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Podcast – Quella cosa chiamata new garage

In questo delirante blog tenuto dal blogger meno costante della storia di questa piattaforma abbiamo spesso parlato di new garage, ci siamo confrontati, insultati, scambiati opinioni, insultati, proposto ascolti e delle birre talvolta, insultati. Ecco, diciamo che in questo podcast e quello che seguirà ho voluto tirare le fila del discorso cominciato ormai 5 anni fa su queste pagine virtuali, proponendovi una visione di questo nuovo garage inedita, piena zeppa delle contaminazioni che secondo me ha, quasi snaturandolo se volete, ma mostrandovi le sue viscere per quello che sono, senza troppa poesia.

Cliccate su play, non ve ne pentirete.

«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»

Personal and the Pizzas, Gloria, Brace! Brace!, Beware The Dangers Of A Ghost Scorpion!, Ty Segall

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Nessuna introduzione perché non ho tempo, sappiate però che dalla prossima settimana assieme ad un mio caro amico condurrò un programma radio (liberamente scaricabile su Mixcloud) e vi spareremo un sacco di musica bella. Ogni puntata sarà tematica, approfondiremo questioni e generi troppo spesso trattati con superficialità dalla critica rock, e vi proporremo sempre degli spunti nuovi e diversi dalla solita melma. Ovviamente linkerò ogni puntata qui sul blog, sennò tutta ‘sta marchetta va a farsi friggere.

E ora beccatevi ‘ste recensioni:

Personal and the Pizzas –       Raw Pie

Probabilmente avrete sentito parlare dell’ultimo album dei Personal and the Pizzas, considerato un gioiello da tutta la critica garagista e non solo. Ecco, io lo vorrei tanto quell’album, ma siccome al solito mi manca il dindirindero vi recensirò il loro esordio: “Raw Pie”, pubblicato dalla californiana 1-2-3-4 Go! Records nel 2010 dopo una buona sequenza di EP cominciata nel lontano 2008. Credetemi se vi dico che “Raw Pie” è uno dei migliori album di puro rock and roll usciti negli ultimi vent’anni.

Più sconclusionati e demenziali dei Memories ma cattivi e punk nell’anima, praticamente il sogno proibito di ogni garagista integralista. Appena lasciate la puntina posarsi delicatamente sul pezzo di plastica rotante parte a fuoco un anthem sulla pizza gusto Ramones (I Don’t Wanna Be No Personal Pizza) seguita da una Pepperoni Eyes che ricicla gli Stooges senza pietà, e a meno che non siate dei fan dei Rush in incognito il vostro sarà un amore a prima vista in piena regola. Pezzi come Brass Knuckles, Never Find Me, Pizza Army e la esilarante Nobody Makes My Girl Cry But Me sono compendi della miglior tradizione sporca, grezza e autentica rock.

E infatti le uniche dolenti sono quella prevedibilità che il genere propone nelle sue forme più puriste. Sebbene i Personal and the Pizzas spacchino come pochissime band al mondo nel garage caciarone (al loro livello penso a Andy Macbain in quando aggressività e attitude) il loro grande merito è solamente quello di fare un casino davvero godurioso, ma senza riuscire a costruire un discorso musicale alternativo o quantomeno con qualcosa di nuovo da dire, il che sicuramente è voluto al 100% ma ciò non toglie che con tutta questa focosa materia prima… beh, si poteva anche provare qualcosina di più. Non fraintendetemi, tutto quello che manca in quanto originalità compositiva i PATP ce lo mettono in personalità, caratterizzando ogni pezzo come solo loro riescono a fare.

Poi boh, parte I Can Read e cominci a spaccare tutto senza ragionare, lasciandoti trasportare dal rock and roll più spietato e godurioso da molti anni a questa parte, furia micidiale mescolata a melodie rockabilly. A volte effettivamente non serve altro, Compulvise Gamblers, Oblivians e Deadly Snakes ce lo ricordano bene.

Gloria – Gloria In Excelsis Stereo

Di “Gloria In Excelsis Stereo” ne hanno parlato persino in Italia, ovviamente bene. Io ho solo poche cosa da dire: ma in tutto il catalogo della Howlin Banana Records proprio ‘sta roba doveva sbancare il lunario?

Io non ho niente contro i Gloria, che seguivo da tempo, e credo che Beam Me Up sia un gran pezzo e un capolavoro di nostalgia, ma porca puttana è proprio pura nostalgia anni ’70 pressata e confezionata senza alcun ritegno, senti l’odore di canapa e le solite tre citazioni dall’Urlo di Ginsburg fuoriuscire dalle casse! Saranno anche groovy e tutto il resto, ma è tutta roba già ascoltata e riascoltata MILIARDI di volte, ma che cazzo aggiunge questo album a quelli dei Jefferson Airplane o similia proprio non si capisce.

Inoltre a parte Beam Me Up tutte le altre canzoni si svolgono senza alcuna personalità, un sistema di riciclo così perfezionato salverebbe il comune di Roma in poco più di 33 giri.

Piuttosto parliamo di…

Brace! Brace! – Controlled Weirdness

Sempre dalla parigina Howlin Banana Records eccovi i Brace! Brace! la creatura psych-pop di Thibault Picot, voce e chitarra di questa frizzante band francese. Nel 2014 avevano esordito prodotti dalla piccola e giovane Freemount Records di Clermont-Ferrand con un EP che tra i blog più sconosciuti aveva riscontrato un generale apprezzamento, e con questo “Controlled Weirdness” uscito qualche giorno fa alzano decisamente il tiro.

La band nasceva come una sorta di Sonic Youth weirdpop, costruendo melodie che esplodono in fuzz lisergici, sottolineate anche da una sezione ritmica piuttosto dinamica. Nel nuovo EP il bravo Picot questa volta lascia respirare i pezzi tra un rumore e l’altro, crea ambienti sonori che non sono messi lì per dire «senti là che suono figo eh», come buona parte delle band garage che si mettono a smanettare in stile Thurston Moore e Kim Gordon, infatti ogni suono vuole essere vettore espressivo ed è necessario alla canzone la quale non si sorreggerebbe solo con la melodia, tutto ciò in una maniera più raffinata e complessa che nei più “blasonati” White Fence e Jacco Gardner.

Molto convincente Slow la quale a tratti ricorda il primissimo Ty Segall quando ancora faceva divertire, contornata da una struttura solida e per nulla banale, tosta anche Underground che fin dall’inizio colpisce di fuzz senza però scadere nella solita macchietta seventies, tirando fuori qualche suono dalle console eighties, ritornelli beatlesiani che Jeffrey Novak si sogna, sempre con quella sensazione onirica del weirdpop americano.

Un EP efficace e con qualcosa dire, senza necessariamente giocare sulla leva del revival a tutti i costi.

Beware The Dangers Of A Ghost Scorpion! – Boss Metal Zone

Ve li ricordate i BTDOAGS? Surf rock da Boston? La mia disamina sulla scena bostoniana? Niente eh? Bastardi.

Comunque sia questa band non mi ha mai convinto al 100%, insomma il surf rock lo adoro e in generale il loro è piuttosto ok ma gli è sempre mancato il tiro delle vecchie glorie come Ventures, Challengers, Shadows e via discorrendo.

Per il nuovo EP la band decide di ripetere il loro canone, surf rock a tinte horror, ma stavolta centrano in pieno il bersaglio con 4 tracce assassine che colpiscono senza pietà. Sebbene soffrano, a mio modestissimo avviso, di una eccessiva pesantezza in fase di produzione (con la stessa pochezza sonora dei Guantanamo Baywatch farebbero faville in studio) questa volta riescono a colmare le loro mancanze con una certa creatività compositiva. Grandissimi assoli alla Shadows, brevi ma apprezzatissime sferzate psychobilly e finalmente anche una sezione ritmica che non lascia un secondo di respiro. Non sarà un disco che ricorderete per tutta la vita, ma quantomeno avrete quattro tracce davvero toste da spararvi qualche volta in auto o per cazzeggio.

Ty Segall – Ty Segall

Il biondo che ha conquistato il mondo ha lasciato al garage due grandissimi album: “Twins” (2012) e “Slaughterhouse” (2012), un album garage pop più che discreto come “Goodbye Bread” (2011), e due feroci digressioni con “Reverse Shark Attack” (2009) e il primo dei Fuzz. Detto questo è un paio di anni di Ty ha decisamente scassato i coglioni.

Questo nuovo album omonimo con l’apporto del leggendario Steve Albini oltre a suonare decisamente posticcio nel suo rifarsi al suono lo-fi degli inizi (che fra l’altro non coincidono per niente con i suoi lavori migliori che vi ho sopra elencato) è semplicemente noioso come una puntata di Sanremo.

Discreta Talkin’, con quella malinconia acustica alla Gold On The Shore o “Sleeper” (2013) che lo caratterizza, al contrario dei tentativi più garagisti tutti dimenticabili. Sempre nell’ambito acustico mi risultano alquanto indigesti Orange Color Queen e Papers, con quel glam che Segall non riesce a spremere in tutta la sua carica espressiva, un difetto che lo perseguita fin da “Ty-Rex” (2011) anche se molti ritengono invece che il biondo sia uno degli ultimi glam-rocker degni di questo nome. Mah.

Gli spunti melodici sono i soliti, le digressioni strumentali come in Warm Hands (Freedom Returned) non aggiungono niente se non un senso di disagio e imbarazzo. Sebbene qualche idea interessante sembra proprio che come John Dwyer il californiano abbia finito le cartucce a disposizione ma continui a sparare a salve.

X – Los Angeles

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Secondo disco di questa mia personalissima trilogia californiana punk anni ’80. Ricordo ai cagacazzo e ai precisini di ‘sta grandissima ceppa che non sono gli album più importanti o quelli fondamentali, ma quelli che a me me la alzano di più. Semplice, lineare e schifosamente soggettivo. OK? 

Come dicevo anche per gli Alley Cats siamo in una dimensione punk più vicina a Patti Smith che agli Stooges, e la presenza carismatica di Exene Cervenka lo prova ancora più. Se la Dianne Chai era calata nella dimensione pessimistica degli Alley Cats, la Cervenka dal canto suo è la nuova poetessa maledetta del punk, più arrabbiata e meno raffinata di chi l’ha preceduta.

Sebbene preceda solo di un paio d’anni “Escape From The Planet Earth” (The Alley Cats, 1982) il punk degli X è davvero diverso.

L’alienazione che si prova ascoltando il secondo album degli Alley qui scompare, la rivalsa sociale dei giovani oppressi dalla nuova società industriale trova sfogo in questo frizzante beach punk. Sebbene a mio avviso sia il sotto-genere col nome più idiota di sempre, spacca decisamente i culi.

Come una band di reietti bipolari gli X guardavano al rockabilly anni ’50-’60 come ai Doors, la decadenza di Jim Morrison assieme alla sua decantazione intellettuale (Patti Smith) trovano così un raccordo riuscitissimo con l’infiammata chitarra di Chuck Berry. Dai cazzo, ditemi che non prende bene solo a leggerla ‘sta roba!

Per vostra fortuna è molto meglio ascoltarli gli X.

La band si fondava principalmente sulla voce della Cervenka e quella sporadica del suo bassista (e se non ricordo male anche marito) John Doe (un nome che negli USA si utilizza per quelle persone che giuridicamente nascondo la propria identità reale, o per nominare quelle tombe abitate da scorbutici sconosciuti), un ritmo indiavolato, riff brevi, intensi e geniali e una autenticità spaventosa.

Sono così pochi gli album così punk!

Per quando la band sia convinta che il terzo album, “Under the Big Black Sun” (1982), sia in assoluto il più riuscito, credo sia inutile farvi notare come la rivoluzione dei X sia cominciata con “Los Angeles” il loro esplosivo esordio.

Rivoluzione sì, perché mentre Richard Hell aveva teorizzato il nuovo punk (quella che sarà chiamata new wave) gli X lo rimodellano a loro immagine e somiglianza, con testi che invece di fare dell’introspezione sulla generazione vuota (sì ok, vuota ma da riempire, bravi avete letto l’intervista di Lester Bangs a Hell, siete proprio dei figoni del cazzo) o immaginare una fuga dal nostro pianeta di fango e merda proposta dagli Alley Cats, qui c’è una visione reale della società moderna vista da dei bravi ragazzi californiani, stufi della merda ma che la accettano per quella che è.

Hell fa del punk una filosofia, gli Alley Cats ne fanno misantropia, gli X s’incazzano come delle belve e basta.

Ma una nota che impreziosisce in modo ancora più allucinante questo già tosto album è la produzione di Ray Manzarek. Il mitico tastierista dei Doors viene spesso etichettato come un musicista molto sopravalutato. Che coglionata. Manzarek oltre a produrre questa bellezza suona col suo vecchio hammond, e che robette acide e punk ci tira fuori ‘sto povero sopravvalutato nemmeno non ve lo immaginate.

I pezzi che compongono questo capolavoro sono tutti geniali, uniti da un sound molto preciso (beach punk, che nome di merda…) ma senza mai ridondare, cazzo: sono nove gemme punk tutte di alto livello!

Si parte fortissimo con Your Phone’s Off The Hook, But You’re Not, a cui segue il celebre attacco alla Chuck Berry che introduce a Johnny Hit And Run Paulene, subito dopo una versione irriconoscibile di Soul Kitchen dei Doors, e chissene sei già saturo dalla troppa roba buona, perché il riff bestiale di Nausea, con quelle incursioni strazianti e orgasmiche dell’organo di Manzarek, te la fa rialzare subito. Sveglia amico, stai ascoltando un fottuto capolavoro!

Cosa c’è di più perfetto di una Los Angeles con un testo così:
all her toys wore out in black and her boys had too
she started to hate every nigger and jew 
every mexican that gave her lotta shit
every homosexual and the idle rich

Cosa ti foga di più del ritmo punk di Sex And Dying In High Society, abbastanza anni ’80 da non sfigurare neanche in una radio di GTA Vice City?

Cosa ti attizza di più del l’irreprensibile riff di The Unheard Music, malinconica senza scassare i coglioni?

E la sapete qual’è la cosa più bella? Che anche i due album seguenti sono splendidi.

  • Pro: capolavoro del punk, un disco imprescindibile per gli amanti e per chi vuole farsi una cultura su questo genere.
  • Contro: dura solo 27 minuti.
  • Pezzo consigliato: Los Angeles.
  • Voto: 8/10