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Soft Boys – Underwater Moonlight

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Etichetta: Armageddon
Paese: Regno Unito
Pubblicazione: 28 Giugno 1980

Ideale crasi tra Syd Barrett, Rolling Stones, Captain Beefheart, Beach Boys e Beatles, “Underwater Moonlight” è certamente uno degli album più eclettici della storia del rock, oltre che uno dei più discussi, anche da chi in realtà non ne ha una opinione in merito.

Difficile trovare qualcuno che non tacci UW di capolavoro passando direttamente col rosso, quando invece il secondo album dei Soft Boys alla sua uscita fu quasi ignorato.

In realtà se vogliamo parlare di UW con cognizione di causa dobbiamo necessariamente partire dall’ancora più ignorato esordio della band inglese: “A Can Of Bees”. Registrato nell’estate del 1979 e pubblicato quello stesso anno. L’esordio di Robyn Hitchcock e Kimberly Rew nello spastico mondo del rock di fine ‘70 è deflagrante, zeppo di sfuriate elettriche alla Barrett, qualche percussione che ricorda i Beatles più psichedelici, ma sopratutto una clamorosa riscoperta del secondo periodo dei Beach Boys, quello meno famoso ma più interessante, partendo dalle direttive angosciose di “Surf’s Up” (1971). La sezione ritmica varia dai Byrds per passare al kraut rock dei Can, precedendo di molto la felice commistione garage-kraut dei Thee Oh Sees.

Forse la chiave della celata malinconia di UW sta proprio tra le noti gravi e profetiche di quella gemma dei ’70, poco considerata persino dagli appassionati, quel “Surf’s Up” di cui prima. Alla fine del loro percorso i Beach Boys erano riusciti a produrre album molto influenti (su tutti “Pet Sounds” e “Smile”) senza mai sfruttare a pieno il genio di Brian Wilson, uno che da solo probabilmente valeva la somma dei Beatles moltiplicata per due. Dalla mediocrità voluta dal resto della band e da chi produceva i loro album, Wilson riusciva con i suoi colpi di genio a trovare sempre qualche soluzione originale e brillante (God Only Knows ve la ricordate, no?). Purtroppo il più delle volte le sue capacità compositive venivano usate per fini meramente commerciali, in particolare stravolgendo la musica surf, depotenziandola del suo retaggio culturale underground, e rendendola una sorta di tragico ritorno ai complessi vocali a cappella, facendo fare al rock di Ventures, Shadows, Dick Dale, Challengers, Trashmen non uno, non due, ma dieci passi indietro.

Detto questo Wilson, in mezzo ai suoi problemi con le droghe e la sua sempre più instabile sanità mentale, che lo porterà ad essere sfruttato per anni da manager senza scrupoli, nel 1971 compie un mezzo miracolo, inventando una delle canzoni di maggior rilievo nella musica pop, incastonata egregiamente nel diciottesimo lavoro in studio della band, parlo ovviamente di quel bellissimo viaggio negli abissi della depressione che è ’Til I Die. Il pezzo, oltre ad essere spacca-culi oltre ogni immaginazione, reinventa certe atmosfere care ai Beach Boys, seminando il terreno per la neo-psichedelia.

Robyn Hitchcock parte da quei cocci melodici, da quella membrana opaca che copre le voci, sfruttandone le intuizioni timbriche e ringalluzzendone decisamente gli animi, come per eccedere in senso opposto.

“A Can of Bees” è già un capolavoro per quanto mi riguarda. Il restyling che Hitchcock e Rew fanno ai Rolling Stones in Millstream Pigworker ha dell’inaudito. Attorno a loro le pulsioni new wave stanno cominciando a virare verso la musica da classifica, e i Soft Boys invece riprendono i dinosauri tanto odiati dai punkers, riscoprendoli in una veste intellettuale che quasi li tradisce – il che, pensandoci bene, è l’unico vero modo di riscoprire qualcosa e riproporlo. Il tutto senza dimenticare il Beefheart di “Lick My Decals Off, Baby, con una batteria schizzata che delle volte inciampa come quella di John “Drumbo” French, delle altre invece sembra quasi voler anticipare quella di George Hurley (Minutemen), ma senza i suoi eccessi virtuosistici.

Questo party-revival però trova una sua forma più compiuta in UW. Già nel super-compatto riff di I Wanna Destroy You (a mo’ di Television), si capisce che i Soft Boys hanno trovato i giusti equilibri tra di loro.

Ci sono dei momenti in questo album che farebbero gridare al miracolo anche ad un fan dei Nazareth. Come il rispolvero perfettamente riuscito di Barrett in Kingdom of Love, melodia favoleggiante e le chitarre opprimenti per poi lasciarsi andare in riff alla Fleshtones. Oppure la cadenza noir-porno di I Got The Hots, sfacciata come una ballad degli Stones, onirica come una jam dei Doors. I Byrds che ritornano in Insanely Jealous, la voce di Hitchcock che solo per un caso non si trasforma nel ripugnante ghignare rauco di J. G. Thirlwell, sempre sul filo, pronta in attimo ad esplodere, come anche l’intera canzone, peccato che Rew non ci da questa soddisfazione, la sua chitarra cresce, cresce e cresce, brutta stronza. Il ritmo post-industriale per Tonight, dalla parte giusta degli anni ’80. Brillante anche la traccia che dà il nome all’album, la quale chiude l’esperienza con un brio lisergico.

Menzione a parte per Old Pervert, capolavoro assoluto della band e IMHO di Hitchcock. Uno degli attacchi più sconcertanti mai registrati su un 33 giri, Hitchcock e Rew ghermiscono le loro chitarre che cercano di fuggire come cavalli imbizzarriti, batteria e basso sembrano uscite fuori da “Trout Mask Replica”, una cadenza che più storta e malsana non si può, un cazzo di gioiello da ascoltare e riascoltare fino al trascendere se stessi.

Difficilmente nella musica rock si è potuto constatare un ripescaggio così intellettuale della prima psichedelia, che fa razzia di pop e underground senza pregiudizi, mescolando elementi già usati e riusati fino allo sfinimento facendoli suonare come nuovi. Inutile dire che dopo questo album i Soft Boys non hanno saputo più ripetersi – anzi si sono proprio sciolti. Robyn Hitchcock oggi è considerato uno degli autori più acuti della sua generazione, e anche il suo ultimo album uscito quest’anno, una collezione di perle folk-rock cerebrali,  ha strappato consensi unanimi dalla critica. Kimberly Rew oggi è celebre per aver firmato il riff di Walking On Sunshine, proseguendo una carriera smaccatamente commerciale negli anni ’80. Ma a noi siamo contenti così.

 

Built To Spill – Perfect from Now On

UNITED STATES - APRIL 10:  Photo of BUILT TO SPILL and Jim ROTH and Brett NELSON and Doug MARTSCH and Brett NETSON and Scott PLOUF; Posed studio group portrait L-R Jim Roth, Brett Nelson, Doug Martsch, Brett Netson and Scott Plouf  (Photo by Wendy Redfern/Redferns)

Dato che le riviste di tutto il mondo stanno elogiando oltremodo il ritorno a 33 giri dei Built To Spill (che non credo sia ancora disponibile per noi mortali, e comunque me lo potrò permettere alla meglio verso natale) mi pare quantomeno adeguato passare del tempo a scrivere di quanto sia stato importante “Perfect from Now On”, il loro terzo album del 1997, e di come questo meraviglioso disco dovrebbe essere considerato uno di quelli da avere ad ogni costo, come il primo dei Pink Floyd o “Aftermath” dei Rolling Stones.

È che, essenzialmente, se non hai ascoltato Perfect ti sei perso semplicemente il meglio degli anni ’90. Un’unione trascendentale tra Syd Barrett, Captain Beefheart e l’hardcore, un incontro, quello tra i primi due, già celebrato nel 1980 dai Soft Boys di Hitchcock, ma che nei Built To Spill trova nuova linfa vitale da una generazione che di grunge non c’ha proprio un cazzo.

Ok ok ok, forse Beefheart c’entra poco, forse la loro ispirazione erano effettivamente Barrett, la seconda ondata hardcore e certamente Hitchcock, forse di Zoot Horn Rollo e di Jeff Cotton non gliene fregava una cippa a Doug Martsch, però i suoi Built To Spill hanno spesso il piglio ordinatamente scalmanato della Magic Band, molto più dei Mule di P.W.Long, tanto per dire.

E quel piglio da blues storto nella forma ma non nell’anima si sente eccome nel micidiale attacco di Distopian Dream Girl, uno dei più belli della Storia Del Rock (la mia personale classifica recita più o meno così: 1) Moonlight On Vermont, 2) Old Pervert, 3) Humor Me, 4) Psycho, 5) 1969, 6) Louie, Loui, 7) Distopian Dream Girl e via dicendo, comunque sia è una classifica parecchio suscettibile a cambiamenti). Beh, ok, quello è un pezzo dal secondo album, però se una band sa fare una roba così vorrà pur dire qualcosa!

Quello che caratterizzava “There’s Nothing Wrong with Love”, il secondo lavoro dei BTS, era la freschezza dei pezzi, molto dinamici e zeppi di spleen anni ’90, mentre in Perfect il suddetto spleen diventa dominante, e la forma si modifica attorno alla sostanza. I tempi si allungano, la consapevolezza aumenta.

Ecco, spleen è una parola chiave per comprendere fino in fondo questa band (Alberto Leone nella bio per Ondarock la userà seicento volte, crist’iddio), ma lo spleen cos’è? È giovanile malinconia, è insofferenza verso la vita e i suoi avvenimenti, un concetto ovviamente universale sempre esistito e cazzi e mazzi, ma che trova la sua definizione, nell’ambito del rock, negli anni ’90.

Il grunge riprende l’hard rock, anche se è figlio dell’hardcore, i Built To Spill riprendono la psichedelia anche se sono figli dell’hardcore. Badate bene che è questo il punto di svolta, la cosa che rende i BTS tra i grandi dei ‘90. L’hard rock come genere è una gabbia espressiva: intro, riffone, melodia, riffone, assolo di trenta minuti, melodia, chiusura (se dal vivo aggiungersi: “altro assolo”), o lo fai così o fai un altro genere, c’è poco da fare. Ma i BTS se ne straffottono di Deep Purple, Led Zeppelin e amenità varie, prendono il genio sregolato di Barrett e lo reinterpretano da bravi figli dei vari “Zen Arcade”, “Damaged”, “Double Nickels on the Dime” e via dicendo.

Per cui se la malinconia di Barrett era comunque stemperata dalla voglia di raccontare strane favole, qua lo spleen si scontra con la rabbia hardcore punk (politica sì, ma anche generazionale), e quello che ne viene fuori è la musica instabile, nervosa, dinamica ma ordinata dei BTS.

Nel primo album del ’93, “Ultimate Alternative Wavers”, ci sono ancora troppe incertezze. A volte si sfocia nel manierismo, mescolando una grande potenza espressiva ad eccessi chitarristici (penso a Shameful Dread), ma è comunque un esordio CON LE PALLE, dove Martsch mostra i muscoli e la sua eccezionale abilità come compositore.

Gli basta un anno per sfornare “There’s Nothing Wrong with Love”, una sorta di concept album/manifesto generazionale. I suoni sono più puliti, la chitarra appare più definita, e i suoi dialoghi elettrici continui drappeggiano ogni pezzo superando i vincoli estetici della psichedelia classica (e avvicinandosi tantissimo ai Dinosaur Jr.), il sound ormai è loro e loro soltanto. Tra riff azzeccati e finali inaspettati si arriva al vero capolavoro dell’album, che ho già citato ma che ri-cito perché questo è il mio cazzo di blog, ovvero Distopian Dream Girl.

E poi niente, dopo questi due album tosti, ma non eccezionali, bisognerà aspettare fino al 1997 per trovarsi di fronte alla magnificenza di “Perfect from Now On”. Ad ascoltarlo oggi questo album, come i precedenti, ha un grosso problema: è davvero anni ’90. Uno strano problema direte voi, appartenere ad un periodo musicale è inevitabile, anche se sei un genio avveniristico sei comunque “figlio del tuo tempo”, ma nei BTS si soffre un po’ per la voce, stuprata da migliaia di band su MTV, ci si storcono ogni tanto le budella per il suono della chitarra, diciamo che la superficie, il primo impatto, non è quasi mai dei migliori. Questo discorso però è valido solamente se sei nato nei ’90, come me, altrimenti cazzotenefrega.

Ma se si supera l’iniziale sconcerto di trovarsi di fronte a quei suoni che hai volontariamente dimenticato per cedere la tua anima ai Ramones, ecco che viene fuori tutta la grandezza della band. Prima di tutto la tecnica, non buttata lì per farsi belli, ma al servizio del discorso musicale/spleen, come nei nove minuti di Untrustable/Part 2 (About Someone Else), inizialmente monolitica, statica, e poi profonda, giocosa, inaspettata. Sebbene I Would Hurt a Fly sia il pezzo più conosciuto dell’album (anche perché rispecchia quell’idea comune di rock intimista anni ’90) è nel resto che la band compone un arazzo di dolce complessità, senza la pesantezza dei progger né l’autoreferenzialità delle band grunge.

Ma quanto è tirato l’intro di Made-Up Dreams? Già in quelle note acustiche e nella voce di Martsch c’è tutta la potenza inespressa di quello che seguirà. Come resistere al dialogo elettrico di Stop the Show, che culmina in un finale devastante e ipnotico?

Non c’è un pezzo in più, è tutto proprio come dovrebbe essere. E senza quella forzatura di essere un manifesto generazionale, come nell’album precedente, Perfect diventa uno specchio fedelissimo della sua generazione, con tutti i suoi difetti e le sue sorprese, con l’introspezione e la necessità di essere ascoltati dagli altri.

La cosa bella è che dopo il ’97 i BTS hanno continuano a sfornare album (cinque in tutto, contando il nuovo arrivato, “Untethered Moon”) e non ci riescono proprio a far cagare. È più forte di loro. Qualcosa di buono lo trovi sempre, un’idea, un guizzo. Però l’inesplicabile tensione giovanile di “Perfect from Now On” rimarrà lì, in quella dimensione dove mettiamo momenti brutti e belli, con i contorni ormai sfumati dalla malinconia.

Thee Oh Sees – Carrion Crawler/The Dream

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Gentili lettori,
quanto vi propongo oggi è un album di una band che fa stracciare i vestiti di dosso anche ai critici più testardi. Peccato che i voti mediamente alti e i complimenti strascicati vengano spesso rilegati alle ultime pagine, lasciando in copertina gli ultimi aborti degli Arcade Fire.

I Thee Oh Sees sono, e tremo al dirlo, la miglior rock band dell’ultima generazione. Se tremo nel dirlo è per molte ragioni.

La prima è certamente il fatto che oggi definire cosa sia “rock” è sempre più difficile. Non per me, ma il resto della critica che pur di recensire undici miliardi di album al giorno più dell’altra rivista musicale fanno diventare rock anche “AM” degli Arctic Monkeys (per loro la linea di confine è sempre più confusa).

Dimenticandoci di punto in bianco che fare rock non è imbracciare una chitarra e vomitare ovvietà da un microfono, ma è farlo in un certo modo e con dei validi motivi. E il modo e i motivi si sentono parecchio da quelle casse, cazzo se si sentono!

Per i confusi e gli anfetaminici: i motivi non devono per forza essere “alti”, come i modi non devono essere per forza virtuosistici, basta che non siano artificiali. Puoi anche voler diventare i nuovi Beatles, fare un mucchio di soldi e raccatarre figa in ogni angolo, ma se da questi propositi vengono fuori i Ramones è una cosa, ma se invece vengono fuori gli Strokes significa che qualcuno sta mentendo. E i Ramones erano troppo fatti per per riuscirci in modo credibile.

Il rock vero si sente.
Quando ascolto un pezzo qualsiasi degli Strokes non sento niente, a parte una smodata voglia di raccogliere fiorellini in giardino e guardare in TV X-Factor. Quando ascolto i Thee Oh Sees mi si rizzano a porcospino tutti i peli delle palle, vorrei spaccare tutti poster di Frank Zappa in camera con la tavoletta del cesso e guardare Beavis and Butt-Head in streaming.

La storia dei Thee Oh Sees è davvero strana.
Se gran parte delle rock band cominciano coverizzando qualche pezzo con gli strumenti comprati qualche natale di troppo fa da mamma e papà, John Dwyer (leader della band) comincia con esperimenti noise allucinanti.

Il primo nucleo della band si forma nel 1997, denominati Orinoka Crash Suite pubblicheranno tre album che ad oggi ascoltiamo in tutto il mondo solo io e John Dwyer.

34 Reason Why Life Goes On Without You / 18 Reason To Love Your Hater To Death” meglio conosciuto come “1” è una di quelle cose per cui o hai una mente aperta all’esperienza emotiva REALE oppure dopo due minuti fuggi dalla stanza violentato mentalmente. L’esperienza noise non è da tutti, ma se vi piace il genere i primi tre album degli Orinoka vi faranno esplodere il cervello.

Dopo questa avventura composta di rumori, fruscii e ambienti sonori al limite dell’umana sopportazione, la band si volge a sonorità più garage e al formato canzone universalmente riconoscibile. Formano così gli The OhSees che nel 2007, con l’arrivo di Petey Dammit possono trasformarsi nei definitivi Thee Oh Sees.

Con quella chitarra che suona come un basso Dammit dona a Dwyer il sound definitivo, un ponte trascendentale che unisce Syd Barrett, Soft Boys, Fuzztones e Ty Segall.

Non c’è un album che si possa definire “poco riuscito”, dal primo (“The Master’s Bedroom is Worth Spending a Night In”, 2008) all’ultimo (“Floating Coffin”, 2013) eppure ne hanno fatto uno che forse forse è “il più riuscito di tutti”.

Ecco: “Carrion Crawler/The Dream”, uscito nel 2011 qualche mese dopo “Castlemania”, è la sintesi di tutto il sound, delle idee e della follia dei Thee Oh Sees.

Concepiti come due EP diversi Carrion e Dream vengono fusi in unico album, unendo così la vena puramente psichedelica a quella più spiccatamente garage della band. La prima parte apre proprio con Carrion Crawler (chi gioca a D&D sa già a cosa si riferisce) monumento del rock psichedelico, un nuovo classico indimenticabile.

Segue Contraption/Soul Desert, fusione di un loro vecchio pezzo con Soul Desert, fra l’altro la mia preferita dei Can pre-”Tago Mago”. I ritmi ripetitivi, perfetta sintesi di acidi e introspezione, si confermano con la successiva Robber Barons.

Una specie di space-garage quello di Chem-Farmer, con un lavoro portentoso delle due batterie di Lars Finberg e Mike Shoun. Un surf-rock indemoniato.

La breve Opposition (With Maracas), formula garage che sembra la versione velocizzata e sbarazzina di The Whipping Continues (un geniale, acido e rumoroso pezzo contenuto nel precedente “Castlemania”) ci apre alla seconda parte. Il tema musicale sta cambiando repentinamente, portandoci da altri lidi ben più duri e molto meno introspettivi.

The Dream, anticipata da quei brevi accordi così geniali da imprimersi nella mente per sempre, è il cavallo di battaglia di questo album, la sua potenza garage-caotica dal vivo è inebriante, un’orgia sonora che prolunga un orgasmo per sette-otto minuti di furiosa live.

Seguono velocemente perle di saggezza garage impressionanti (Wrong Idea, Crushed Grass), molto più imprevedibile e camaleontica Crack in Your Eye. Degna conclusione la scalmanata Heavy Doctor.

Non c’è bisogno di aggiungere altro, il rock dei Thee Oh Sees è un buco nero che risucchia tutta la storia mantenendo una propria originalità, la quale deriva da una mente geniale e da dei compagni altrettanto degni, un sound unico perché vecchio ma estremamente moderno. Da ascoltare esclusivamente senza cuffie.

La musica di questa band avrà (e già ha) delle ripercussioni decisive nel sound della California. E oltre.

  • Pro: tutto quello che c’è di buoni dietro la parola rock.
  • Contro: se vi piace il rock in tinta pop vi sconsiglio vivamente i loro album, vi risulterebbero inutilmente noiosi.
  • Pezzo consigliato: vi consiglio i due title track, Carrion Crawler e The Dream.
  • Voto: 8/10