
I can see myself tearin’ up the road
Faster than any other boy has ever gone
And my skin is raw but my soul is ripe
And no one’s gonna stop me
Now I’m gonna make my escape
I tre capitoli della saga di BOOH (eh eh eh) sono ormai considerati capisaldi dell’heavy metal e più in generale del rock melodico anche dal mio kebabbaro di fiducia. Personalmente ho conosciuto la mastodontica opera rock di Jim Steinman e Meat Loaf che avevo 14 anni, in Germania, rapito dalla esuberante copertina che prometteva un totale riscatto dal mio stato di brufoloso adolescente, sessualmente distratto dai fumetti e dai videogiochi meno popolari del momento (cover, fra l’altro, firmata dal grandissimo illustratore Richard Corben, allora celebre nelle pagine di Heavy Metal, la filiale americana della leggendaria Métal Hurlant).
All’epoca credevo che il ruòk fosse tutto chitarre fumanti e tette, proprio come insegnavano i poster di Ted Nugent e Sammy Hagar che coprivano le pareti di camera mia. Da allora sono passati tanti anni, e quel 33 giri che conoscevo nota per nota, di cui avevo riscritto tutte le liriche su un quaderno che ho sacrificato tempo dopo a Satana perché me ne dimenticassi, adesso è sepolto da altri album anch’essi svalutati nel tempo, polveroso e inerme.
Ad oggi tutta quella pomposità e voglia di divertirsi in grande stile musical anni ’70 al vostro blogger contemporaneo provoca degli inspiegabili rush alle palle, con successivo ingrossamento e incontrollabile moto ellittico. Ciò non toglie che l’opera di Steinman possegga un che di leggendario, ed abbia conosciuto uno dei maggiori successi commerciali di tutti i tempi, il che non capita poi così tanto spesso ad album comunque fuori dai canoni più riconoscibili della pop music, ma questo è un marchio di fabbrica di Jim Steinman, capace di ripetersi svariate volte con una quantità smodata di anti-hit super popolari, anche da 9 minuti (di cui tre di riferimenti mahleriani).
Ora, prima di cominciare a ciarlare anche del mio metodo di scelta dei boxer, torniamo sul punto: l’analisi estetica di Bat Out Of Hell, ma non l’album, la canzone. Facciamo un po’ di contestualizzazione…
Faster than any other boy has ever gone
Sarò spietato, ma devo dirlo: dei tre capitoli l’unico che si salva per me è il primo. E non fate subito caciara però! Cercate di capirmi, a me tutta ‘sta roba testoteronica a stelle e strisce mi fa davvero salire il Togliatti nelle vene. Non la demonizzo, sia chiaro, però…
“Bat Out of Hell III: The Monster Is Loose” (2006), capitolo conclusivo della trilogia, è effettivamente un tentativo di allontanarsi dagli stilemi anacronistici dei primi due album, ma il risultato è senza nerbo, manca totalmente delle capacità espressive comunque innegabili dei precedenti. Insomma, fa cagare. “Bat Out of Hell II: Back into Hell” (1993) è il migliore del lotto per quanto riguarda la qualità compositiva e la ricercatezza estetica, però suona davvero fuori dal suo tempo, vi ricordo che quello è l’anno di “Rid Of Me” (PJ Harvey) e “Good” (Morphine). Più che nostalgia quella di Meat Loaf è necrofilia bella e buona.
Nel pacchetto del primo album le canzoni popolarmente più amate sono la title track, You Took the Words Right Out of My Mouth (Hot Summer Night), Heaven Can Wait e Paradise by the Dashboard Light. Della seconda parliamo dopo, ma diciamo subito che già Heaven Can Wait che Paradise, per quanto riuscite, non raggiungono la splendida forma dinamica e roboante della title track. La prima è una ballad come ce ne sono a palate, nei ’70 poi! Paradise invece è un brillante pastiche tra Slade, Springsteen e favolose reminiscenze musical, costruendo una soap-opera delirante piuttosto buffa, ma si capisce subito che è tutta una scusa per far vedere quanto ce l’avessero lunghissimo.
Hot Summer Night è ricavata, proprio come buona parte dell’album, da un altro progetto del buon Steinman, “Neverland” il musical di Peter Pan. Francamente non lo conosco né visto riprodotto su nessun supporto, ma immagino ci sia un Peter Pan tirato a lucido come Sylvester Stallone nel secondo Rambo, fronteggiare un demoniaco Capitan Uncino interpretato probabilmente da un Rob Halford in tacchi a spillo e chiodo incandescente. In Hot Summer Night le caratteristiche tipiche del rock melodico anni ’70 vengono fuori con una certa grazia, e si sviluppano con la tipica prosopopea steinmaniana. L’intro è semplicemente esilarante, uno scambio di battute con quel tipico romanticismo gotico parodistico che Steinman interpreta in prima persona con una certa incisività. Segnata da una sezione ritmica travolgente e dal carisma ineguagliabile di Meat Loaf, la canzone sfiora livelli di perfezione tamarra veramente irraggiungibili. Però, sebbene ci troviamo davvero vicini alle cime tempestose della title track, ancora non ci siamo per quanto concerne l’incredibile disposizione diegetica dei singoli elementi.
Before the final crack of dawn
Sotto molti aspetti si potrebbe definire BOOH come il vero epigono dei Gun, il trio inglese che nel 1968 esordì con il loro album omonimo, da tantissimi considerato come il primo esempio di heavy metal nella storia del rock. Non è certo un caso se la canzone che apre e traina il disco del ‘68 sia Race With The Devil. La corsa, la fuga, interpretata su più piani, è uno degli aspetti estetici più rappresentativi dell’heavy metal, da una parte la velocità di esecuzione e i ritmi INFERNALI, dall’altra la poetica della velocità come fuga dalla realtà verso mete fantastiche ed epiche.
In una edizione credo relativamente recente di “Sin After Sin” dei Judas Priest, album uscito anch’esso nel 1977 come BOOH, c’è una cover bella tosta di Race With The Devil, dove però si perde la vena più pomposa che è invece ben presente nella musica del trio inglese. È una interpretazione dell’heavy metal che non disdegna il testosterone e una certa auto-ironia (la grande crasi dei Judas Priest fra l’altro), ma che non sfocia comunque nel delirante glamour glitterato di Steinman, il quale declina questa propensione all’opulenza in un senso strettamente romantico decadente. Steinman in un certo senso è stato il musicista che ha meglio interpretato la declinazione operistica del metal, ma sempre in un’ottica di puro intrattenimento, e non come velleità artistica.
Come nel tentativo di dare vita all’opera rock per eccellenza, il nostro eroe riduce al minimo la sua presenza da deus ex machina, lasciando volontariamente in primo piano l’opera in sé, proponendosi come uno strano e psichedelico direttore d’orchestra. Non è nemmeno l’indiscusso protagonista delle sezioni di piano, avendo premuto per avere accanto un talento puro come quello di Roy Bittan della E Street Band, e in più non cerca di uscire dall’ombra di due personaggi istrionici come Meat Loaf e Todd Rundgren! Una scelta che poi pagherà cara per i crediti, ma quelli sono cazzi suoi.
Per la sezione ritmica non vola basso, anzi, ci piazza sempre dalla band di Springsteen Max Weinberg coadiuvato dal super-tecnico Willie Wilcox alle pelli. A completare Kasim Sulton al basso, eccellente turnista ma sopratutto, come Wilcox, membro della band di Rundgren: gli Utopia (agg. [dal lat. tardo merdus, der. di “merda”]). Attorno a questi nomi di peso c’è comunque il meglio del meglio dell’epoca, almeno per quanto riguarda la tamarraggine più spinta.
La presenza della sezione fiati e di ben cinque pianisti (di cui uno al sintetizzatore, è comunque il 1977) fanno capire quanto l’armonia sia un aspetto molto curato da parte di Steinman, come anche il mantenere tutti gli strumenti in primo piano, saturando così ogni centimetro quadrato tra un orecchio e l’altro senza però confonderci, e questo grazie al lavoro agli arrangiamenti di Kenneth Ascher, un altro peso massimo su un ring particolarmente affollato.
Steinman insomma cura ogni dettaglio perché la sua musica si possa esprimere con tutte le sue sfumature e ampollosità, decide inconsciamente che sarà lui a far germinare il seme che il trio londinese aveva posto nove anni prima, giungendo a quella che, probabilmente, è e sarà per sempre ricordata come la più sfarzosa e gioiosa opera rock consegnata alla storia.
Ritornando sul punto (di nuovo): nel gergo popolare fare qualcosa “like a bat out of hell” significa farlo panicando, senza pensarci troppo sù e con una certa fretta. Nell’album sebbene la musica sia rigidissima nella sua struttura (per quanto eclettica e delle volte rocambolesca nelle soluzioni melodiche) la sensazione che si ha è quella di assistere ad un teen drama a rotta di collo, dove il protagonista si sbatte come un matto per un amore puro e intoccabile, mentre nel frattempo sfugge dagli orrori della adolescenza, fino alla sua ineluttabile morte tra fuochi d’artificio e schitarrate epocali.
Eppure è proprio da questa disgrazia che si apre l’album, che comincia dove la storia finisce…
Like a bat out of Hell
Metti la puntina giù e deflagra un temporale. Il rombo delle chitarre imita quello di un gigantesco motore, seguono i pianisti che con un ritmo assatanato accompagnano i primi metri della corsa, da sinistra l’eco di una chitarra seguito da un altro a destra, finché non manca più il respiro e tutto crolla in uno scontro mortale. Da questa nube elettrica i primi accordi e l’assolo di Rundgren che come un fulmine si staglia luminoso in mezzo ad una furibonda tempesta.
La voce di Meat Loaf si presenta teatrale e ispirata, un pianoforte continua a puntellare una melodia sempre più chiara e complessa:
The sirens are screamin’
And the fires are howlin’
Way down in the valley tonight
There’s a man in the shadows
With a gun in his eye
And a blade shinin’ oh so bright
There’s evil in the air
And there’s thunder in the sky
And a killer’s on the bloodshot streets
Oh and down in the tunnel
Where the deadly are rising
Oh I swear I saw a young boy
Down in the gutter
He was starting to foam in the heat
Le immagini sono semplici, fulgide, incredibilmente esasperate e parodistiche, ma non per questo meno pregne di un romanticismo quasi byroniano, anche se al posto dei cavalieri ci stanno i motociclisti metallari a petto nudo e villoso. Ci viene descritto un mondo dannato, pieno di pericoli mortali, al quale però c’è una speranza:
Oh baby, you’re the only thing
In this whole world
That’s pure and good and right
And wherever you are
And wherever you go
There’s always gonna be some light
Arrivano i cori, per sottolineare la sacralità di questa visione femminile, assolutamente pura e casta come vuole la tradizione (e come permane in tutto l’album). L’ideale di questo amore fa parte del processo di crescita del protagonista, che lo vive con una visceralità dissacrante.
But I gotta get out
I gotta break it out now
Before the final crack of dawn
So we gotta make the most
Of our one night together
When it’s over you know
We’ll both be so alone
Like a bat out of Hell
I’ll be gone when the morning comes
Oh, when the night is over
Like a bat out of Hell
I’ll be gone, gone, gone
Sì, bello l’amore eh, però lasciamoci un po’ di spazio! Comincia dunque la fuga, una corsa contro la morte – sì, il nostro protagonista tende al prosaico se non si fosse ancora inteso. E allora la musica si fa davvero pomposa e teatrale, con guizzi e drappeggi elettrici che ci circondano, ma non per molto, Steinman da giusto un assaggio delle possibilità corali dell’orchestra, che intanto sta dirigendo come un posseduto. C’è ovviamente Wagner, ma il compositore californiano guarda anche a Mahler e alla sua incredibile potenza narrativa.
But when the day is done
And the sun goes down
And the moonlight’s shinin’ through
Then like a sinner
Before the gates of Heaven
I’ll come crawlin’ on back to you
A questo punto sono state poste tutte le basi estetiche del pezzo. La corsa è reale, non solo metaforica, e viene sempre sottolineata dalle sferzate di Rundgren alla chitarra, come dalla corsa del pianoforte. Ogni elemento viene posizionato con un preciso scopo narrativo: i cori nella descrizione angelica della ragazza, il rombo del motore come metafora della lotta interiore del protagonista, fino alla voce di Meat Loaf alla quale viene affidato il compito di trattare la materia lirica come se fosse un testo di prosa. La saturazione sonora non è opprimente, la sezione ritmica, che all’inizio del pezzo sottolineava l’acrobatica apertura, ora non scompare di certo, ma si mette poco dietro Rundgren e Bittan, gli elementi sono tutti soppesati fino all’inverosimile.
La canzone cresce ed espone tutta la sua stratificazione sonora con una vanagloria da far rimpiangere i Queen, finché non accade l’ineluttabile. Siamo nel pieno della corsa, il rombo del motore si trasforma in un assolo spezza-caviglie che accompagna il canto di Meat Loaf:
I can see myself tearin’ up the road
Faster than any other boy has ever gone
Oh and my skin is raw but my soul is ripe
And no one’s gonna stop me
Now I’m gonna make my escape
But I can’t stop thinking of you
And I never see the sudden curve
Till it’s way too late
Arriva dunque il grande “crash” (il senso è doppio anche in questo caso), il nostro eroe non vede quella curva e tutti i suoi sogni d’amore, nonché la sua lotta contro il mondo, deflagrano a terra.
Then I’m dying at the bottom of a pit
In the blazin’ sun
Torn and twisted
At the foot of a burnin’ bike
And I think somebody somewhere
Must be tolling a bell
Ma con un colpo di scena davvero geniale da parte di Steinman, l’ultima immagine che ci viene evocata è questa:
And the last thing I see
Is my heart, still beatin’, still beatin’
Breakin’ out of my body
And flyin’ away
Like a bat out of Hell!
Ripetuta in maniera più drammatica l’ultima strofa a quel punto la musica può finalmente gioire ed esprimersi in cori angelici e assoli rompi-balle che per fortuna durano poco, concludendo una cavalcata a perdifiato in puro stile americano.
La favola epica di Steinman è chiaramente banale, ma la sua costruzione meticolosa e i riferimenti culturali che ne hanno permesso la creazione non lo sono per niente. Questa musica vuole essere una forma suprema di intrattenimento, che si basa sulla perfezione tecnica non come raggiungimento personale, ma come esibizione di perizia e abilità per lasciare senza fiato lo spettatore. L’ideale opera teatrale di Steinman non vuole essere un lungo e tedioso soliloquio morale, ma una folle e rischiosissima montagna russa che riempia lo sguardo di una continua e deliziosa meraviglia. Meat Loaf vestito come un improbabile lord vittoriano se ne frega di tutto, e vive il suo sogno d’amore fatto di fughe impossibili, trappole mortali e trasformazioni bestiali, diventa così per un attimo il nostro avatar, e siamo noi a questo punto in sella a quella moto, lontani mille miglia dai problemi di tutti i giorni, dalla noia di una vita in cui anche l’arte ti viene proposta come una roba seria con cui passare il tempo la domenica dopo la messa (o la briscola al circolo ARCI).
Non è questa forse la grandezza della cultura americana pop? Astronavi che spezzano con un pulsante le regole dello spazio-tempo, archeologi che vivono la storia tra un complotto nazista e scoperte aliene, adolescenti senza un lavoro che decidono di indossare una maschera e prendersi delle responsabilità verso la comunità prima che per se stessi, sono tutte grandi saghe che come quelle omeriche ti vengono cantante, suonate, proiettate, sussurrate, urlate, con ogni possibile mezzo d’espressione. Ogni tanto allora anche un tipo palloso come me può permettersi di prendersi una pausa dall’ascolto consapevole e attivo dell’ultima ristampa della Medea di Xenakis, e immaginarsi per 9 funambolici minuti come un cazzutissimo motociclista che sbuca fuori dalla tomba dopo aver affrontato il fottuto inferno per una cosa piccola, bella e pura. Che poi altro non è che una metafora del vivere ogni giorno questa cazzo di vita.