quindi leggete anche la descrizione e indignatevi se vi insultano la mamma, non il vostro clavicembalista preferito, OK?

Cominciamo.

Raramente ho odiato un paese, un popolo, per aver partorito un qualsiasi orrore nella storia. In fondo le colpe dei padri non possono e non devono ricadere sui figli. Però per i Sektor Gaza (Сектор Газа), non c’è scappatoia che tenga: i  russi la devono pagare, e la devono pagare cara.
Pretendo, quantomeno, una colletta per ripagarmi dei 9 euro e 99 centesimi che mi è costato questo disco posseduto dall’unico demone senza gusto musicale.

No.
No.
Non mi interessa.
Non accetto che esistano persone che non solo vanno ai concerti di Russ Ballard, ma si comprano i suoi album consapevoli e accondiscendenti. In confronto a lui anche Meat Loaf sembra modesto come Madre Teresa e pudico come Papa Francesco. Mescola tutto il peggio dell’hair metal, il rock commerciale anni ’80, ci mette Sammy Hagar, i Van Halen, qualcosa degli ultimi Queen, il tutto con quella presenza ingombrante nelle live di laser e fumogeni. Ogni suo concerto sembra un serata barbecue in casa Moroder.

Gli Atomic Rooster suonano da Dio. C’hanno i capelloni, sono anni ’70 fino alle unghie smaltate dei piedi, sono hard, sono prog, sono inglesi. Hanno più o meno tutto quello che non sopporto nel rock. Per questo sono un piacere perverso. Tamarro per loro non è una offesa, è uno stile di vita che va dagli assoli lunghi otto ore agli effetti psichedelici senza senso né motivo di esistere, dai riff che passano di cassa in cassa circondandoti neanche fossi un fuggitivo da cinque stelle a GTA. I loro album sono tutti grandiose esplosioni di tamarraggine senza freni né vergogna. Gli Utopia gli fanno la bustina del tè, se capite cosa intendo.

Io amo i Mountain. Sì, mi piace l’hard rock, pazienza, abbiamo tutti un male che alberga dentro, pensate che c’è chi ama i Radiohead. Però, cazzo, questa cover che cacchio ci sta a fare? Cover poi è una parola grossa, questo è un chiaro caso di tamarrazione di un pezzo rock, roba che anche i buoni Smithereens hanno onestamente provato più volte a fare, ma senza questi risultati devastanti. Quando ascolto questa tamarrazione sento i miei capelli allungarsi e arricciarsi, i peli sul petto brillano di luce propria e fuoriescono da una camicia di lino con fantasie degne delle copertine dei Grateful Dead, riesco solo a parlare di pace amore e canne, cazzo: io odio i Mountain.

Per avere questa leccornia dovete proprio essere dei fumati come me, perché non è nell’edizione normale del vinile, ma in quella limitata, che mi è costata più di quanto ammetterei mai. Folli, commerciali, vestiti come negli incubi di un Jim Henson in stato lisergico, i mitici Doctor and the Medics di “Laughing at the Pieces” (1986) sono il massimo ritrovato medico contro Tom Waits, Ty Segall, Ramones e quanto di buono esista su questa terra.

È il lato oscuro, avrete il coraggio di esplorarlo?