Se avete quest’album e avete già letto un paio di tonnellate di recensioni e volete leggervi pure questa allora sappiate che siete messi maluccio.
Se non sapete cosa sia questo album proseguite nella recensione come se niente fosse.
Di “Trout Mask Replica” ne sentirete parlare come “il più grande album di tutti i tempi” o come “le mie scoregge suonano meglio e puzzano meno”. Quando ci si trova di fronte ad un opera che divide e polarizza la discussione in modo così deciso bisogna innanzi tutto fare ordine.
La cosa migliore sarebbe questa: fregatevene di cosa ne dice la g-gente, compratevi ‘sto dannato disco e mettetelo sul piatto, fatelo girare ben ben e accostate la puntina con estrema lentezza per gustarvelo in santa pace. Oppure scaricatelo da iTunes e fatelo partire sul vostro asettico iPod. Ecco, ascoltatelo con leggerezza, con divertimento e senza troppe seghe mentali. Se vi piacerà, bene, se non vi piacerà, chissene, avanti il prossimo!
Ma, ehi, quando devi tirarci sù una critica costruttiva allora non puoi mica svignartela così bello mio.
È facile dire: l’ho letto su Wire, è un fottuto capolavoro, quindi zitto e muto!
Come è altrettanto facile affermare: non sa di un cazzo, è fatto per ridere, perché dovrebbe essere il disco più figo del rock se non suona nemmeno rock???
Però queste non sono discussioni in merito ad un album, ma bisticci idioti senza direzione.
La critica musicale non ha apprezzato all’unanimità TMR alla sua uscita. Gran parte degli elogi venivano dalla critica rock più “estrema” e riluttante ai soliti nomi che vivacchiavano in alto alle classifiche, e anche da una parte della critica jazz con forti accezioni fortemente sperimentali.
Nel corso della storia l’album in questione è stato pian piano riconosciuto universalmente come un capolavoro unico e irripetibile, e sono pochissimi (sempre che esistano) i critici musicali che mettono in dubbio la caratura di questo disco.
Ma ovviamente la critica musicale non è tutto, anche se in questo campo è la voce più autorevole (sopratutto quando un album è ormai storicizzato e può essere valutato in modo più oggettivo).
Probabilmente la parte più complessa nel valutare oggettivamente un album risiede nel momento in cui ti rendi conto che quell’album ti fa cagare.
La prima volta che ascoltai TMR mi piacque, quindi non faccio testo, ma è più comune che avvenga il contrario data l’unicità compositiva che lo diversifica in modo così violento da tutta la produzione rock fino al 1969, e che ancora oggi trova pochi esempi egualmente al limite.
Detto ciò io ho mal digerito al primo ascolto i Little Feat, i Creedence Clearwater Revival e addirittura (e non mi vergogno ad ammetterlo) i Gun Club. Sono tre esempi di fruibilità completamente diversi e certamente più accessibili di TMR come anche di approccio al rock, e sebbene all’inizio li trovai non adatti a me (per non dire insopportabili) ne riconobbi subito il valore storico. Ho voluto fare questo esempio perché in questi mesi sto riascoltando ed rivalutando proprio queste tre band (dei Gun Club ho acquistato tutta la discografia nell’arco di un mese!), ma per alcune non ci sono stati cazzi, mi annoiano a morte a prescindere dal loro valore storico.
Il nocciolo della questione è: ma che valore storico ha TMR?
Beh, sarebbe lunga, ma mi limiterò alle mie impressioni da totale imbecille sul web col suo bel blogghino da sfigatello.
Se escludiamo Ella Guru, Moonlight On Vermont e Sugar ‘n Spikes, le uniche tre tracce a presentare una forma quasi melodica o tradizionale a tratti, il resto dell’album è un volo che viene delle volte erroneamente definito psichedelico (oppure di matrice blues) quando invece è solo free-form e anarchia jazz-rock totale.
Tutto parte dalla seminale mente di Beefheart, che sperimenta su un pianoforte che non sa suonare idee, concetti e impressioni del tutto fuori da ogni schema compositivo, lasciando che Drumbo (all’anagrafe John French, il batterista della Magic Band) cercasse di dare un vago senso compiuto a quegli schizzi anarchici.
Oltre le leggende, che potete leggere più o meno ovunque, la cosa che deve saltare all’orecchio è come Beefheart in modo del tutto tirannico (come ogni regista che si rispetti e non ho usato la parola regista a caso) costringe la sua band a delle sessioni di lavoro da gulag russo, lasciando che la sua creatura prendesse il sopravvento sulla razionalità e sul controllo che normalmente hanno i musicisti sulle loro composizioni.
Le poche interviste di Beefheart rilevano come il concetto alla base del Capitano fosse quello di eliminare le singole personalità, proponendo un lavoro stanislavskiano di musicista fuori dalla musica che sta suonando, diventandone parte concreta.
In fondo il concetto non è così complesso come può sembrare, la situazione in cui versano i musicisti violentati da Beefheart è quella di un drogato che prova un senso di totale unità con l’universo che lo circonda pur essendo al di fuori di sé.
Questa operazione, sebbene anarchica, è sostenuta da una tecnica e da un controllo eccellente, spesso ai limiti possibili. Nessuno la fa fuori dal vaso, le due chitarre poste una destra e l’altra a sinistra provocano l’ascoltatore (sono le impressioni di Beefheart, le idee anarchiche fuori da ogni concetto prima ideato) mentre la batteria di Drumbo, posta sempre al centro (a parte in piccole idee particolari come in The Blimp (Mousetrapreplica)), è il collante necessario (e aggiungo: la parte razionale) per mantenere stabile questo monumentale e azzardato progetto.
Ci sono anche tantissimi momenti morti (il primo che mi viene in mente è la pausa tra Hair Pie: Bake 1 e il bellissimo attacco di batteria di Moonlight On Vermont) ci sono anche momenti in cui Beefheart canta senza accompagnamento (tramite il collage di strofe cantate singolarmente, come in Orange Claw Hammer) e addirittura c’è una registrazione della band mentre mangia (nei primi istanti di Fallin’ Ditch).
Difficile definire tutto questo come un album prettamente rock, o addirittura un album di musica in generale. L’esperimento di Beefheart è una doppia provocazione, sia al musicista esperto che al fruitore occasionale. Al primo mostra i muscoli (Sugar ‘n Spikes) e anche la possibilità di andare oltre la tonalità e alle leggi che regolano il limitatissimo mondo del rock (che poi è il principale motivo per cui questo album è considerato così fondamentale), al secondo propone un ascolto più partecipato, più sensibile, perché TMR non è affatto un album costruito per emozionare o cose così, la sua sensibilità non sta nel farti fare due lacrimuccie o a farti incazzare contro il Reagan di turno, ma cerca piuttosto di estraniarti da te stesso per raggiungere il Capitano nella sua jam infernale.
Anche nei testi risulta difficile trovare un senso comune, si va dalla rievocazione dell’olocausto di Dachau Blues alle immagine sessualmente contorte di Neon Meate Dream of a Octafish, il tutto ispirato da una ricerca squisitamente dadaista (forse delle volte anche tramite la tecnica del cadavere squisito).
Il metodo di Beefheart si allontana decisamente dalla serietà degli esperimenti free-jazz o del rock definito underground, perché se da una parte il controllo tecnico e concettuale sull’opera è totale, dall’altro il Capitano sta sbeffeggiando goliardicamente i limiti auto-imposti del rock.
L’infinito accostamento di idee, suoni, raccordi e distorsioni fa di TMR una raccolta geniale che, per forza di cose, è anche all’avanguardia di tutti i generi che il rock toccherà negli anni successivi.
Credo sia difficile fruirlo come un album dei Pink Floyd, ma immagino che questo dipenda anche dalle personalità (a me, per esempio, mi piace molto ascoltarlo mentre studio o scrivo), ma penso non ci possano e non ci debbano essere dubbi sul valore di questo capolavoro del Capitano, ben oltre il precedente e eccellente “Safe As Milk” (1967) e certamente mai più ripetutosi a questi livelli.
[Deh, forse per qualcuno questa recensione potrebbe anche apparire breve e incompleta, ma essendo il web assediato da ottomila recensioni (soltanto in italiano) di questo album credo di aver effettuato una sintesi dei motivi per cui TMR è un fottuto capolavoro abbastanza precisa e leggera, senza tirare il ballo il Dasein di Heidegger, senza masturbarmi sulle componenti tecniche e senza insultare nessun critico di Blow Up, Mucchio, Buscadero, Rumore o-che-so-io. Quindi: ‘fanculo, comprate questo album, e se non vi piace peace & love.]
…se volete leggere quella che ritengo sia la migliore recensione in assoluto cliccate qui. È stata scritta nel 2008 dal miglior blogger mai esistito, anche se da tempo disperso (si dice rapito da degli alieni).
E infine…
ma che cazz???