Nella copertina c’è in bella vista il pacco pop-artistico di Joe Dallesandro, non proprio il modo migliore per quietare le critiche di misoginia che ogni uscita degli Stones si portava dietro. 1971. I Can avevano appena rilasciato il loro capolavoro. I Black Sabbath con “Master of Reality” ci confermano per la terza volta di aver in pratica inventato una cifra, anche se per loro, almeno nelle interviste ufficiali, quello era solo rock senza altri strani aggettivi. “Four Way Streets” è tipo il live che tutti hanno in casa, anche se tutti parlano del “Concert for Bangladesh” a NY. La Edgar Broughton Band arriva al terzo album e così perfino Beefheart diventa “hard” (ascoltatevi Apache Drop Out se non ci credete). “Tapestry” di Carole King sarà l’album più venduto quell’anno, e tra i più venduti nella storia della musica contemporanea. Jim Morrison ci lascia ad inizio Luglio, nel suo lussuosissimo appartamento in rue Beautreillis, Parigi. Poi c’è il nuovo album sulla masturbazione applicata a Musorgskij degli Emerson, Lake & Palmer, ma facciamo finta di niente ok?
Siamo nel ’71, e per i Rolling Stones confermare di essere quelli con più centimetri nei jeans (rigorosamente strappati) non era mica tanto facile. Eppure quei dannati bastardi lo fanno di nuovo.
“Sticky Fingers” ha la l’anima febbrile del delta blues declinata in una gioventù europea disinibita all’inverosimile. Proprio come la banana dei Velvet Underground anche la cerniera di Sticky nasconde qualcosa – ed è sempre dell’alieno Warhol. Pochi lo ricordavano ma molti sapevano che tirata giù la buccia c’era una banana rosa. Stavolta il genio della pop-art statunitense non sfrutta nessuna metafora, tirata giù la cerniera (non senza un senso di riscoperta meraviglia sessuale da parte del fruitore) eccoci col muso su un paio di mutande bianche, che non vogliono nascondere le forme di un membro maschile.
1971. 1967. Un mondo è cambiato e il rock ne è il principale interprete (altri tempi eh?), la sessualità BDSM che deflagrava sul palco dei primi Velvet non era più materiale per servizi televisivi moralisti e romanzi d’appendice, ma cultura pop, e i Rolling Stones incanalarono questa tensione sessuale con una furia ineluttabile.
Se “Let It Bleed” si apriva con una voragine oscura e apocalittica, stavolta il registro è fottutamente diverso, perché proprio di fottere si parla: «Ah, Brown Sugar/ How come you taste so good?» Schiavitù, sesso interrazziale, conflitti di classe, Brown Sugar prima di finire nello spot della Pepsi fu una botta mica male!
Eppure secondo me la faccenda trova il suo snodo con questa nostra quarta traccia, con quel riff micidiale che arriva duro come un’erezione dalla cassa destra. Batteria e basso seguono in secondo piano al centro del cono sonoro, puoi già orecchiare del magma scoppiettare nervoso sotto la fragile crosta di plastica del 33 giri. La risposta dalla cassa sinistra non si fa aspettare. Comincia così un dialogo che anche senza le parole di Jagger (tra le meno sensate della sua carriera) se ne capisce benissimo ogni intenzione. Le due chitarre si sfiorano, si toccano, si penetrano a vicenda in un rito dionisiaco-crowleyano, ogni staccato sembra fatto apposta per evitare una eiaculazione troppo frettolosa. Le voci aumentano e si sale come in Gimme Shelter, ma se lì “salire” era solo un tropo per dire “cadere”, qui invece è proprio come quando il sangue lascia il cervello per confluire tutto lì.
«Help me baby, ain’t no stranger!» Lui gira e rigira davanti al portone, la chiama sperando che si affacci alla finestra, sovra-eccitato dalla droga, dal sesso, dal rock & roll. È notte, è per forza notte, sulla strada i colori deliranti dei neon sfumano sull’asfalto come in quel film di Walter Hill. «Can’t you hear me knockin’?/ Throw me down the keys/ Alright now!» Canta, ringhia, ulula, il nostro perverso dandy inglese, che alla luce della luna si trasforma in un insaziabile licantropo cresciuto sulle rive del Mississippi.
Un miracolo? Di sicuro di quelli che mi piacciono. Eppure proprio sul più bello di questa dolce e ruvida relazione, mentre alla membrana delle casse viene la pelle d’oca e vorresti baciarla per sentire che gusto abbia, ecco che qualche idiota decide di rovinare tutto. E sì, perché invece che mandare il cazzo di sfumato (come nel 95% delle canzoni degli Stones fra l’altro) qualcuno decise che bisognava registrare tutta la jam successiva.
Chi sia questo traditore della razza umana non lo so, ma posso dire con certezza matematica che il suo nome fa rima con “stronzo testa di cazzo, inutile coglione idiota”.
Dopo la celebrazione di amore chiaramente omoerotica (ci sono due chitarre che fanno le porcherie, fatevene una ragione) ecco che il tutto si trasforma in una specie di jam degli Yardbirds, quindi per definizione una merda. Musica senza necessità se non quella di combinarsi secondo regole e precisi dettami armonici tonali, schiava della bravura dei suoi interpreti. E ‘sta roba è un terzo dell’intera canzone. Cazzo.
Sebbene nella versione Deluxe dell’album (quella con quindicimila CD, libretti, poster, figurine e dildo che costa quanto una Aston Martin) ci sia un alternative take che ci fa intuire come doveva andare la faccenda, la verità è che il pezzo in questione non ha il tiro micidiale della versione definitiva. Anzi, sembra un pezzo dei Them. Ed io amo i Them, sia chiaro, mica come quegli stronzi merdoni degli Yardbirds, però cazzo no. E no. Can’t You Hear Me Knocking non è una canzone, non puoi trattarla come tale o suonarla così come se lo fosse. Can’t You Hear Me Knocking è una mano che ti sfiora sui jeans premendo sul membro, è quello stato di eccitamento a metà tra il prima e il durante, in cui il sesso è il potenziale, e basta questa profezia per sconquassarti le budella e liberarti la mente da ogni altro pensiero.
Francamente non ho un album preferito di questa band, troppo grande per farci le classifiche (se c’è chi ancora le fa), e purtroppo non ho nemmeno un pezzo preferito. Ma potevi, anzi, DOVEVI, essere tu: Can’t You Hear Me Knocking.