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Tab_ularasa/ Aaron Rumore – La sfida è farlo male

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Doppio turno di lavoro, ho la testa ancora obnulata dall’alcool del giorno prima mentre dimentico il chiavistello dentro il negozio, sono le 19:30 e tra poco più di un’ora sarò a casa.  In treno apro il portatile e quasi si staccava lo schermo, attaccato con lo scotch e tante madonne. A voi non frega un cazzo di tutto questo e lo capisco, però il mood di quando sei lì-lì per fruire di qualcosa è importante. Tutte le cazzate sull’oggettività vanno bene quando hai quindici anni e ce l’hai col “sistema”. Il giorno prima Tab_ularasa mi aveva mandato in anteprima il suo nuovo video, e così me lo volevo sparare prima di dedicarmi al mio sport preferito: dormire.

Da quello che ho capito due anni fa, d’estate, Tab e Aaron Rumore (musicista e produttore con la sua Körper/Leib) si sono ritrovati e hanno composto assieme uno split che sta per uscire soltanto adesso (25 Aprile) per la Bubca Records, e già il titolo mi esaltava: “La sfida è farlo male”. La premessa di un approccio picassiano in genere mi stuzzica sempre, ma quella sera, come vi ho detto, non ero proprio nel mood giusto. Clicco sul link e mi sparo il video mentre già penso al morbido contenuto nella fodera del mio cuscino.

Ripresa dall’alto una piccola macchinina verde compare in basso e va verso il centro del pavimento color vinaccia. I primi accordi di La sfida è farlo male mi ricordano Le allettanti promesse di Lucio Battisti, però storto e distorto. Degli strani sbuffetti neri compaiono sullo schermo, a metà tra animazioni e rumore. La macchina intanto si è scontrata con un’altra da Formula 1 gialla, e altre macchine che arrivano da tutti i lati cominciano pian piano ad accumularsi al centro.

Salire su queste scale
ha smesso di far male

Ad un certo punto un bel riffone cattivo alla Alley Cats spezza tutto e comincia il pezzo di Tab. Cosa?! Guardo bene il titolo del video: “Tab_ularasa / Aaron Rumore – La sfida è farlo male / La bugia (Bubca Records 2018)” E no cazzo, ma come? Un video solo per due canzoni? Che nemmeno si splitta, continua uguale a se stesso come se non ci fosse differenza! L’idea che Tab avesse prodotto un solo video per due canzoni diverse mi aveva francamente deluso, mi sembrava come se ci fosse una sorta di gerarchia sballata dove il video soggiogava analmente il contenuto musicale, così chiusi il portatile e non ci pensai più fino al giorno dopo.

Ripresomi definitivamente dal post-sbornia e dal post-lavoro decido di rivedermi il video, e solo quando premo su “play” ricordo cosa mi aveva fatto incazzare, ma decido di continuare. Da bravo stronzo quale sono non m’ero accorto che in realtà il video non si limitava all’accumulo di automobili giocattolo, e all’arrivo del pezzo di Tab, La bugia, la faccenda prendeva una piega particolare.

L’uso dell’analogico per Tab serve per rimandare ad una dimensione ulteriore, che non necessariamente deve coincidere con la nostalgia, ma piuttosto con uno sguardo antropologico sui fenomeni analogici e la loro condizione di precarietà. Il gusto per il rumore, onnipresente in tutte le produzioni di Tab, è tanto sonoro quanto visivo, il rumore è una texture, certamente, ma è anche una cifra visiva di deperibilità. Se ad una prima vista il video possa effettivamente apparire come un rimando all’infanzia e ai suoi giochi, diventa invece chiaro in un secondo momento che questo è un depistaggio.

Da bambini costruire è solo il momento che antecede la distruzione. Qua invece il gioco sta proprio nel “farlo male”, inteso anche come dolore fisico, palpabile, oltre che psicologico (Salire su queste scale/ ha smesso di far male). Questo autoscontro post-apocalittico in stop-motion non è casuale ma è volontario, come ad esorcizzare la fisicità dello scontro stesso. Le liriche di Aaron, quasi biascicate e nascoste dai filtri del rumore, si scontrano tra di loro allo stesso modo. Quando comincia il pezzo di Tab la faccenda si fa ancora più chiara:

Troppi filtri
troppi vetri
si frappongono al vedere
tutto è falso
tutto è vero
non c’è verità che sia
la bugia, la bugia
l’unica via, l’unica via

Ecco che quindi il rumore dell’analogico, la sua stessa essenza deperibile e continuamente ancorata alla nostra memoria (non solo personale ma collettiva) si denuncia come filtro per la realtà, che quindi automaticamente la mistifica, ne deforma la sostanza. Ma è proprio la bugia, la deformazione, l’unica verità che ci resta.

Ad un certo punto irrompe una scavatrice giocattolo che rimette ordine nel disastro automobilistico, la quale però si rivela essere un inquietante giocattolo di Minni della Disney. Questo genere si situazionismo Tab lo sta sviluppando su più piani, sia con i magazine da lui curati, che nei collage e nella musica. Non necessariamente bisogna intravedere connessioni di tipo volontario, ma già lasciarsi andare allo spaesamento (di brechtiana memoria) è un buon modo per capire la direzione concettuale di ogni lavoro del chitarrista dal Valdarno.

Aaron è chiaramente influenzato dalla New York degli primi ’60, quella di Godz e Fugs, dell’intervento poetico che si declama attraverso la dissacrazione dei canoni estetici del rock da classifica, e quello che mi aspetto da questo Split è un bel viaggio tra canzoni tronche e intuizioni situazioniste, un album che lontano dal perseguire una fruibilità rockettara lasci libero spazio all’interpretazione e allo sguardo di chi ascolta.

Ora scusatemi ma sembra che anche oggi ci sia da fare un po’ di straordinario, per cui ‘fanculo ‘sta merda, mi sparo la playlist su Spotify della line-up del prossimo Beaches Brew.

Podcast – Dots, Rawwar, Centauri, Ty Segall

E allora sì cazzo. Puntatona di Ubu Dance Party, l’unico podcast di rock underground che non le manda a dire. A meno che non mi ritrovi a letto con l’influenza (odio l’influenza). 3 album italiani uno meglio dell’altro e una feroce stroncatura al Biondo che fa impazzire il mondo.

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«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»

Skeptics / Prêcheur Loup split

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Etichetta: Frantic City Records
Paese: Francia
Pubblicazione: 4 Novembre 2016

Come giustamente scrive tale Christophe Lopez-Huici, su un numero di Bananas Magazine in merito ad un album qualsiasi degli Skeptics: «The songs sound as vicious as ever and the formula stays the same, thick fuzz, skin bashing, gnarly vocals & straightforward riffs», classica frase copia-incolla per qualsiasi disco garage revival (o come dicono gli esperti: “new garage”, ah!). Devo comunque ammettere che per band come gli Skeptics sia anche un modo pratico di descrivere il loro approccio “purista” al genere, un po’ come vale anche per i newyorkesi The Penetrators, col peggiorativo che ‘sti loschi figuri dalla Grande Mela sono pure lo-fi (bravissimi eh, per carità, però quando passava il tizio col carrello dell’originalità loro stavano fuori a giocare al gameboy).

Dette tutte queste cattiverie mi tocca rimangiarmele in tempo record di fronte al nuovo split che vede gli Skeptics fiancheggiare i Prêcheur Loup, uscito questo mese per la dinamicissima Frantic City, etichetta di La Rochelle che fa concorrenza alla parigina Howlin Banana Records in quanto catalogo garagista.

Cominciamo però presentandovi Bart De Vraantijk, giovane di belle speranze che nel 2013 decide di trasferirsi da Bruxelles per sistemarsi a La Rochelle, munito di chitarra e amplificatore di seconda mano, pronto a far assaporare alle belle francesine quanto duro fosse il suo garage. Ennesimo caso di folgorazione sulla via di “Back From The Grave”, scoperto il verbo del garage rock il chitarrista belga non ha saputo resistere al sacro richiamo psichedelico di Seeds, Keggs, Rats, Alarm Clock e via dicendo, esordendo (credo) nel 2009 con un 7” dal titolo quantomeno tradizionale: “You make me sick”.

Ora è affiancato da Kristal Suiker al basso e Joe Burditt alla batteria, so che non è sempre stato così, ma chissene, diciamo pure che basa tutte le sue produzioni su una formazione classica a trio, riuscendo comunque a fare casino come fossero in sei.

Nel 2012 pubblica per la piccola ma garagissima Moody Monkey “File under Fuzz Punk”, che ripesca dai suoi 7” e spacca di brutto. La foto in copertina lo ritrae in posa con la chitarra in un cimitero che, credeteci o no, ricorda parecchio quello della crisi lisergica in Easy Rider. Insomma, le tombe ci sono, il fuzz è caldo, i singoli effettivamente spaccano (You’re a Jezebel è una perla), non mancano gli omaggi e ci sono ben due episodi strumentali (Nite Rider e Missing Link, con un pizzico di Link Wray, da me super-apprezzati). In generale ok, sì, però dopo il secondo ascolto lo metti assieme agli altri MILIONI di album garage tutti uguali e ciao, ti riascolti giusto il pezzo di apertura e gli strumentali, se sei un nostalgico degli anni frizzantini del surf-rock.

Dopo svariati split e 7” (sì, è pure super-produttivo, come vuole il cliché dell’onesto garagista) arriva nel 2013 “Black, Loney & Blue” per la portoghese Groovie Records. Salta fuori che De Vraantijk può scrivere pezzi anche un po’ più lunghi di un minuto e mezzo, spingendo un po’ anche sulla psichedelia. Il primo esempio è Trouble Maker, con un riff piuttosto heavy (smorzato da una registrazione non proprio eccelsa), da lì in poi il fuzz sarà più messo così a caso, inizia sottilmente a presentarsi qualche accenno (molto accennato a dir la verità) di Blue Cheer, ma questa è una cosa che affermo un po’ a posteriori, sopratutto alla luce del nuovo split di cui, prima o poi, arriveremo a parlare. Conclude in maniera interessante l’LP la title track, molto più pesante di quanto uno si potesse aspettare dagli energici e sixties-friendly Skeptics.

Sotto contratto per la Frantic City tutta la produzione che va dal 2014 ad oggi della band rispecchia il loro retaggio garagista, sfornando EP e 7” come se non ci fosse un domani, decisamente divertenti e orecchiabili quanto dimenticabili nel giro di mezz’ora. Esce persino la versione “estesa” di un loro EP che dura quanto un album e di cui nessuno al mondo sentiva la necessità.  Nel frattempo De Vraantijk collabora con altre formazioni più o meno famose, come i Double Cheese, Pneumonias e White Fangs.

MA, e c’è un “ma”, il 4 Novembre esce un nuovo frizzante split con i Prêcheur Loup (se non ricordo male anche loro belgi, con il vizio di mescolare lo-fi a reminiscenze eighties se non addirittura vaporwave), e finalmente la faccenda prende una piega diversa.

L’attacco con la chitarra acustica di Mind Powers è subito una botta. Ho controllato sei volte che fossero proprio QUEI Skeptics e non degli omonimi, dato che ce ne stanno e non pochi. Macché, son loro, col riffone acustico che sembra uscito fuori da un concerto dei Sulfur, lento, lento. De Vraantijk impara la lezione di Hawkwind e Blue Cheer e si prende il suo tempo, la chitarra fuzzata fa il suo solenne ingresso senza fretta, sferzando l’aria e preparando l’ingresso ad un assolo altrettanto monolitico, cazzo sembrano quasi i fottuti Kadavar!

Meglio riprendersi presto dalla botta, Spare no time prosegue sul mood psichedelico e sabbathiano, senza premere troppo sull’heavy quasi mutilato di una deflagrazione finale. Wall of Light è uno strumentale acustico di un minuto e mezzo, finale fuzzato e riuscitissimo nella sua banalità, futile ma d’atmosfera.

Conclusione genialmente auto-ironica con una garagiata comunque ben diversa dal solito, No half out the cave ci restituisce il solito strafottente De Vraantijk, ma con un suono nuovo, meno esasperato, meno urgente, più riflessivo quasi, in definitiva meno macchietta.

Tutto ‘sto papiro di roba per quattro pezzi buttati là, perché? Perché mi è piaciuto farmi sorprendere da una di quelle che reputavo la solita garage band copia-incolla del cazzo, e che invece hanno saputo un poco, modestamente, reinventarsi, senza per forza fare la cover band dei Fuzz o dei Thee Oh Sees.

Ah, carini pure i Prêcheur Loup.

Muddy Mama Davis – In Vulva

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Seguo la pagina Bandcamp della Siamo solo noise Records dal Dicembre 2013, ovvero da quel “SUK Tapes and Sounds from Porta Palazzo” che reputo seminale per una buona parte della scena occulta italiana. Questa etichetta torinese negli ultimi due anni ha pubblicato un po’ di tutto, da album registrati nel cesso alla drone più abrasiva, con una coerenza anti-hipster da applausi e scorregge a scena aperta.

Qualche giorno fa (credo fosse giovedì, ma sembrerebbe che l’alcol non aiuti a orientarsi nei giorni della settimana) hanno messo sul sito uno split che mi ha svegliato dal torpore esistenziale provocatomi dall’ascolto continuativo di garage rock senz’anima.

Leggo «Muddy Mama Davis» e chi cazzo è? Dopo cinque minuti le mie sinapsi umide di bourbon cominciano a saettare del puro piacere, tradotto istantaneamente dai timpani fracassati dai decibel in libertà. Il suo piglio blues è elettrico come quello del Muddy Waters di “Electric Mud”, il suo garage rock è spietato e osceno come quello dei Troggs, questo tipo, questo Muddy Mama Davis, sembra spuntato fuori da una Detroit italiana sotterranea, per carità l’altro rocker con cui divide lo split, tale Tab_Ularasa, spacca di brutto, sia chiaro, però l’avrò ascoltato giusto due o tre volte, niente in confronto alle centinaia di riproduzioni che hanno reso MMD il rocker più odiato dai miei vicini nell’arco di un pomeriggio.

In questo split MMD ci butta dentro tutto il suo EP uscito nel 2013, “In Vulva”, 12 minuti scarsi di pura attitudine punk, senza troppi girigogoli e senza la benché minima autoreferenzialità – messaggio ai garage rocker italiani: solo perché non suoni quella merda degli Stato Sociale non vuol dire che sei Iggy Pop, cristo, smettetevela di tirarvela!

Infatti Vorrei essere un indie rocker va dritta al dannato punto, ovvero lo sfottere tramite La Musica e non tramite Facebook, e senza il bisogno di mandare l’altro a cagare ma definendo la propria diversità rispetto a quell’altro («Vorrei essere un indie rocker/ ma non lo sono»). Questa è attitudine cari miei.

Ok, “In Vulva” sono “solo” 12 minuti, ma vuoi mettere 12 minuti senza sentire qualcuno LAMENTARSI perché questo paese fa schifo o perché la squinzia del piano di sotto non gliela dà? Quanto è eccitante potersi sentire un album con la presenza di almeno una chitarra elettrica senza la continua sottolineatura di quanto uno è punk duro-e-puro?

Ho rotto gli occhiali da sola mastica e digerisce buona parte della produzione garage californiana, ormai edulcorata dal verbo Burger Records, orfana dei loro perversi padri fondatori (Troggs, Kingsmen, Stooges, Sonicsormai rincoglioniti). Lo steso discorso vale per Calogero, ma qui ci si scontra con un garage blues che ricorda la chitarra di Jack White nei primi due album dei White Stripes, il tutto condito da delle liriche piene di giocoso nonsense.

Però in questo breve EP c’è un capolavoro, un pezzo che merita di entrare nella vostra collezione (che sia in CD o digitale fregacazzi) : Corona (la grande fuga).

Per Massimo Recalcati, come spiega a Christian Raimo nel libro-intervista “Patria Senza Padri” (Minimum Fax, 2013), Fabrizio Corona è un maître-à-penser dei nostri tempi, capace di svelare la tensione verso l’eterno godimento dell’italiano medio (rappresentato dai vari Lele Mora, Berlusconi e compagni di zoo vari), e in Corona (la grande fuga) MMD non è poi così lontano da questa interpretazione.

Prima costruisce la fuga di Corona (fra l’altro: geniale la citazione a Ai Se Eu Te Pego! nella bocca del capo della DIGOS portoghese) con una furia garage delirante e surrealistica, infine trasforma le sue fotografie, quei quadri dove l’osceno desiderio di una erezione eterna e la dissolutezza non libertina ma nichilista vengono ritratti senza filtri, in uno degli inni punk più belli di sempre «c’è Simona, la cocaina, Bobo Vieri e i pugni in faccia, i bocchini a Lele Mora mentre Coco va coi trans, Trezeguet con le puttane, Gilardino è omosessuale? a Marazzo piace il cazzo e a Sircana… piace il cazzo»

Niente politica intesa come propaganda, niente riflessioni sulla crisi economica, niente canzoni d’amore tossiche (credo che ne escano dieci al giorno, non è figo, è solo banale, fatti ‘sta spada con la tua donna senza necessariamente tradurla in un 4/4 pseudo-esistenziale, grazie), fare garage è un’arte diretta che fa dell’autenticità il suo unico vessillo. E quel gran cazzone di Muddy Mama Davis ci riesce alla grande.