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Podcast – Le Grandi Delusioni

Sicuramente sarà successo anche a voi, no? Vai dal tuo spacciatore di dischi, ti fai consigliare qualcosa in base ai tuoi gusti, spendi un bel ventone o anche più, torni a casa per sparatelo dritto dritto nel condotto uditivo e… BANG! È una merda.

A me è successo parecchie volte, in questa puntata di Ubu Dance Party ve ne elenco 8 particolarmente scottanti.

«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»

System of a Down, la discografia

System+of+a+Down

Sì, è ultimamente faccio solo speciali su dischi vecchi, perché?
Perché non ho soldi per quelli nuovi.
Cazzo.

Comunque, basta auto-commiserarsi e avanti tutta.

La prima cosa che si nota in tutte le recensioni sui SOAD è la menata sul genere. Ma sono forse nu metal, sono folk metal, sono disco music metal, ma che saranno mai ‘sti System? A me le sotto-categorie mi fanno venire certi pruriti alle zone basse che non vi immaginate, già non sopporto parlare di classic rock, soft-rock e robe simili, però ha un senso, ma il nu metal è qualcosa di ridicolo, mi spiace dirlo. È alternative, basta, ci piace così, chissene se è nu o , è alternative, ci va bene. Poi le influenze tradizionali armene son lì a far scena, mica per altro.

Il sound dei SOAD è la perfetta commistione di Slayer e Dead Kennedys. Dagli Slayer prendono sopratutto il sound metal, non tanto dalle idee fasciste di merda che li contraddistinguono (non è vero? Contenti voi), dai Dead Kennedys prendono invece tantissimo, tanto che delle volte ascoltandoli attentamente mi sembrava di ascoltare la band di Biafra velocizzata e metallizzata.

Lungi dal dire che i SOAD sono una copia dei Kennedys, anche perché già dal primo album trovano quelle sonorità che li distingueranno per sempre dal resto del mercato musicale, sopratutto grazie al grandioso lavoro di Rick Rubin.

Il valore politico dei testi invece è pressoché nullo, o quantomeno banale. Legalizzerebbero qualsiasi cosa, odiano il governo e la natura è bella (ma il sesso è meglio). Ovviamente sono anti-Bush (il che è apprezzabile). Riescono meglio invece le loro uscite comico-demenziali, certamente le più divertenti e plausibili di tutto il metal.

Il successo arrise presto ai SOAD, appena cominciarono a macinare qualche singolo accattivante Rick Rubin se li mette sotto contratto per la sua American Records, che all’epoca aveva già un decennio buono di attività ma sopratutto aveva prodotto gli Slayer, band che Tankian e Malakian adoravano da tempo.

Rubin è un vecchio volpone, storica la sua trasformazione del sound degli Slipknot da “Iowa” (2001, prodotto da Ross Robinson)  a ”Vol. 3: (The Subliminal Verses)” uscito nel 2004, stessa casa di produzione, la Roadrunner records, ma con una idea del sound e del marketing più moderna. Per i fan della band infatti Vol. 3 è stato un momento di rottura fondamentale, gli Slipknot diventano melodici e udibili per i più, per alcuni un tradimento bello e buono, per altri il miglior disco della band.

Essenzialmente Rubin riuscirebbe a far entrare nel giro del metal i Franz Ferdinand, e nel giro del brit-pop Burzum. Lui può.

System Of A Down

1998: esce “System of a Down” e tutti siamo un po’ più felici.
Felici perché i SOAD sono una boccata di aria fresca in un metal già all’epoca auto-referenziale, anche se non ai livelli indecorosi di questi anni.

L’album presenta in velocissima successione perle di genialità, rabbia e anche di virtuosismo (che scopriremo essere inesistente in live). Niente di masturbatorio, un metal così diretto non ricapiterà mai più, tanto che infatti i SOAD sono l’unica band metal che apprezzo davvero degli ultimi dieci anni.
Un metal che ha tanto da spartire con il rock autentico a livello ideologico, più che la forma si predilige la sostanza.

Suit-Pee, Know e Sugar ci iniziano al sound dei SOAD, i cambi veloci che si distinguono in questi pezzi non sono mai velleitari o puramente d’effetto, ma neanche denotano una forma prog, la costruzione dei pezzi (molto intuitiva) viene tradotta per noi da Rick Rubin e ci sembrano quasi dei musicisti ormai maturi. In questi tre pezzi c’è la goliardia, la malinconia, la velocità e la riflessione, il tutto in un timing complessivo che supera di poco i sette minuti, il che li avvicina felicemente al primo punk-hardcore (anche se siamo molto lontani dall’ecletticità di band come i Minutemen).

Soil, War? e P.L.U.C.K. sono notoriamente tra i pezzi più amati dai fan della band, eppure sono sempre stati quelli che mi hanno meno convinto in questo album. Non amo apparire bastian contrario, credo sia una etichetta abbastanza infamante. Eppure, nella maggior quadratura musicale di questi tre pezzi, mi sembra che i concetti invece siano piuttosto mediocri. Finché i SOAD  si mantengono ad un livello goliardico mi convincono, appena tentano di “alzare” la qualità lirica mi cascano dal pero. Wars? non ha semplicemente senso, ma al contrario del solito qui si cerca di dare input più interessanti, peccato che poi ti ritrovi cose così:

International security,
Call of the righteous man,
Needs a reason to kill man,
History teaches us so,
The reason he must attain,
Must be approved by his God,
His child, partisan brother of war

Eh? Che diavolo volete esprimere o farci capire? No, davvero, mi piacerebbe saperlo. Io capisco che non bisogna mai badare troppo ai testi nel rock, chi li esalta di solito ha come metro di letterario Licia Troisi piuttosto che Marion Zimmer Bradley (per citare il fantasy, mi son tenuto basso basso), chi invece ci capisce apprezza comunque la valenza del messaggio, sebbene espresso con semplicità può essere valido. Peccato che qui il messaggio sia nella testa di Tankian e Malakian, a noi restano solo deliri incomprensibili.

Soil è uno dei peggiori testi che abbia mai letto sul suicidio (credo riferito ad una vicenda reale), P.L.U.C.K. dovrebbe essere una seria critica sul genocidio armeno ma il concetto più profondo espresso è: revolution, the only solution. Uao. Probabilmente sono io che rompo il cazzo, sia chiaro, però nel contesto di un disco come questo P.L.U.C.K. appare una prova al di là delle capacità lirico-espressive della band.

Il pezzo più particolare è certamente Mind, il pezzo più “corposo” di tutta la loro discografia, con uno dei cambi di velocità più violenti mai suonati (eppure perfettamente incastonato nella struttura del pezzo, non c’è nessun intento meramente spettacolare).

Detto questo il resto dell’album non presenta alcun difetto, il che per me spara questo esordio tra i migliori che abbia mai ascoltato in assoluto.

Arriva il 2001 e arriva anche “Toxicity”, il quale abbatte il disco precedente sotto ogni aspetto, cura ingegneristica, elaborazione dei pezzi, espressione di un concetto e ovviamente in termini di vendite.

Stavolta ad aprire le danze c’è Prison Song, il quale di certo non spicca tra le composizione poetiche più rilevanti dell’ultimo decennio, ma c’è un balzo in avanti in questo album nelle liriche che va comunque segnalato. La musica invece giova di una maggiore profondità, i suoni sono disposti con maggior accuratezza da parte di Rubin, il risultato è una vera e propria invasione di riff e urla dei SOAD nelle nostre case, e quindi nelle nostre orecchie, quasi impossibile nell’ambito dell’alternative metal trovare un album realizzato con tanta cura del suono e del sound complessivo.

Scivola via “Toxicity”, al contrario del primo album, dove non sempre la successione dei pezzi poteva suonare perfetta (ci sono parecchi raccordi di Rubin per ovviare proprio a questo) stavolta tutto si incastra senza problemi, come se questo disco fosse uscito tutto assieme (anche se “Steal This Album!” ci mostrerà che non era così, ovviamente).

Non c’è un solo pezzo di “Toxicity” che abbia un difetto evidente. Da Deer Dance a Chop Suey! non solo i pezzi hanno strutture diverse (e non è scontato nel metal, per niente) in minutaggi brevi, ma anche i vari momenti emotivi estremamente contrastanti si susseguono con logicità, ed è naturale passare dalla devastante malinconia di Chop Suey! per buttarci in un mega-pogo con Bounce.

Toxicity che da il nome al disco è uno singoli metal più conosciuti nel mondo commerciale, anzi, voglio sbilanciarmi: è il singolo metal più conosciuto da chiunque ascolti rock e i suoi derivati. La forma lascia il posto ad un messaggio universale, le psichedeliche immagini che si susseguono di una città nemica dell’uomo sono molto sentite nei primi del 2000, in particolare nell’America democratica che ancora si disperava per la sfiorata vittoria di Al Gore alle presidenziali. Il contesto aiutò i SOAD? Piuttosto direi che i SOAD sono un ottimo risultato di quel particolare contesto, ancora un po’ confusi nel primo album, adesso il loro messaggio può dirsi anche politico e sociale.

Potentissima ATWA colpisce un altro bel pezzo di America rievocando Charles Manson (un incubo inconscio tutt’ora presente nella cultura statunitense).
Poco nascosta invece la hidden track dell’album: Arto, ormai un pezzo leggendario tra i fan, che ha il merito di aver rivalutato il nome di Arto Tunçboyacıyan (a quando qualcuno che ci riabiliti il mio amato Mulatu? Mi vanno bene pure i Slough Feg!).

Dopo la celebre fuga degli mp3 (il caso “Toxicity 2”) i SOAD decisero di correre ai ripari pubblicando “Steal This Album!”, un disco che si presenta nei negozi riprendendo esteticamente le classiche cover “fatte in casa” delle copie dei cd pirata.

Il collage di pezzi scartati dal secondo album sono per molti il massimo raggiungimento dei SOAD, e sinceramente faccio molta fatica a comprenderne i motivi.

Sicuramente c’è di mezzo una visione critica superficiale, che consta nel dire: ci sono i miei pezzi preferiti della band! Peccato che questo non sia un metro di giudizio applicabile per un album.
“Steal This Album!” è molto forzato nella quadratura del sound che Rubin impone a tutti i lavori che gli passano tra le mani, i pezzi sono hanno l’omogeneità di “Toxicity”, né la complessità espressiva.

Oltre a Boom!, pezzo celebre anche grazie al video di Michael Moore (un nome che pone il messaggio dei SOAD all’interno di una protesta sociale molto sentita e che, lo dico senza malizia alcuna, faceva vendere bene i dischi), e l’ottima prova di Tankian in I-E-A-I-A-I-O e l’apertura geniale e divertente di Chic N’ Stu il resto appare piuttosto raffazzonato e molto piatto se confrontato alla profondità di un album come il precedente.

Però è impossibile non salvare da questo macero le tracce acustiche Ego Brain e Roulette (mentre trovo ancora oggi confusa Streamline, eppure la mia ragazza mi insulta anche spesso, passandomela come la miglior canzone di sempre dei SOAD), magnificamente espressive e malinconiche.

“Steal This Album!”, per quanto mi riguarda, sebbene sia un disco che ascolto con piacere, è un passo falso piuttosto pesante nella striminzita discografia della band.

soad

Ed eccoci arrivati dunque al biennio del silenzio assoluto, 2004-2005, dove i SOAD stavolta semplicemente “aiutati” da Rubin (Malakian ormai vuole fare tutto da solo), compongono la loro opera più ambiziosa, il doppio… ah, no, già, non è un doppio, mi sbaglio sempre perché SONO DUE DISCHI USCITI A DISTANZA DI SEI MESI!

Il che potrebbe anche starci se non fosse che i due album sono in realtà un album diviso in due parti! Cazzo no!

Sì gente, a me rode ancora questa immane colata di merda che si nasconde dietro la scusa del “marketing” di ‘sta ceppa, potevano fare un doppio, un normale doppio, però quello non te lo potevano mica far pagare quaranta e passa euro, così te ne spiattellano due (che in realtà sono lo stesso) e via di vaselina e sorrisi compiaciuti del mio rivenditore di fiducia. Dannati metallari del cazzo!

Ma la cosa più irritante in assoluto non è tanto questo furto clamoroso seguito da biglietti ultra-mega-costosi per concerti suonati da impediti* ma quanto la schifosa ipocrisia della band stessa, che ci spiattella lì lì un disco moralista e iper-democratico, dove c’è la critica politica più spietata e comprensibile della loro storia, peccato che stavolta a coprire la sostanza ci sia troppa forma (iconograficamente rappresentabile con un chilo di merda).

Non era meglio non invischiarsi col discorso politico? Perlomeno non ci perdevate pure la faccia, IDIOTI!

Mezmerize”, quello uscito prima, resta comunque un disco più che sufficiente. Se stavolta il lavoro dei SOAD non solo riesce a guadagnare maggior respiro degli altri e anche profondità (sia nella complessità del sound che nelle liriche, almeno quando non fanno i cazzoni) manca però la violenza che caratterizza i primi due album, rallentando un po’ ma mantenendo comunque i cambi repentini e la magnifica potenza melodica.

Proprio sulla melodia stavolta c’è da riprendere per le orecchie la band, molto più scontata e banale che nei lavori precedenti.

Invece “Hypnotize” è una vera fregatura, favolosamente confezionata e degnamente suonata, ma resta una fregatura. Più che il seguito “Mezmerize” sembra la collezione degli scarti di “Mezmerize”, anche perché il disco non quadra per nulla, perdendo il respiro complessivo del disco precedente e perdendo anche la qualità compositiva. Tralasciamo Lonely Day, un pezzo scritto a tavolino per far cassa (quando la sentì su MTV fu davvero un giorno triste), ma la parte che più mi lascia esterrefatto è la rapida successione di Stealing Society, Tentative, U-Fig e Holy Mountain. Non trovo questi pezzi brutti, ma semplicemente ridondanti, si è persa sia l’ecletticità che distingueva comunque il prodotto finale dei SOAD che la costruzione ponderata degli album.

Io apprezzo moltissimo gli album che mantengono una sonorità ben precisa dall’inizio alla fine (“Toxicity” ne è un ottimo esempio), ma stavolta è un gira e rigira di idee e impressioni sonore senza capo né coda.

Se in “Mezmerize” Question! è l’apice, l’orgasmo multiplo del fan di vecchia data, invece in “Hypnotize” ci accontentiamo della feroce Attack (dal vivo rende davvero male, se non fosse per il bravissimo Tankian) e della chiusura di Soldier Side, pezzo che apriva il disco precedente, e che dovrebbe farci intuire una sorta di forma a concept album che però in realtà non esiste. Mah.

Una volta divisi cominciano le esperienze da solisti e mentre Shavo si è dato al cazzeggio creativo (collaborazioni mordi e fuggi, dj-set e video making, insomma: il vero genio della band)  gli altri hanno fatto sul serio, senza mai toccare nemmeno alla lontana le vette raggiunte come SOAD.

Di Tankian ho già abbondantemente parlato recensendo “Harakiri”, per Malakian e Dolmayan si apre invece l’esperienza degli Scars On Broadway, un primo disco discreto seguito da un secondo che voleva essere “duro e puro” e invece fa solo ribrezzo.

Ritornati assieme recentemente, sembra però non essere ancora finita quella “pausa creativa” che si erano dati, probabilmente sanno benissimo che di nuovo in studio non riuscirebbero mai a tirare fuori un ragno dal buco, e piuttosto che svilire ulteriormente il nome della band si fanno i cazzi loro e ogni tanto monetizzano con qualche tour mondiale.

*in realtà negli anni i SOAD migliorarono non poco le loro prestazioni dal vivo, però quando ho scritto il pezzo ero molto scazzato. Inoltre i ritmi più soft degli ultimi due album aiutarono non poco le esibizioni della band.

[“System of a Down”, voto: 7/10]

[“Toxicity”, voto: 7,5/10]

[“Steal This Album”, voto: 5/10]

[“Mezmerize”, voto: 6/10]

[“Hypnotize”, voto: 4/10]

Serj Tankian – Harakiri

Tankian

“Harakiri”, l’ultima fatica di Serj Tankian, è l’ennesima prova che la critica musicale serve unicamente come lettura mentre si è al cesso. Nessuno ha voluto stroncare definitivamente l’ex-cantante dei System Of A Down perché ci credono, dentro di loro ci credono: prima o poi tirerà fuori il capolavoro.

Mah.

Dal 1994 ad oggi Tankian ne ha fatta di strada. Mettersi qui e lasciar scorrere i nomi degli album dei SOAD mi sembrerebbe davvero un’ingiustizia, meriterebbero di essere approfonditi in un’altra recensione, o nell’occasione di un nuovo album (anche se sono tra quelli che sperano che non esca mai).

La band in sé riuscì a mio avviso a fare qualcosa di incredibile: non si fece categorizzare. Non esiste una vera e propria casella nella quale inserire il lavoro dei SOAD, di solito inutilmente trascinati nello scompartimento del nu-metal, ma la verità è che sono pochissimi gli album d’esordio come “System Of A Down (1998) che mostrano una così prominente personalità, un sound straordinariamente già calibrato ed innovativo, un disco in cui si fa fatica a scoprirne le influenze più prominenti a parte quella conclamata dei Dead Kennedys.

Quello che ha fatto la fortuna dei SOAD è stato proprio quel sound, risultato di una amalgama di artisti così diversi tra di loro che hanno trovato fino al 2005 un’armonia (musicale) impressionante.

Tankian stupiva per quella voce; i suoi barocchismi hanno caratterizzato tutta la produzione dei SOAD e trovava la sua perfetta controparte negli agghiaccianti striduli del deus-ex-machina della band Daron Malakian.

Lo scioglimento dei SOAD arriva in un momento molto contorto della loro discografia, l’anno successivo l’uscita nel 2005 di “Mezmerise” e “Hypnotize“. I due lavori divideranno i fan, tra chi reputò questi due dischi una semplice trovata commerciale per vendere il doppio e chi invece invocò la definitiva maturazione della band.

Sciolti i System Malakian e Tankian, le due anime della band, cominceranno due percorsi slegati, il primo fondando gli Scars On Broadway, mentre Tankian si getterà su dei lavori da solista, concentrando la sua attenzione nel far sentire a tutti quanto è bravo a cantare.

L’uscita di “Elect The Dead“, il disco d’esordio del nostro cantante d’origini armene, non lascia molti dubbi su chi fosse la mente del gruppo, anche se va detto che l’avventura di Malakian finora non ha prodotto alcunché di rivelante. Nel 2007 veniamo tartassati dalle uscite dei singoli da “Elect The Dead”, uno più inutile dell’altro. Sebbene siano più che ascoltabili pezzi come The Unthinking Majority o Lie Lie Lie, resta comunque un fatto inappuntabile che il disco non trasmetti niente, se non un triste riciclo di uno dei cantanti più apprezzati del momento.

Ma la cazzata Tankian la fa con “Imperfect Harmonies“, in cui rivisita in chiave orchestrale “Elect The Dead”. Sebbene l’album, e ancora di più la live, siano apprezzabili per l’accostamento dell’orchestra alle doti vocali di Serj, non si può non leggere questo disco come un chiaro esempio di mossa commerciale a causa di una evidente mancanza di idee.

Il 21 dicembre 2012 sarà fine del mondo dicono ma non per Tankian chiaramente, il quale ha già annunciato il suo nuovo lavoro: “Orca“, in uscita il prossimo anno. Cosa? Cosa? Ma neanche il tempo di ascoltare “Harakiri” e già annunci un nuovo disco? La vena creativa ha ripreso a funzionare? Oltretutto “Orca” secondo alcuni rumors dovrebbe essere una sinfonia. In meno di anno Tankian pare aver ritrovato un po’ troppo, obiettivamente.

Ma ascoltiamoci “Harakiri”.

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Il disco è uscito quest’anno sotto la Serjical Strike Records, etichetta ovviamente del prode Tankian, che oltre a se stesso produce band di dubbio gusto. A primo ascolto “Harakiri” non sa di niente. Undici tracce che scorrono bene, senza problemi, ma anche senza attirare l’attenzione.

Cornucopia ci ricorda quanto bravo sia Tankian a cantare. Bene. Grazie. Me l’ero dimenticato. Il ritornello lascia troppe perplessità, in generale il pezzo appare un po’ piatto. C’è in tutto il disco, almeno a mio avviso, un serio problema di produzione. Un altro problema… ma quando cacchio finisce la traccia? Quattro e passa minuti per Cornucopia sembrano alquanto esagerati, senza contare che ad ogni cambio di ritmo c’è una dilatazione temporale un pochetto esasperata.

Figure It Out è un pezzo che se prodotto da persone competenti poteva anche essere un bel pezzo. Così è una serie di riff che si susseguono, come dei loop, un pezzo da garageband.

Ching Chime è qualcosa di tristissimo. Il solito giochetto di parole che piaceva a Tankian dai tempi dei SOAD, stavolta si va dalla imitazione del suono delle monetine ai riferimenti alla Cina, nei System di solito venivano fuori cose allucinanti e divertenti stavolta viene sù un pezzo appena sufficiente, ripetitivo perché troppo lungo. L’ennesima buona prova vocale di Tankian, un po’ più colorata delle precedenti.

Butterfly parte bene, ti carica subito con un bel riffone con i coglioni (finalmente) e i primi cambi ci fanno sognare che speranza c’è. Niente di eccezionale, ma ascoltabile, purtroppo ancora una volta i quattro minuti sembrano troppo per quello che la canzone ha da dire.

Da Harakiri ci si aspetta qualcosa di più, perché è comunque il pezzo che dà il nome al disco, quindi… quindi… ma che succede? Una moltitudine di idee ci vengono sparate tutte assieme, quando il pezzo si calma e ci lascia ancora un po’ confusi sull’inizio a palla, diventa una sorta una melodia strappa-lacrime, senza un passaggio decente dall’una all’altra parte. A mio avviso sintetizza benissimo il disco di Tankian, indecisione, confusione, non si mai cosa vuole trasmetterci esattamente. Ben suonato, ben cantato, ma senza niente da dire.

Occupied Tears arriva alla sufficienza, ma anche stavolta non è comunque un pezzo degno di nota, rientra in una mediocrità dilagante. Ormai la struttura portata avanti da Tankian comincia a ripetersi in modo troppo lampante per non annoiarsi.

Deafening Silence mi fa davvero incazzare. Qualche suono elettronico a mò di: senti come sono moderno, buttati lì senza un motivo, ancora una volta una canzone troppo da garageband. La melodia è apprezzabile, Tankian canta bene (non so più che dire, è così evidente?), un pezzo che comunque ancora una volta non ha niente da dire e al terzo minuto inizia seriamente a rompere le palle.

Forget Me Knot appena comincia mi sembra una canzone di Sinead O’Connor. Giuro. Poi per fortuna canta Tankian. Lo schema ripetitivo non si denuncia in modo troppo chiaro stavolta, comunque secondo me non raggiunge la sufficienza, ok che ha un sound molto più appetibile, come se in cabina mixaggio si fossero svegliati ad un certo punto, ma quattro minuti e mezzo sono troppi, troppi, troppi, per dei pezzi così. E qui mi rendo conto che l’idee erano davvero troppo poche e così ogni pezzo dura il doppio di quanto gli sarebbe normalmente concesso. Ondate di tristezza colpiscono il mio animo e il mio portafoglio.

Reality TV è un pezzo riflessivo sulla TV come già Tankian ne ha fatti. Di certo il peggiore di sempre.

Uneducated Democracy è una botta di vita inaspettata! Ok, un po’ confuso a tratti, ma più che apprezzabile nella sua vivacità, si scorre velocemente tra impressioni musicali veramente ispirate, il miglior singolo di tutta la carriera solista del povero Serj (anche se un minuto glielo avrei levato, così, tanto per).

Il disco si chiude con Weave On, traccia piatta che cerca di coinvolgerci, ma stanca, perlomeno c’è un librettista d’eccezione come Steven Sater.

Temi che vanno dall’ambiente alla TV, Tankian tenta di toccare tutte le corde, e a livello di lyrics c’è, peccato per la musica. Complice una produzione che non riesce ad esaltare alcuni pezzi che potevano dare di più (come Ching Chime, Occupied Tears e Uneducated Democracy) e complice anche una vena creativa alquanto smorta il disco non può superare la sufficienza. L’aria d’innovatività che la critica italiana ha voluto vedere in questo album è del tutto frutto di una allucinazione collettiva. I pochi suoni nuovi che vengono proposti sembrano lì per puro caso, per il resto c’è una involuzione dal disco precedente. Sebbene l’album nel suo complesso sembri superiore, và detto che in “Elect The Dead” Tankian sperimenta molti più ritmi, ha molte più idee, cerca di spiazzare l’ascoltatore (ma non ci riesce), qui invece c’è una linea netta che viene perseguita traccia per traccia, omogeneizzando il disco in unica melassa appiccicosa. Altro che evoluzione.

  • Pro: Tankian canta bene.
  • Contro: una cosa è rendere il disco ascoltabile nella sua interezza, una cosa è fare un disco di copia-incolla da quattro minuti ciascuno.
  • Pezzo Consigliato: Uneducated Democracy è un pezzo con un senso, che si fa amare nella sua ecletticità. Un’eccezione dal 2006 ad oggi nella produzione di Tankian.
  • Voto: 3/10