Etichetta: Rude Soul Records Paese: Italia Pubblicazione: 11 Settembre 2016
Proprio adesso, in questo preciso momento che sto scrivendo in treno sul mio taccuino, mi sta risalendo un gusto di Sprite e salsiccia cruda in sù per l’esofago e mi girano moderatamente i coglioni, per cui, invece di fare quello che dovrei fare per trovarmi un lavoro in questo mondo, eccovi una recensione.
I DOTS non so da dove vengono, non mi sono informato molto, in realtà non mi sono informato per niente, perché sono sempre su un treno e senza la possibilità di collegarmi ad internet, non so nemmeno come si chiamano davvero ‘sti stronzi, però una cosa ve la posso dire: “Hanging on a Black Hole” è una delle cose più belle uscite in Italia in questo 2016. Se per “bello” intendiamo poco meno di un quarto d’ora di funk e punk mescolati con ignoranza, rabbia e con un tiro della Madonna (bisogna essere elastici al giorno d’oggi). Lo giuro su Iggy Pop, Isaac Asimov e Asa Akira ogni qual volta ho messo sù questa roba e dalle cuffie è partita a fuoco Black Hole, tutta la merda della giornata è scolata giù, giù fino nelle fogne più profonde di qualche film anni ’80, lo stesso lurido posto dove pescano gli album da recensire per Rolling Stone.
Sarà una mia fissa, ma per me la rabbia nel punk è auto-ironia (anche), senza un po’ di quella sei solo un pretenzioso stronzetto che, col minimo della tecnica richiesta per non sembrare Daniel Johnston, strimpelli qualcosa alla Chuck Berry ma distorto. Ovviamente qua siamo su altri lidi, il mio voleva essere un esempio, ma tanto non ci si capisce mai su internet, il fatto è che i DOTS nel loro essere esilaranti non sono dei coglioni, e ci provi anche un certo gusto a canticchiare le loro canzonette mentre aspetti il bus nell’ora di punta, o qualcosa del genere.
Che pezzo Brain Damage, ma personalmente mi esalto verso il finale di questo Hanging on, con il trittico Figure It Out, Hot Couvered Shoulders e Breaking The Law, in particolare il secondo pezzo, semplicissimo ma potentissimo, se i primi istanti fossero più indecifrabili e progredissero con più calma trovando una loro compostezza (alla Beefheart per intenderci) per poi deflagrare in quel ritornello a cazzo duro, ecco sarebbe tipo uno dei miei pezzi preferiti di sempre da ascoltare in viaggio, al bar, al cesso. Per ora lo è solo in viaggio.
Non so quanto sia voluto, ma dalla qualità dell’ingegneria del suono messa in campo direi che abbiano registrato tutte le otto tracce nel mio garage, di nascosto e pure di fretta, il che di per sé nell’epoca del lo-fi non mi stupirebbe più di tanto, anzi ormai tendo ad infastidirmi non poco quando ascolto robe come gli Hot Lunch (quelli da Pitcairn, non quelli hard-glam di San Francisco), ma per il sound dei DOTS ci sta a pennello, me li rende più simpatici e cazzoni.
In un mondo ideale i DOTS sarebbero sul Rolling Stone di questo mese, con l’articolone da otto pagine in cui non fanno altro che insultare un giornalista troppo fesso per capirlo, la foto in copertina scattata mentre sorreggono la testa a uno di loro che sgotta sull’entrata del nuovo locale che li ospita, probabilmente per suonare davanti a dieci stronzi come La Piramide Di Sangue quest’anno a Prato al No Cage, ma con la foga e la risolutezza di chi suonerebbe allo stesso modo al Madison Square Garden come nei bagni del liceo artistico.
Che merda di recensione.