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The Kinks – Lola Versus Powerman and the Moneygoround, Part One

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Etichetta: Pye Records
Paese: UK
Pubblicazione: 1970

Well I left home just a week before
And I’d never ever kissed a woman before
But Lola smiled and took me by the hand
And said little boy I’m gonna make you a man

Well I’m not the world’s most masculine man
But I know what I am and I’m glad I’m a man
And so is Lola

Ray e Dave Davies sono stati tra i più grandi songwriter inglesi di tutti i tempi. La loro capacità di costruire armonie complesse ma efficaci al primo ascolto era impareggiabile, eppure ad oggi è quasi la norma vederli fuori dalle classifiche online, ignorati anche dai blogger – più o meno influenti. È davvero una storia strana quella dei Kinks, fatta di irripetibili epifanie e di un lento ma ineluttabile logoramento.

Fripp cita i giri di chitarra dei Beatles quando parla d’ispirazione, Brian May gli Shadows, Zappa Veloso, Hitchcock Barrett, eppure né Shadows né Beatles né chiunque altro ha saputo cristallizzare la perfezione nella canzone pop come i Kinks. You Really Got Me usciva nel 1964 e presentava un nuovo modo di comporre e d’intendere il rock nel Regno Unito. Ad inizio anno c’era stato l’exploit dei Beatles: I Want To Hold Your Hand, ma la forza prorompente di You Really Got Me mostrava già i semi di una maggiore aggressività nel rock inglese, portata avanti anche da altri gruppi londinesi come Who e Small Faces, tesi ad inseguire il sogno pop dei Beatles ma cercando di conquistarsi un pubblico più maturo, nel caso degli Who persino intellettuale. In You Really Got Me c’era chiaramente l’influenza del garage americano (Kingsmen su tutti), ma ciò che l’ha resa per anni una delle canzoni preferite dal pubblico inglese, più che la sua indiscutibile orecchiabilità, fu il suo sapore di “strada”, la sua (in)genuinità giovanile. Un elemento di fragilità dietro il muro di suono di un riff rock.

Nel 1966 venne pubblicato l’ottavo singolo della band, Sunny Afternoon, ma il bello lo si trovava nel lato B di quel 7 pollici. I’m Not Like Everybody Else è il manifesto del pensiero kinksiano e non è un caso se la canzone non risulta presente in nessun album in studio della band.
I’m not like everybody else/
And I don’t want to ball about like everybody else/
And I don’t want to live my life like everybody else/
And I won’t say that I feel fine like everybody else/
Questa irrequietudine è sia la cifra che ha reso certe canzoni dei Kinks indimenticabili sia il loro limite. Ray e Dave ci credevano di poter cavalcare l’onda, e come insegnavano Beatles, Gerry & The Pacemaker e altri fenomeni da classifica, non c’era altro modo di farlo se non a suon di singoli e album lanciati in continuazione in faccia alla gente. Diciamo anche che negli anni ’60 era impossibile saturare il mercato, perché la platea di potenziali fan di un nuovo e frizzante rock era virtualmente infinita. Ma il pubblico di riferimento dei Kinks era difficile da inquadrare, nelle loro canzoni non trovavi sempre spensieratezza (Beatles), rabbia giovanile (Small Faces), impegno artistico (Who) oppure contaminazioni tra i generi (Move), più che dirti cosa desideravano e cosa volevano i Kinks nei loro momenti migliori elargivano incertezza e insicurezza.

Questa corsa ad accumulare uscite discografiche tra gli anni ’60 e ‘70 ha portato tanti talenti ad essere diluiti al ritmo di 33 giri, costretti a zeppare i dischi di riempitivi per farne uscire almeno uno l’anno (pensate a quanto e come è stato strizzato il genio di Brian Wilson) e così i Kinks non hanno mai composto un album capolavoro come si deve. Ma forse quello che ci è andato più vicino, o che quantomeno risulta il più peculiare della loro opera, è “Lola Versus Powerman and the Moneygoround, Part One”. Come ho scritto anche nello scorso post non voglio fare la gara all’album più bello, chissenefrega, quello che mi interessa semmai è capire perché LVP&TM,PO (che acronimo di merda, fra l’altro) al contrario del resto della discografia della band mi suona come un manifesto, come una rivendicazione di appartenenza e quindi d’identità.

Ovviamente c’è il concept di mezzo che parla proprio di questo, la ricerca di una propria identità. Un tema, se ci pensate bene, piuttosto abusato nel periodo. In un certo qual senso LVP&TM,PO è la versione “cheap” di “Tommy” degli Who uscito due anni prima. Laddove Townsend aveva cercato di produrre un manufatto artistico con tutti i crismi, i Kinks dal canto loro usarono la scusa del concept per incasellare una serie di hit. Ma se opere come “Face To Face” (1966) e “Arthur” (1969) risultano altrettanto brillanti di LVP&TM,PO almeno per qualità delle composizioni e sperimentazione dei limiti pop, lo stesso non si può dire per l’irrequietudine che smuove in particolare questo album. Le emozioni così acerbe da risultare affilate come coltelli sono il terreno di gioco prediletto dei fratelli Davies, e trovano la loro più concreta definizione in questi solchi.

L’album si apre di maniera, con una The Contenders scritta giusto per rimarcare che: «stavolta i Kinks ci mettono il concept, stronzi!», ma la roba seria arriva subito dopo. Strangers è quello che dicevo prima, la cifra. Dave scrisse probabilmente una delle più strazianti canzoni pop di sempre, fin da subito molto orecchiabile ma che cela molto mestiere.
So you’ve been where I’ve just come
From the land that brings losers on
So we will share this road we walk
And mind our mouths and beware our talk
‘Till peace we find tell you what I’ll do
All the things I own I will share with you
If I feel tomorrow like I feel today
We’ll take what we want and give the rest away
Strangers on this road we are on
We are not two we are one
Il pianoforte valorizza la melodia e la sostiene mentre Dave canta con struggente compostezza, ogni elemento estetico è soppesato, l’entrata dell’organo sulle parole «Holy man and holy priest» viene subito corretta con un secco cinismo nel secondo verso: «This love of my life makes me weak at my knees», la batteria claudicante dialoga con una linea di basso minimale, la voce che non urla denuncia con la sua delicatezza un dolore irreprensibile. Fottesega se sei una rockstar o un pezzente, la solitudine non è né una scelta né una penitenza, esiste e puoi fartici ingoiare. Non proprio un messaggio propositivo, ma indiscutibilmente vero.

Il cattivo della faccenda (sì, perché è un “concept”, quindi c’è una “storia”) è il produttore discografico, che passa il suo tempo a spezzare i sogni dei giovani e sensibili artisti. La prima volta che spunta fuori è in Denmark Street, con un bel po’ di ironia british e supportato da un ritmo scalmanato. Get Back in Line è il primo riempitivo e cerca di mantenere una coerenza sonora col resto, peccato per le armonie scontate e le liriche che non riescono a colpire tra le gambe come in Strangers.

Su Lola spero di non dover dire molto. Nella mia vita questo pezzo ha avuto un ruolo fottutamente importante e discuterne in maniera oggettiva è difficile, quasi ingiusto sotto certi aspetti, perché non sono certo un sentimentale quando si parla di musica, se non per pochissime eccezioni. Di cosa racconta e come lo sanno tutti, come anche del perché dovettero farla uscire in radio con «Cherry-Cola» invece di «Coca-Cola» ma forse non tutti si ricordano che è ispirata da una storia vera accaduta proprio a Ray Davies. Il fatto è che Lola più che un bell’anthem sixties è l’urlo finale di una bestia ferita, una ferita non stata inferta dall’amore o dall’indifferenza, ma insita nell’essere umani e nell’essere giovani. E non c’è proprio modo di scappare da questa merda.

Di Top of the pops avevo già scritto, racconto amaro sull’arrivo alla prima posizione di un disco pop e tutto il circo mediatico attorno, sempre con uno sguardo privilegiato all’intimità (Now my record’s number 11 on the BBC/ But number 7 on the N.W.E./ Now the Melody Maker want to interview me/ And ask my view on politics and theories on religion/ […] Now my record’s up to number 3/ […] And now I’ve got friends that I never knew I had before/ […]). Persino più caustica Rats, che vive di un dinamismo straordinario e di una sezione ritmica strepitosa, metafora di come cambi l’ambiente attorno a te quando hai successo, impressionanti le immagini di montagne di ratti opulenti che risalgono dalle fogne per pretendere un pezzo succoso di successo dai lembi candidi del protagonista. L’episodio più liberatorio dell’album è certamente Apeman, un divertissement sulla paranoia di una guerra nucleare.

Ora: non ho il tempo né le forze di analizzare tutte e 13 le canzoni, in questo periodo lavoro parecchio e anche se come dice il mio kebbabaro di fiducia: «Finché lavoro bene, salute importante certo perché senza male, ma lavoro, lavoro più» e io lavoro, lavoro più un sacco. Però per i Kinks non riesco a non spendere altre due paroline in più.

Perché è così difficile ammettere il primato dei Kinks nella canzone pop rock? Forse perché una volta finita la moda della british invasion, di quel rock ’n roll che nasceva per conquistare un pubblico adolescenziale e quasi esclusivamente femminile, quando insomma la moda si era spenta per far posto ad un nuovo fuoco, ecco che soffiando sulla cenere dei Kinks si percepisce sopratutto il malessere d’una generazione, la malinconia così viva e palpitante. E non è certo quello che uno vuole sentire quando si spara un bel pezzo merseybeat nelle cuffie, magari in piedi sul bus.

Dopo il successo inaspettato di You Really Got Me nel 1964 i Kinks non furono ben visti dai gruppi anti-commerciali, perché era considerato improbabile che dei ragazzini senza arte né parte avessero potuto scrivere un pezzo così duro, probabilmente era stato solo il caso. I critici poi non li percepivano alla stregua degli Who di Townsend, cioè una band che incanalava la tensione generazionale in furia artistica. I Kinks erano e sono un’anomalia del sistema, un’urgenza somatizzata in melodie struggenti e urla sguaiate, capaci di nascondere il malessere dietro una folta coltre di armonia e barocchismi. E forse proprio per questo disinnescare la metodica leggerezza pop i Kinks restano ancora oggi diversi da tutti gli altri.

The Litter – Distortions

The+Litter

Quello che vi propongo oggi è un acquisto sicuro, anche se non di eccelsa qualità concettuale.

Sì perché credo che ogni tanto ci sia bisogno di far girare sul piatto un disco che alla fin fine non abbia chissà quali pretese, ma che faccia quel pizzico di rumore che comunque ci allieta la giornata.

E di rumore “Distortions” ne fa, dato che Warren Kendrick lo volle chiamare così perché l’intero album è caratterizzato dall’uso smodato del fuzz-tone.

Il garage dei The Litter è elettrico oltre ogni immaginazione, le casse sembrano emettere fulmini mentre le tracce si susseguono, il che credo sia un ottimo incentivo per l’acquisto di un album di fottuto rock, no?

Cos’altro hanno questi The Litter? Beh, nulla.

“Distortions” esce nel 1967 sull’onda del successo del 45 giri “Action Woman / ”Whatcha Gonna Do About It”, pubblicato da un’etichetta a me sconosciuta (la Warick). Se consideriamo quanto il garage aveva dato fino al ’67 il disco dei The Litter non sorprende né colpisce per una qualche idea in particolare, sono i soliti cinque ragazzini bramosi di fama che indossano vestiti di dubbio gusto e suonano come un Woody Guthrie impasticcato.

L’anno prima uscì dei The Seeds il loro primo album omonimo, una pietra miliare per il rock, un garage a tinte acide che spesso anticipa il punk (No Escape), era uscito un album pieno di ironia e contenuti serissimi come “Black Monk Time” dei The Monks (Complication), The 13th Floor Elevators, Electric Prunes e Blues Magoos tenevano alto il vessillo psichedelico mentre i Sonics spianavano la strada per il punk duro e puro (Strychnine). I The Litter nel 1967 erano in ritardo per la festa.

Un’altra cosa interessante è che “Distortions” è un album di cover, i Litter se ne fottono altamente di scrivere qualcosa di pugno, massacrano a suon di fuzz-tone gli Who, gli Small Faces, gli Yardbirds, cazzo si prendono pure Spencer Davis Group, non si fanno mancare nulla queste fighette di Minneapolis.

Però lo spirito di quei folli anni c’è tutto in questo album, anzi “Distortions” nella sua povertà concettuale è un disco che suona sporco e vivo come pochi nella storia del rock.

Mai un calo di tensione, mai un momento di noia, mai una pausa. La qualità espressa da Jim Kane, Dan Rinaldi, Tom Murray, Bill Strandlof e Denny Waite è strabiliante, e tutto in rigoroso MONO (tranne che per The Egyptian).

Questo è un album che dovrebbe far riflettere tutte quei dannati musicisti perfettini che se non registrano “da Dio” manco pubblicano un loro ruttino. Eppure a volte non servono nemmeno le idee, occorre solo quella fiamma indomabile che il rock incarna nelle sue esplosioni elettriche.

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L’album si apre con la bellissima Action Woman, un monolite del garage rock presente in qualunque collezione si rispetti su questo nobile genere. Se non ti convince un pezzo così sei messo male.

Via subito a razzo con la cover degli inglesi Small Faces, Whatcha Gonna Do About It? che orfana della voce di Marriott si riprende con delle indemoniate sferzate chitarristiche di Rinaldi. Un classe unica.

Siamo alla terza traccia e già possiamo sentirci pienamente soddisfatti dell’acquisto, perché Codine in questa veste distorta è quanto di più rock si possa immaginare. Lenta, potente, elettrica.

Somebody Help Me è un brit-rock basilare suonato da dei geni.

Substitute è la prima cover degli Who, e passa pieni voti. Anche inspiegabilmente del lotto è il pezzo che ha sofferto di più l’inevitabile scorrere del tempo (in coda c’è spazio pure per The Mummy di Tommy “Zippy” Caplan).

Si conclude il primo lato con la psichedelia stereofonica di The Egyptian.

Parte di corsa I’m So Glad con le solite impressioni elettriche col fuzz-tone che riempiono la stanza di luce.

Seconda e ultima cover degli Who, anche A Legal Matter tiene il passo.

In Rack My Mind si presenta pure un’armonica, ma niente blues o folk music del cazzo, fuzz-tone in funzione e garage incazzato per tre minuti e mezzo.

Soul Searchin’ e Blues One elettrizzano le palle con gaudio. Troppo bravi per essere vero.

Si conclude anche questo giro di giostra, ma per chiudere una chicca: I’m A Man, in una versione veloce, distorta e sporca come non l’avete mai sentita.

Il bello di questi album è che non devi scriverci sopra più di tanto, né ci vuole troppo a convincerti, ti piace il rock? Adori il rumore più sgradevole? Sotto la doccia canti The Witch dei Sonics? Beh, stronzetto, o stronzetta che sia, devi avere questa merda.

  • Pro: è rock gente, che altro volete sapere? Cazzo, certo che con i Pro e i Contro ultimamente sto proprio messo male…
  • Contro: se non ti piace il garage lo terrei lontano due sistemi solari da te.
  • Pezzo Consigliato: le prime tre tracce sono da antologia.
  • Voto: 7/10

Blues Magoos – Psychedelic Lollipop

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I Blues Magoos sono uno dei gruppi (nel bene e nel male) imprescindibili nella storia del rock.

Intanto il loro sound, quell’acid-blues in tinta psichedelica, stupisce ancora oggi per la sua straordinaria maturità (e “commerciabilità”). Se consideriamo band precedenti come gli Electric Prunes o i Chocolate Watchband (che fino al ’67 non pubblicheranno niente) già in “Psychedelic Lollipop”, album d’esordio dei Blues Magoos targato 1966, c’è così tanta consapevolezza psichedelica (concentrata in pochi minuti) da incantare.

Meno estremi dei 13th Floor Elevators, sicuramente meno politici dei Country Joe and the Fish, i Blues erano il risultato della fusione che stava avendo atto a New York, in particolare nel quartiere beat per eccellenza: il Greenwich Village.

Se da una parte c’era il sound garage graffiante e rivoluzionario dei Sonics, dei Kingsmen e altre band giovanili, il Greenwich a metà degli anni ’60 era concentrato a seguire le dispute politiche a suon di mazzate folk tra Phil Ochs, Bob Dylan e Joan Baez. Queste due tendenze opposte trovarono una specie di compromesso nel folk-rock che sorgeva nella grande San Francisco, futura sede delle serate allucinogene che in seguito conquisteranno l’America.

Ecco dunque i Blues Magoos, una band che nasce in un ambiente molto lontano da quello psichedelico californiano, ma che saprà trarre dagli input che li circondava il primo vero successo dell’era psichedelica.

Il fatto che i Magoos siano, per quanto mi riguarda, così fondamentali per comprendere la storia del rock sta proprio nel sound di “Psychedelic Lollipop”, un’avanguardia che senza essere sperimentale ebbe un successo incredibile per l’epoca, e che di fatto aprì le porte alle centinaia di band psichedeliche che sopraggiungessero da lì a pochi mesi.

Se i 13th Floor Elevators sono stati rivalutati a posteriori ovvero quando il primo movimento psichedelico si spense (per evolversi in altro), i Blues Magoos ebbero un effetto immediato che scosse il mondo del rock come pochi altri.

Un errore piuttosto comune è quello di categorizzare la band sull’onda garage, il che a mio avviso è impreciso. Certamente i Blues derivano ANCHE dal garage, ma è quella magica combinazione che scaturisce dal contesto musicale multiforme del Greenwich Village che identifica il loro rock, il quale farà da base a band come Jefferson Airplane e Grateful Dead. Inutile cercargli una targhetta identificativa del cazzo tipo: folk-psychedelic-blues-garage-rock, sarebbe solo uno dei tanti modi per rendere ancora più ridicola la critica rock di quanto già è.

Se c’è una critica reale da muovere verso i Blues, ed è una macchia indelebile, è quella sui contenuti, praticamente inesistenti, che per fortuna verrà presto smacchiata dal resto del movimento psichedelico. È importante leggere con alto tasso critico questa band, perché se la psichedelia viene sdoganata musicalmente con “Psychedelic Lollipop” lo stesso non si può dire per l’aspetto culturale, che si farà breccia con una certa difficoltà nell’America puritana e che esploderà definitivamente grazie ad altre band.

Sempre su questi termini c’è anche da valutare l’immagine dei Blues Magoos, costruita artificialmente con una astuta operazione di marketing, che una volta esaurita la sua carica iniziale soccomberà inevitabilmente nei confronti di chi oltre l’immagine aveva anche dei contenuti.

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L’album si apre con la splendida (We Ain’t Got) Nothin’ Yet, l’allucinato organo elettrico suonato da Ralph Scala ricorda i momenti felici dei Question Mark & The Mysterians, ma siamo già qualche passo avanti nella composizione. Uno dei pezzi garage più pregiati dell’epoca, premiato con un simpatico plagio da parte dei Deep Purple.

Segue una ballad, uno di quei momenti in cui di solito dormo, Love Seems Doomed (ovviamente classica citazione subliminale di “LSD”) ha però alcuni interventi elettronici che impreziosiscono l’ambiente sonoro.

Visto che di blues questi ragazzi ne masticavano non poteva mancare una cover del grande John D. Loudermilk, la sua famosa e ritmica Tobacco Road parte con un blues infernale per poi trasformarsi in una corsa blues-rock, ed infine esplodere in una cacofonia psichedelica che assale l’ascoltatore del 1966 come una bomba atomica esplosa dritta dritta nel cervello. Pochissimi avevano ascoltato ed apprezzato i Red Crayola, forse anche meno i The 13th Floor Elevators, ma a tanti si aprirono le porte della psichedelia grazie ai quattro minuti e mezzo di Tobacco Road.

Ecco il Greenwich Village con la cover di Queen Of My Night di David Blue. Un basso suadente, una voce da juke-box e l’organo allucinato di Scala completano una hit dal sapore antico.

Il lato A si conclude con una grandissima cover: I’ll Go Crazy, del maestro James Brown, che in mano a questi ragazzini diventa un pezzo garage sporco e sudicio alla The Music Machine, piccolo colpo di genio da poco più di un minuto.

Si riprende l’ascolto con un’altra cover, Gotta Get Away anticipa per certi versi il sound dei primi Small Faces, garage ancora una volta, filtrato dal blues e dalla vena beat (intuibile dal testo) del Greenwich. Grandissimo pezzo.

Portentosa Sometimes I Think About, un lento blues strutturato come i migliori pezzi blues rock che in pochi anni verranno allungati nelle live per delle ore, un prototipo questa Sometimes impreziosita dai soliti interventi all’organo di Scala.

One By One si rifà ad una tradizione brit-pop da singoli alla radio, poca roba.

Si torna al blues con Worried Life Blues, bell’attacco con l’organo e la chitarra che fraseggiano sul morbido blues di Big Maceo Merriweather. Ogni tanto il ritmo viene spezzato da delle sferzate garage che durano troppo poco per essere apprezzate a pieno.

Si conclude il giro con She’s Coming Home, un ultima cover non più blues, un veloce pezzo garage rock che però suona un po’ studiato, ma comunque di pregio.

“Psychedelic Lollipop”, se escludiamo il titolo, ha dato poco tecnicamente alla psichedelia, ma è stato l’album che l’ha sdoganata dal suo piccolo giro facendola diventare il principale fenomeno culturale della seconda metà degli anni ’60.

Per il resto i Blues Magoos non riusciranno più a piazzare un colpo come questo, abbastanza credibile il secondo album “Electric Comic Book” (1967) ignobili i successivi.

  • Pro: un album che ha fatto la storia.
  • Contro: se escludiamo due o tre pezzi potete benissimo viverci senza.
  • Pezzo consigliato: la straordinaria cover di Tobacco Road.
  • Voto: 7/10

The Move – Move

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Negli anni ’60 sono venute sù così tante band che oggi è davvero difficile fare il punto della situazione.

Un genere particolarmente sfigato è il progressive, oggi noto perlopiù grazie ai gruppi più influenti. Si và dalla musica complessa e consapevole dei Weather Report ai barocchismi degli Yes alla genialità di Peter Gabriel con i Genesis. Purtroppo molte band che furono come un ponte ideale per il prog e i suoi sviluppi vengono tutt’ora ignorate. Tempo fa parlai dei Rare Bird, band eclettica che decise di andare avanti con un hammond, due tastiere, una batteria, un basso e nemmeno mezza chitarra, tirando fuori dal cappello un disco eccezionale nel 1970 come “As Your Mind Flies By”. Oggi invece ci concentreremo su una band molto diversa.

Le influenze che portarono il prog a diventare un genere ben (insomma) definito sono state tantissime, e non tutte d’accordo con loro! Si va dalla psichedelia nel garage rock a John Cage e alle tecniche stocastiche, fino a Anthony Braxton e magari qualcosa dalla musica di fine ottocento.

Comunque nella maggior parte erano band che nascevano sulla scia dei deliranti anni ’50-’60, ragazzi che vedevano nella strumentazione elettrica una via di scampo e un simbolo della lotta contro al generazione precedente, la loro emancipazione, la loro libertà.

Alcuni di essi a forza di sperimentare iniziarono ad interessarsi ai generi suddetti, cominciarono ad affinare la loro tecnica, e sempre in quegli anni iniziarono i primi bisticci tra le band.

Il successo incredibile degli Who portò in quel di Londra una lotta musicale senza paragoni. Ogni quartiere si sentiva in dovere di rispondere, ma la guerra dei mod era una vera e propria guerra a suon di chitarra e batteria!

Tra le band più rappresentative ci sono certamente gli Small Faces, ma è ingiusto che il tempo si sia lasciato dietro una band eclettica come i The Move.

I The Move nascono proprio come risposta a questa situazione musicale, una risposta di tutto punto che racchiudeva in sé alcuni dei maggiori talenti della Londra dell’epoca. Roy Wood fu il filo conduttore della band, dai The Nightriders ai Move fino ai Electric Light Orchestra: la sua sarà una carriera in decisa ascesa, potremmo dunque definire i Move come il momento di passaggio per Wood dall’anonimato alla fama.

Cosa c’è nei The Move che possa far presagire al salto con gli ELO?

Tante cose, anche se al contrario degli ELO i The Move erano un progetto in continuo movimento (come si intuisce dal nome della band), si ispirarono ai Beatles come ai Faces, ai Byrd e ai Creem, e tentarono molto presto, cioè già al secondo disco, di appoggiare appieno il movimento prog inglese.

Nel 1970 con “Shazam”, e nel 1971 con “Looking On” riuscirono a ritagliarsi un posto importante in quella difficile Londra, mischiando pop basilare al prog e a qualche timida sperimentazione.

A mio modestissimo avviso il lavoro più interessante è il primo disco, omonimo ovviamente, del 1968, il quale racchiudeva le esperienze della band dal ’65 fino a quel momento. Fu una band molto vivace politicamente, niente a che vedere con i feroci MC5, ma ricevettero denunce e censure di ogni genere. I loro testi andavano da gente chiusa in cliniche per l’infermità mentale ad attacchi a noti politici, alcuni dei loro pezzi degli ultimi ’60 hanno ritrovato la luce solo negli anni ’90!

The Move - Move

“Move” è un disco pop, con tinte prog, decise virate psichedeliche e qualche tentativo sperimentale (davvero accennato e ingenuo). Con le dritte di Dennis Cordell e della Regal Records Zonophone questa band sembrava pronta per sbancare ovunque.

La Regal fu tra le etichette che unite si trasformarono nella EMI, e gran parte del suo valore lo deve proprio alle orecchie di Cordell, produttore di successi mondiali come “A Whiter Shade Of Pale” (1967) dei Procol Harum e il glorioso “With a Little Help from My Friends” (1969) di Joe Cocker.

Sì, ok, mi sono un po’ perso in seghe mentali come al solito.

Il disco si apre con Yellow Rainbow, da Barrett ai Beatles per i Move c’è un passo, certamente a livello compositivo non hanno niente da invidiare ai secondi, magari peccano un po’ di creatività.

Segue bene Kilroy Was Here (Wood è un trascinatore nato), conferma la psichedelica vena creativa anche (Here We Go Round) The Lemon Tree con una una ingenua sezione d’archi che fa sorridere senza infastidire.

Molto garage la Weekend di Bill and Doree Post, molto Beatles Walk Upon The Waters.

Flowers In The Rain è una di quelle cose per cui ringrazi gli anni ’60. Spensieratezza derivata da un uso poco ragionevole di acidi, con quegli effetti sonori che sarebbero quasi ad un livello narrativo (è presente un effetto temporale). Ricordo che anche Le Orme, nel loro primo disco, nel singolo Oggi Verrà utilizzarono un effetto simile (un po’ più scrauso magari) ma senza donargli questa piccola, timida, valenza narrativa. È comunque un punto a favore per i The Move.

Hey Grandma spinge sul rock, e non possiamo che apprezzare. Il disco fin qui non annoia mai, nessun capolavoro, ma buona e sana musica popular.

Useless Information è un riempitivo semplice senza motivo di esistere. Più divertente e filo-zappiana Zing Went the Strings of my Heart, una nota di colore decisa nell’album.

Daje cogli archi con The Girl Outside, un sound molto italian style, ma non c’è da sorprenderci. I Move hanno avuto un breve ma intenso momento di popolarità in Italia, grazie al singolo Blackberry Way (ideato assieme all’Equipe 84, in Italia è conosciuta come Tutta Mia La Città), addirittura nel ’71 i The Move canteranno in Italiano con Something nel loro disco”Looking On”.

Fire Brigate è simpatica, ma nulla più. Mist on a Monday Morning fa molto primo prog, con l’idea del suono del clavicembalo e gli archi e Wood che canta come un vero lord inglese. Gustoso.

Chiude una versione un po’ infima di Cherry Blossom Clinic, certamente il loro capolavoro, ma in questo singolo c’è solo la potenza di quello che poi sarà atto nell’album successivo, ovvero “Shazam”, dove troneggia senza dubbio una Cherry Blossom Clinic Revisited di ottima fattura, psichedelica e prog oltre modo, uno dei miei pezzi preferiti del ’70 per follia e goliardia.

Insomma, “Move” dei The Move non ha cambiato le nostre vite alla fine di questo ascolto, ma non ci ha nemmeno fatto pentire dei soldi spesi.

  • Pro: un disco da custodire come documento storico, in “Move” potete sentire tutte le influenze che definirono alle orecchie della gente generi come il garage, il prog, la musica psichedelica e il pop raffinato degli ELO.
  • Contro: pochissimo, le ingenuità in questo caso sono un valore aggiunto per me!
  • Pezzo Consigliato: non è di questo disco, ma Cherry Blossom Clinic Revisited è davvero un gioiello perduto dei ’70. Godetevelo.
  • Voto: 6,5/10

La Questione Scaruffi

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DISCLAMER: Questo articolo è brutto e vecchio e invecchiato male, leggiti QUESTO che è molto meglio!

Piero Scaruffi, per chi non lo sapesse, è una delle personalità più assurde d’Italia (anche se preferisce l’America è pur sempre italiano).

Scaruffi è uno storico del rock (non ama tanto la definizione di critico) che tempo fa tirò fuori una enorme Storia Del Rock ora on-line nel suo vecchissimo (e se vede) sito, un’opera enciclopedica/critica/storica che fa sembrare la Gerusalemme Liberata poco più che un romanzo tascabile alla Camilleri. C’è di tutto, dai Rolling Stones alla band del circolo ARCI sotto casa (se vivi a New York, chiaramente), e il metro di giudizio di Scaruffi è di certo alquanto differente da quello del critico medio, dunque per me è stato fonte, assieme ad altri, di informazioni preziose.

Tutti, o quasi, odiano Scaruffi. In Italia almeno il 98% della popolazione.

In Primis perché il Piero nazionale non sa tenere a freno la lingua, se una band, anche rinomata (se non soprattutto), non gli piace, la distrugge sotto ogni punto di vista.

Per sintetizzare se no qui si fa notte: Scaruffi premia la sperimentazione, il nuovo (che segua però una precisa logica di pensiero, non: nuovo fine a se stesso), le correnti che cambiano davvero il corso della storia musicale, che pongono nuovi limiti o ne che distruggono di vecchi.

Per me è un ottimo metodo di critica, anche se mi trovo spesso in disaccordo con le idee di Scaruffi, non posso far finta di non notare che questo accade quasi sempre quando ci sono in ballo band che mi piacciono. E questo lo dico per onestà intellettuale.

Piero+Scaruffi+Beatles+scaruffi

È ormai storico il suo astio verso i Beatles, visti nel suo libro come un mezzo commerciale prima ancora che musicale; tale considerazione gli ha creato una folta schiera di nemici che, almeno a mio avviso, sono quasi sempre dei perfetti cretini.

Quando mai in Italia si dà peso al giudizio di un critico? Quasi mai, e c’è una ragione ben specifica perché ciò accade: il critico italiano medio tende a parlar bene di qualunque band, meglio ancora se famosa. Leggersi certe recensioni sul Rolling Stone fa venire i brividi, il servilismo verso le case discografiche è lampante, quasi perverso nella sua continua ostentazione.

Inoltre c’è da dire che gran parte dei provetti critici nostrani raccontano panzanate a tutto spiano, per poi fare le pulci a Scaruffi.

Che i Beatles siano nati come risposta politically correct al rock and roll nero non mi pare una bestemmia, è un dato di fatto negabile soltanto con una disonestà intellettuale assoluta. Possiamo discutere sul fatto che fossero validi o meno, o che fossero solo capitati al momento giusto nel posto giusto (o col produttore giusto nell’etichetta giusta), possiamo discutere sulla qualità dei singoli e degli album, ma è innegabile che i Beatles non hanno inventato nulla di trascendentale, ma piuttosto sono stati portavoce di uno stile e di un modo di fare musica a loro coevo. Se avete letto delle note negative in questa analisi è perché partite col pre-concetto (sbagliato) che non inventare sia una cosa negativa. Perché? Non è che siete come Scaruffi allora?

Parliamo dei critici sul web che vogliono la testa di Scaruffi? Una leggenda metropolitana che va molto di questi tempi, figlia chiaramente di un ignoranza mascherata da conoscenza, è che i Led Zeppelin abbiano copiato dagli Humble Pie. 

Ma porca pupazza, tra tutti i santi gruppi da cui i Led Zeppelin hanno spudoratamente copiato (anche se è inesatto, e poi vediamo perché se me lo ricordo) mi prendi gli Humble Pie di Frampton e Marriott? Già trovare le somiglianze per me è una forzatura. Nascono praticamente nello stesso anno, ma da due situazioni assolutamente diverse. I primi dalle ceneri degli Yardbirds (o dei New Yardbirds, o dei Nouvelle Uccell’ o come cavolo si chiamavano dopo il duecentesimo cambio di formazione) band dalla formazione blues che dà alla chitarra quell’importanza fondamentale che poi sarà l’oggetto della discussione musicale in ambito rock per gran parte dei primi ’70. I secondi nascono dalla ex-band di Steve Marriott, gli Small Faces, i mod in diretta concorrenza con i mod per eccellenza: gli Who. Cacchio gli Small Faces ci acchiappavano di soul e di presenza sul palco alla Who, ma gli Yardbirds facevano ben altre cose.

Una volta che Humble Pie e Led Zeppelin si sono formati già di partenza le diversità sono chiare, limpide. I Pie sono la versione hard degli Small Faces, ma senza la vena psichedelica, e sopratutto senza idee particolarmente sconvolgenti (c’erano anche i Cream là a giro, mica la banda dei fiati di San Miniato basso), mentre gli Zep non solo sono la versione molto (alla terza) più hard degli Yardbirds, ma portano avanti nuove idee plasmando il vecchio blues, che sarà una fonte di approvvigionamento costante in tutta la loro carriera da hard-rocker, spingendo verso una psichedelia più funzionale e meno “a caso”, polverizzando il primato del prog e portando il grande rock nei grandi stadi.

Un paio di differenze insomma.

ester168

Vabbè, come al solito nei miei post non si capisce niente, ma la questione è proprio terra terra. Prima di criticare Scaruffi vorrei perlomeno avere un pizzico della sua cultura (generale). Poi chiaramente è un borioso del cacchio, la pagina di nonciclopedia su di lui è più attendibile di quella di wikipedia, non ci sono dubbi, però è anche vero che c’è una forte analfabetizzazione musicale in Italia.

Anni fa, quando Scaruffi parlava bene di Beefheart, dei Red Crayola, dei Fugazi, dei Pere Ubu, di quel gran cazzone di Klaus Schulze, nessuno se li cagava di striscio (parlo del mondo ancora più analfabetizzato musicalmente che è internet) ora sono i miti di un sacco di gente.

Io credo che la critica musicale, come la critica artistica in generale, solo nel tempo dimostra la sua validità.
Nel 1874 la gente s’andava a vedere CabanelBouguereauBaudry, e quella era considerata da tutti i critici Arte Immortale, mentre quegli sfigati che facevano la mostra a casa di Nadar (fotografo piuttosto eclettico, a mio avviso assomiglia tantissimo allo zio Eduard di Mort À Crédit) erano considerati imbecilli destinati a finire nel dimenticatoio per sempre.

P.S.: Essendo nata nei commenti la solita diatriba sui Beatles eccovi una mia riflessione in merito.

P.P.S.: [2021] Questo articolo è vecchio e scritto di getto da un giovane me molto irriflessivo, se volete un aggiornamento su questa “questione” eccovi un succosissimo link.