Ultimamente, ma già da anni in realtà, acquistare dischi originali è diventata una spesa insostenibile.
Personalmente se tutto va bene riesco ad acquistare un album al mese, che non è poi così male perché c’è chi se la passa peggio. Internet aiuta, non solo con il file sharing e i vari peertopeer e lo streaming, ma anche con l’acquisto di album digitali a prezzi estremamente vantaggiosi (parlo chiaramente di band poco conosciute, le altre ti sfondano il culo con la sabbia, dannate rockstar multimiliardarie).
Di recente grazie al ritorno in auge del vinile le mie possibilità di ascoltare tutto quello che passa in giro si sono moltiplicate a dismisura. Non perché costino meno, ma perché posso passare intere giornate dal mio pusher di fiducia a far girare dischi sul piatto senza doverli comprare una volta ascoltati. Mica male, nevvero?
Se escludiamo i Boards of Canada, le altre tre recensioni che seguono sono state possibili grazie a questa pratica, tipica fra l’altro nel gentile mondo del vinile.
Le prime tre recensioni sono tre dischi molto chiacchierati dunque ero davvero curioso di ascoltarli!
Anche stavolta, come nell’unico caso precedente, le recensioni sono moooooolto più corte del solito perché, per quanto mi riguarda, c’è poco da dire.
Franz Ferdinand, “Right Thoughts, Right Words, Right Action”: Trovo incomprensibile come si parli ancora di brit-pop. L’invasione, la seconda, è stata qualitativamente assai povera. Il fatto che ci sia ancora gente che crede davvero che gli Oasis siano una buona band non mi sfiora, in fondo c’è chi crede che Fabio Volo sia uno scrittore, che dobbiamo fare? I Ferdinand arrivarono assieme ai Kaiser Chief e i Klaxons, un’invasione di mediocrità salvata da alcune idee interessanti degli ultimi citati. Questo ultimo album prosegue sull’inevitabile discesa della band, cominciata con un pop che strizzava l’occhio a forme prog tascabili, passata con “You Could Have It So Much Better” a sfornare singoli piuttosto appetitosi, e dopo di che il nulla, che ben si conferma con questo ennesimo disco fotocopia (con sempre meno inchiostro). Se vi piacciono può starci, però è un disco terribilmente modesto.
[voto: 4,5/10]
Kid Congo and The Pink Monkey Birds, “Haunted Head”: qui siamo di fronte ad un disco interessante che devo riascoltare con calma. Kid Congo è sinonimo di qualità, è il suono infatti è di qualità, ma lo è anche la musica? Ascoltando “Haunted Head” si rimane affascinati dal gusto dark del garage di Kid, ben studiato, forse troppo. Non c’è la goliardia dei Cramps, o la vivacità di un Return to the Haunted House dei Fleshtones, sembra quasi che l’album si concentri più sull’atmosfera che sul rock, il che sinceramente alla lunga stufa. Il disco comunque va ascoltato essendo una delle proposte più chiacchierate dell’anno (e non da Rolling Stone, tanto per intenderci). Insomma, ditemi un po’ anche voi che ne pensate!
[voto: 5/10]
Boards of Canada, “Tomorrow’s Harvest”: tutti parlano di questo album. Perché? Non ne ho idea in realtà, devo dire che ancora una volta i Boards si confermano tecnicamente (e tutti si stanno facendo i segoni mettendoli in confronto ai Fuck Buttons) però non capisco bene cosa dovrebbero comunicarmi quest’ultimo lavoro. “Leggerezza”, “speranza”, queste sono alcune delle parole utilizzate per descrivere il viaggio musicale accompagnati dai synth dei Boards, però, dannazione, che noia. I nostri sono tempi piuttosto complessi, pieni di tensioni internazionali, disgregazione sociale, la crisi economica, le rivoluzioni, invece per i Boards i problemi sembrano essere altri, anzi: non ne esistono proprio. Questo è un album per viaggiare forse al di là dell’ansia esistenziale del 2013, peccato che se davvero fosse così allora i toni dovrebbero essere più “allegri”, se invece fosse un viaggio più introspettivo un po’ più gravi e meno pop. Sinceramente i Boards of Canada, per quanto mi riguarda, fanno una musica simpaticamente estetica, ma nulla più.
[voto: 6/10]
The Dirty Streets, “Blade Of Grass”: sì! Questo è un buon acquisto! Tranquilli, è la cosa più lontana dal capolavoro che possiate immaginare, però è roba buona, autentica, senza pretese. Vi ricordate quelle fighette degli Answer? Band hard-rock-revival vestita come una cover band dei Deep Purple infighettati oltremodo (praticamente il male)? Bene, questi sono l’opposto, anche se fanno la stessa merda. Però gente, questa è merda di qualità, hard rock anni ’70 fatto bene, pochi cazzi. Undici pezzi a fuoco, nessuna pausa, nessuna melodia melensa (oddio, una in realtà ci sarebbe…), ovviamente se non vi piace il rock auto-referenziale e per fare le pulizie di casa ascoltate i Faust, allora questo album non fa per voi (insomma: uomo avvertito…).
[voto: 6/10]
Una piccola postfazione sul voto.
In alto troverete una pagina “la guida ai voti” dove spiego con che metro giudico gli album, in questo caso però vorrei specificare la diversità delle due sufficienze tra i Boards of Canada e i The Dirty Streets. I primi hanno una buona tecnica, sono musicisti proiettati verso il futuro mentre i Dirty rimembrano ancora con una certa nostalgia quei ’70 andati perduti. Però, come detto nella breve recensione, i Boards sfruttano questa tecnica senza dargli una direzione concettuale, è musica prettamente estetica, che ha poco a che fare con l’argomento principe di questo blog: il rock. I Dirty invece rockeggiano a tutto spiano, peccato che siano fuori tempo.
Due 6, ma con significati e valori piuttosto diversi.