Archivi tag: Robert Johnson

La Musica e il Diavolo

Articolo di: bfmealli

tumblr_nlp2mhGnX11rvoxobo1_1280

La musica, da sempre, è stata una questione religiosa. Per la sua impalpabile presenza e per la capacità di riuscire a toccare le nostre emozioni spesso viene accostata al divino, all’ultraterreno. La si attribuisce, infatti, a Dio o al Demonio a seconda degli intervalli usati, dall’umore ed infine anche dalle parole (ho il buon gusto di tralasciare il patetico scandalo dei dischi suonati al contrario e dei suoi relativi messaggi). Durante il medioevo, pare, che un compositore rischiasse il rogo se avesse avuto l’ardire di usare il tritono altresì chiamato diabolus in musica. Anche il primo Blues del Delta, quello degli hobos, che da Charley Patton fino a Robert Johnson ha portato alla nascita del Rock, anche quello, ai tempi, era considerato musica del diavolo.

Sono note le leggende dei due bluesmen sopracitati riguardo la vendita della propria anima in cambio di straordinarie capacità chitarristiche. “E’ facile”, raccontava Patton, “ti metti seduto al lato di uno dei molti incroci stradali del Mississippi, verso mezzanotte, e suoni la tua chitarra… improvvisamente comparirà innanzi a te il Diavolo, prenderà il tuo strumento ed inizierà a suonarlo in un modo mai sentito prima. Dopodiché te lo renderà e da adesso in poi suonerai proprio come ha suonato lui… sapendo, però, che la tua anima l’hai barattata per qualcosa di egualmente immortale.”

Sia Patton che Johnson morirono prematuramente ed entrambi hanno dato vita ad una spina dorsale musicale che tutt’ora viene suonata ed ascoltata. Anche per Robert Johnson fu più o meno simile il suo patto malefico solo che prima di questo evento, il giovanissimo musicista, era solito seguire i migliori bluesmen dell’epoca: Patton stesso, Son House e Willie Brown, i quali lo sbeffeggiavano e scacciarono per la sua palese incapacità con lo strumento. Poco tempo dopo, però, Robert si ripresentò dai suoi maestri, fresco di svendita dell’anima, e tirò fuori dalla sua sei corde un suono e dei brani che lasciarono di stucco quelli che prima lo deridevano. Nasceva con lui quel genere che, se elettrificato e retto da una sezione ritmica, sarebbe in seguito chiamato Blues Moderno.

Quello che mi ha sempre incuriosito del primo blues sono sostanzialmente due cose: la prima è che ogni chitarrista aveva sempre un suo stile personale, tanto da essere riconosciuto benissimo senza neanche sentirlo cantare; la seconda, più spirituale, sono i testi spesso sacri, vecchi gospel riadattati o brani originali che lodano, invocano e pregano Dio e Gesù mentre, al contempo, il Diavolo non è visto come il male assoluto quanto quasi come un vecchio amico un po’ balordo ma carismatico. Per certi versi era uno di loro, il Diavolo, che tra donne promiscue, sbronze colossali, pestaggi furiosi, furti, omicidi ed una forte passione per la musica, anche lui, come loro, non lo si poteva emarginare.

La storia di Blind Willie Johnson mi incuriosì: lui, cieco sin da bambino, quando la matrigna gli verso negli occhi dell’acido solforico, lei, fervente religiosa, durante un litigio con il padre del bambino. Nel resto della sua vita, Blind Willie Johnson, girovagava per il sud degli Stati Uniti con sua moglie ed insieme cantavano per le strade la grandezza, la magnificenza e la potenza del Signore Iddio. Un Signore forse un po’ crudele che se lo portò via di malaria a 48 anni.

Anche Skip James, donnaiolo impenitente, alcolista e rissaiolo, cantava di un dolore acuto e penoso come la sua voce, flebile ma profonda nello stesso modo. Poi un giorno sparì, lasciò tutto e tutti e si dedicò alla fede in modo attivo diventando un predicatore.

Più che il timore di Dio o del Diavolo questi vagabondi erano spaventati da un’altra divinità: la Morte. La Morte è sempre presente nelle canzoni di questi musicisti, come un’ombra silenziosa li seguiva e li terrorizzava tanto che cantarla, forse, avranno pensato, l’avrebbe tenuta lontana ancora per un po’.

Il Rock’n’Roll, qualche decennio dopo, esacerbò in modo massiccio l’idea della musica diabolica che il Blues, quasi, a confronto, era ben visto; il nuovo nemico era un ritmo a dodici battute accelerate e ritmato col salto di quarta. Se il Blues ti faceva riflettere il Rock’n’Roll ti faceva muovere, quindi avvicinare, toccare… non a caso la parola rock and roll ha un’implicita connotazione sessuale. Non solo la musica, non solo i balli osceni, ma anche i capelli lunghi, l’elettricità e la distorsione, i vestiti, i gesti, tutto si stava votando alla promiscuità.

I Rolling Stones empatizzarono con il diavolo in una loro famosissima canzone e, come leggenda vuole, fintanto che resteranno uniti saranno immortali. I Beatles furono involontari fautori del satanismo Mansoniano, i Led Zeppelin frequentarono l’esoterista Aleister Crowley e le varie simbologie sataniche. Dall’altra parte, intanto, Leonard Cohen scriveva una delle canzoni più famose al mondo, Hallelujah, ode al Signore ed all’amore; i Velvet Underground abbandonavano il sound dronico per una dolce ballata intima e toccante come Jesus, preghiera laica di rara dolcezza; i Byrds con Jesus Is Just Alright riproponevano un vecchio e religioso gospel. Il tempo e l’abitudine hanno banalizzato tutto questo, da una parte abbiamo smesso di stupirci delle rivoluzioni culturali che un genere musicale può generare, dall’altra siamo ormai pieni di “musiche del diavolo” che da anni, giocoforza, non ci facciamo più caso.

Alla fine di questa scheda, dopo la mia disamina, mi viene da pensare che il Diavolo, tutto sommato, non è poi così cattivo: chiunque riesca a dare, patti diabolici o meno, una musica così complessa, toccante, eterea ma viva, sincera e mai banale non può essere, ai miei occhi, un essere del tutto malvagio. Dio, invece, lo vedo più come un critico musicale onnipotente che, invece di farlo con una recensione, stronca precocemente la vita di colui che musicalmente non riesce ad apprezzare.

Se vuoi leggere altri deliri del buon vecchio bfmealli non hai che da cliccare qui: L’algebra del bisogno.

The White Stripes – The White Stripes

white-stripes-81

[AGGIORNAMENTO ALLUCINANTE: in un momento di noia ho recensito l’intera discografia di Jack White, la quale contiene una versione aggiornata di questo post, se volete farvi un giro non avete che da cliccare QUI.]

Il primo disco è sempre il migliore. A volte il secondo, e a volte persino il terzo, ma dal quarto in poi sono casi davvero rarissimi. A questa statistica non si sottraggono nemmeno i White Stripes di Jack e Meg White, due nomi (d’arte) che hanno attirato attorno a sé una montagna di gossip di cui, sinceramente, non ce ne frega una benamata mazza.

Appena una band diventa famosa parte a bomba la divinizzazione della stessa, con la conseguente “fame” di gossip: di che si fa Jack White? Ma Meg se la scopa? Perché chiamarsi Jack White se poi non fai una band con Jack Black? E via discorrendo.

Peccato che la musica non c’entri un bel niente con queste idiozie. C’è da dire che è nato a Denver, il che è fondamentale per comprendere i vari perché della sua musica. White è un bianco che si sposa con il blues dei neri mischiandolo con una buona dose di garage-rock, cresciuto nella città dove poteva meglio conoscere i classici dei due generi.

Le sue prime uscite come musicista non sono certo formidabili, ma pian piano Jack inizia a trovare uno stile tutto suo, già percepibile in “Makers Of High Grade Suites“, tre pezzi registrati assieme a uno dei fratelli Muldoon dei The Muldoons, usciti soltanto nel 2000.

Probabilmente “Makers Of High Grade Suites” è il lavoro che segnerà in maniera indelebile il sound della chitarra di White nei White Stripes, suono che perderà progressivamente con i The Raconteurs, e poi con i Dead Weather (dove spesso suonava la batteria) e infine nel suo ultimo lavoro da solista, “Blunderbuss (2012), dove riecheggia qualcosa del suo retaggio garage in Sixteen Saltines, anche se l’esecuzione è una delle più anonime del focoso chitarrista.

La voglia di spaccare i culi, comunque, sembra ormai persa. Intuibile forse già ai tempi di un suo flirt poco conosciuto con Beck in “Guero” (2005) dove suona il basso in Go It Alone con fare tragicamente blues sulla solita verve noise-intellettuale del bravo Beck. La sua attenzione per una musica meno intuitiva del garage trova la sua totale definizione in un progetto assieme a Alison Mosshart, l’eclettica cantante dei The Kills.

I Dead Weather sono stati un po’ la negazione di un percorso fin lì fatto da White. Non c’è una reale evoluzione in “Horehound” (2009) e in “Sea Of Cowards” (2010), al massimo una unione di intenti nel far convergere il sound dei Kills, dei Queens Of The Stone Age, dei The Raconteurs e dei White Stripes. Il solito super-gruppo insomma, un primo disco interessante (perché propone suoni interessanti) e un secondo noiosissimo (perché li ripropone spudoratamente).

Il dramma di White è quello di non aver trovato una valvola di sfogo ideale per la sua straordinaria creatività dopo l’esperienza degli Stripes. In generale trovo che il suo meglio lo dia proprio in quel garage-rock con tinte blues che caratterizzano i suoi lavori iniziali, piuttosto che in questa sua veste moderna di vate del rock and roll in tinta twist, che sebbene produca dei bei pezzi non hanno nemmeno l’ombra dell’energia e della potenza di dischi come “De Stijl” (2000) e “White Blood Cells” (2001).

Poi ci sono i premi, le collaborazioni, i film (abbastanza divertente il corto dove Meg e Jack interpretano se stessi) e tantissima altra roba, però per la lista della spesa esistono le biografie.

Una di cosa di cui invece proprio non mi capacito è lo schieramento netto che si è creato contro il primo disco degli Stripes (che spesso si allarga ai primi tre). Ho letto addirittura che “White Blood Cells” sarebbe un disco studiato a tavolino perché è il terzo disco di una serie di album tutti uguali (che è una spiegazione del cavolo, a questo punto gente come Zorn, Segall e Zappa vanno a farsi friggere).

Il primo disco degli Stripes risente ancora tantissimo dell’esperienza con “Makers Of High Grade Suites”, è sopratutto garage, e di certo non è così banale come lo vogliono far passare. Inoltre parlare di banale nel garage è qualcosa di talmente idiota che è difficile da categorizzare. Dai The Castaways ai The Datsuns sono cambiati gli strumenti, sono migliorate le sale di registrazione, ci sono state tantissime influenze che hanno cambiato il sound tipico di questo genere, e il garage nei primi del 2000 ad un certo punto divenne un’accozzaglia di cose spesso difficilmente definibili (con questo non voglio certo dire che è tutta merda, diosanto! Cioè, quanto amo io “Electric Sweat” dei The Mooney Suzuki pochi al mondo!).

Quello che hanno fatto gli Stripes è stato portare indietro le lancette, riportare il garage ad essere diretto, sincero e ingenuo, quando ancora i metri di paragone erano Son House e gli Stooges. Se poi prendiamo in esame proprio questi anni c’è nel garage un ritorno alle origini pazzesco, si ruba ai MC5 ma anche al primo garage di origine psichedelica, si riprendono i Rats, si riprende Kim Fowley, si riprende anche gente fuori dagli schemi come Syd Barrett!

I primi tre dischi, sputtanati dalla critica italiana, hanno anticipato di almeno cinque-sette anni questa tendenza. Ty Segall, oggi, lo dimostra abbastanza bene.

Detto questo il garage degli Stripes si esaurirà ad una velocità sorprendente, e il minimalismo voluto da Jack White verrà ripreso solo in parte, anche se credo sia una delle cose più belle mai fatte nel garage, perché unica nella sua semplicità. Alla faccia dei detrattori.

The White Stripes-The White Stripes

Il disco è prodotto dalla Sympathy for the Record Industry, una delle più gloriose etichette americane, che annovera talenti del calibro dei Bad Religion, dei Suicide, i Von Bondies (con i quali White ha avuto un forte diverbio tempo fa), i New York Dolls e addirittura i The Gun Club. Non male!

L’album è decisamente eterogeneo nel sound, la chitarra troneggia con riff minimali, nessuna distorsione barocca, niente assoli da undici minuti, zero virtuosismo, siamo proprio tornati alle basi, solo energia.

Jimmy The Exploder è questo ed altro. Il punto di forza di White è certamente la facilità con cui introduce riff su riff. Il ragazzo non si prodiga in copia-incolla, è piuttosto ispirato, semmai.

Consideriamo un attimo la questione della batteria di Meg. Non è Meg che suona male, Meg suona semplicemente da cani, ma è questo quello che sa fare, ed è questo quello che Jack vuole da lei. White non fa la sua musica e poi ci mette Meg, ma costruisce i pezzi partendo proprio dai suoi ritmi da “scimmione” (definizione sua, mi astengo da giudizi estetici), in pratica utilizza i ritmi di questa batteria minimale per non uscire fuori dagli schemi, si pone un auto-limite antro il quale fare esplodere la sua creatività.
Poco originale?
Va bene…

Il disco scorre giù veloce e assassino, Stop Breaking Down, del grande Robert Johnson, è un pezzo forte, rapido e minimalista, ma in potenza anche lento e barocco, The Big Three Killed My Baby è uno dei singoli con più forza degli ultimi anni del garage, Suzy Lee viaggia sulle corde del blues e del garage come in Sugar Never Tasted So Good.

Bellissime Cannon e Astro, un paio di accordi, potenza e quella vocina straziante di Jack che urla al microfono.

I pezzi sono tutti i ottima fattura, come anche la cover di Dylan (One More Cup Of Coffee) e l’ennesima versione del classico blues St. James Infirmary, che, udite udite, trova in questo disco degli Stripes la sua consacrazione, almeno per me (mi fa tremare le budella, che ci posso fare?).

Il disco si chiude con la luciferina I Fought Piranhas, bellissima prova di slide e potenza.

C’è poco da dire su questo disco, ma molto da ascoltare.
Magari stavolta con un po’ più di umiltà.

  • Pro: garage non purissimo, un ritorno alle origini del genere nelle sue venature più blues.
  • Contro: troppo leggero. Sebbene ci siano delle sferzate anche importanti, pezzi come  When I Hear My Name sono potenzialmente delle bombe, ed invece sembra che White preferisca la versione light.
  • Pezzo Consigliato: amo Astro. Lo so che ho qualcosa di sbagliato dentro, ma sono fatto così!
  • Voto: 7/10

[approfitto degli Stripes per informarvi che ho un nuovo blog (ancora???) di recensioni cinematografiche, Alla Ricerca Del Bellerofonte]

The Rolling Stones – Tattoo You

Rolling Stones

“Tatto You” non è stato semplicemente un fottuto disco di rock and roll, è stato l’ultimo album rock degno di questo nome. Da allora si è vista tanta roba, ma il rock classico finisce nel 1981 con questa bellezza (o cagata assoluta, dipende dai gusti). [aggiunta 08/11/14: sì, ho scritto una puttanata micidiale, però ogni tanto ci vuole, almeno per ricordarci che il genepì a colazione non fa bene]

In “Tattoo You” non ci sono capolavori come Street Fighting Man, non c’è Paint It Black, non c’è la bellissima Stray Cat Blues, c’è solo un ritorno ad un sound più puro, più semplice, più blues e a volte semplicemente molto Rolling Stones.

Se vi dicono che i Rolling Stones hanno fatto la loro fortuna sulle spalle dei grandi del blues, passando senza ritegno da Robert Johnson a Muddy Waters, beh, hanno ragione da vendere, ma questi ragazzi bianchi hanno preso quanto c’era di importante in quelle note ispirate da Dio (anche se Lester Bangs direbbe «da Satana») e l’hanno portato da noi lasciando che potessimo cibarcene.

Il blues (sopratutto nella sua accezione rock) è una musica che parla alle budella, non alla testa. È inutile che vi infangate con roba tipo John Zorn o Nico, a che vi serve se prima non avete assaporato quella musica da cui tutto, volente o nolente, proviene.

Se credete di parlare di roba “alta” concedendovi un chiacchierata su Led Zeppelin, Deep Purple o Rolling Stones siete proprio fuori strada. Non era di certo musica per i palati fini quella, non è fatta per riflettere troppo, quel momento di psichedelia di Whole Lotta Love che poi esplode nelle mani di Bonham che ci fa tornare nella realtà non serve per poter concentrarci meglio verso le derive esistenzialiste di Céline, e di certo la suadente progressione di As The Sun Still Burns Away dei Ten Years After non è concepita per una serata accompagnata da una gara di sonetti improvvisati tra amici.

Quello che facevano tanto tempo fa i Rolling Stones era mettere lì un paio di note una dietro l’altra e farti balzare dalla sedia come un pischello. Tutto tranne che la miglior band rock di sempre, anche se sono sempre restio nel dare delle classifiche, chi vi fa credere che esiste un metro di giudizio oggettivo nella musica rock probabilmente è un flippato che crede che pure le feci di Frank Zappa su un piatto suonino divinamente.

Tattoo You

Ovviamente registrato sotto la Rolling Stones Records, il disco è un mix perverso di pezzi tirati a caso tra jam session e registrazioni di altri album, il tutto ben confezionato da esperti di marketing e da un grandissimo copertinista come Peter Corriston.
Non c’è molto da dire su questo album, perché và ascoltato senza pretese e senza alcuna guida, lasciandosi trasportare.

Start Me Up fu un grande successo pure come 45 giri, le radio in tutto il mondo l’hanno mandata per anni, e ancora oggi il suo riff fa la sua porca figura. Una vitalità così in un disco rock raramente si ripresenterà.

Con Hang Fire si capisce subito che i Rolling Stones volano basso, che gliene frega a loro? Non percepite come hanno ormai appreso quello che serve? Come non si può almeno rimanere basiti dalla facilità con cui gli Stones ormai padroneggiano questo linguaggio musicale? Al di là dei meriti, sappiamo bene tutti che i Rolling Stones non valgono una gamba di band come gli Who o i Soft Machine, ma non stiamo parlando di roba così, parliamo di qualcosa in basso, ma non per questo meno apprezzabile.

Slave per me è meglio di un orgasmo. Sei minuti e mezzo in cui la linea di basso e la batteria vanno avanti imperterriti, Richards ogni tanto lo perdiamo per strada, Jagger insieme a Pete Townsend (che ci fa non lo so) si fa capo corista di un gospel scarno, senza profondità, senza poesia, al sassofono Theodore Walter “Sonny” Rollins mi fa sognare, seguo le note fino all’ultimo, e mentre il fruscio del vinile prende il loro posto sono ancora estasiato.

Little T & A è il pezzo più bello disco, semplice, rock, Keith Richards canta una folle cavalcata rock and roll che nel 1981 sta per diventare, di punto in bianco, tragicamente anacronistica (pezzo che la fa la sua porca figura anche in Argo, l’ultimo film di Affleck).

Conferma il trend, in chiave molto più nera, Black Limousine,  un tripudio di scontatezze certamente, ma in grande stile. Una goduria per uno schifoso masticatore di blues.

Neighbours è stato un pezzo abbastanza fortunato degli Stones, il che non è poco considerano la loro sterminata produzione di singoli di successo. Si torna ad un sound più moderno, un sound che caratterizza i Rolling Stones nel periodo di passaggio tra i ’70 e gli ’80.

“Stu” si fa sentire con quel soffice tocco d’organo di Worried About You, Jagger si lascia andare completamente e tocca tutte le sue corde, dall’incantatore di Angie al ruggito di Satisfaction.

Tops è l’ennesimo pezzo effimero e perfetto, incastonato in un disco che suona da solo, una volta preso il via i Rolling Stones sono andati dritto per dritto. I cori, fra l’altro, mi ricordano qualcosa dei bravi MGMT.

Heaven ripropone invece quelle atmosfere pseudo-psichedeliche che secondo me non hanno mai trovato motivo di esistere nella discografia dei Rolling Stones.

No Use In Crying riporta sui binari giusti la discussione. Dopo un minuto e mezzo Jagger trasforma questa semplicissima linea melodica in uno dei pezzi più ispirati della lunga carriera di questa band.

Il disco si conclude con Waiting On A Friend, uno sguardo verso questi ottanta che sono arrivati, e nei quali i Rolling Stones resteranno poco più che delle macchiette di loro stessi, come è in fondo tutt’ora.

Per me questo è il disco che segna il passaggio, il rock dei cosiddetti dinosauri è finito, non resta che qualche rimasuglio qua e là in queste tracce del 1981.

  • Pro: blues-rock d’annata, l’ultimo disco dei Rolling Stones (ascoltabile).
  • Contro: per i miei gusti troppe ballate, e Heaven non sa davvero di niente, ma proprio di nulla assoluto. Lato A tre volte più interessante del lato B.
  • Pezzo Consigliato: Little T & A è una chicca, rock and roll vecchia maniera, spensierato e senza pretese.
  • Voto: 6/10