Etichetta: Ramp Local
Paese: USA
Anno: 2023
Archivi tag: Syd Barrett
Doc Flippers – Human Pork
Etichetta: Phantom Records
Paese: Germania
Anno: 2022
Trupa Trupa – B Flat A
Etichetta: Glitterbeat
Paese: Germania (Polonia)
Pubblicazione: 2022
Epépé – Epépé
Etichetta: uscito via Bandcamp
Paese: Francia
Pubblicazione: 2019
“Epépé” è tutto quello che “More” e “Obscured by Clouds” volevano essere ma non sono stati. No, non è una colonna sonora, ma riesce perfettamente nell’evocare scorci e vicoli di un magico paesino di provincia, e come se fossimo dei novelli Lancelot Edward Forster ci perdiamo in notti eterne dentro locali immaginari.
Continua a leggere Epépé – EpépéSbucciando una banana francese: il meglio e il peggio della Howlin’ Banana Records
In questi giorni non ho scritto niente non perché non abbia ascoltato niente di nuovo, ma perché c’ho i cazzi miei. E sono tanti. Potete cliccare QUI per un racconto esaustivo.
Di che si parla oggi? E che c’entrano le banane? Ladies and gentlemen, oggi recensirò per vostra somma gioia qualche band dal catalogo della Howlin’ Banana Records! Come dite? “Echecazzoè”? La Howlin’ Banana Records è un’etichetta francese di garage rock-pop fondata a Parigi nel 2011 da Tom Piction, il solito giovanotto di belle speranze, un appassionato di indie rock e garage il quale, molto probabilmente, ha pensato bene che il modo più rapido per raccattare figa bollente fosse quello di fondare un’etichetta garage, genere celebre per le sue band grasse, unte e brufolose. Sarà riuscito il buon Piction a bagnare la sua baguette in del caldo burro francese? Ma sopratutto: sarà riuscito a selezionare band garage CAZZUTE, pronte a farci saltare i timpani?
Premetto subito che dopo un’ascolto completo di tutto il catalogo (sorseggiando del buon vino francese, che c’ho la pressione alta e la birra deve stà in frigo) la prima cosa che salta fuori è che, nel contesto scena europea, il garage francese è il più posato e aristocratico di tutti. Non che sia un male, cari miei seguaci, so che per molti di voi non è garage se non ci lasci le unghie sulle corde del basso, ma c’è anche il garage-folk, il garage-pop dalla California, il garage-psych di stampo barrettiano o alla Brian Jonestown Massacre, non facciamo trincee, lasciate scorrere l’amore tra i confini e i generi, lasciate che i feedback si perdano nell’abisso siderale dello spazio cosmico, seducendo e inseminando frammenti acustici, perdendosi nelle costellazioni liquide dello shoegaze, lasciandosi… oh merda, qualcuno mi tolga questa bottiglia dalle mani!
[Non ho recensito tutto il catalogo ma bensì la sbobba che ho ascoltato di più in queste tumultuose settimane, ogni album è descritto come sempre con la massima incuria e approssimazione, come piace a voi. Ma sopratutto come piace a me.]
Anna – Anna (2014)
Chi è Anna? Un tipo con problemi di collocamento sessuale? Una band? Una suora con un passato da ballerina nei night club? (cit.) Non lo so, però questo album omonimo alla fin fine non è malaccio.
I’m Note Yelling apre le danze in maniera asettica, assente e poco interessante, come se si preannunciasse il solito pappone psych senza direzione, ma è solo un minuto di incertezza, perché il garage-folk di I Love Noise mette in primo piano un piacevole songwriting barrettiano, che ci accompagnerà per quasi tutto “Anna”.
Haircut ha dei rimandi californiani decisamente influenzati dal Segall acustico del 2013, Old Man, con la voce bambinesca modificata digitalmente, è voglia di sixties pura riuscendo a recuperarne la freschezza floreale, con un dialogo di chitarre acustiche frenetico quasi-alla Violent Femmes.
Il gusto naïf francese si può percepire in pezzi come Eaten Apple, che anche nella lingua di Céline sarebbe suonato perfettamente. Ecco, forse un po’ troppo, nel senso che la perfezione formale di questo album è un pregio come un difetto, laddove riff e sezione ritmica non sbagliano un colpo ogni tanto nelle budella dell’ascoltatore raffinato si ode un gorgoglio, che non è badate bene la pizza coi fagioli all’uccelletto di due giorni prima, ingurgitata affannosamente con l’ausilio di tanta birra per facilitarne la discesa, ma la necessità di una sferzata, di un nuovo punto di vista, di una evoluzione nella struttura dei pezzi.
Una canzone come Dino nelle mani di un complesso garage del tutto schizzato come i Pink Streets Boys avrebbe raggiunto vette cosmiche di distorsione spaziale orgasmiche, qui invece è puro songwriting, e pure lineare. Ovviamente non si può imputare come errore o sbaglio una scelta di stile (pensavate di avermi colto in fallo, eh?) ma a detta del sottoscritto dopo un po’ la quadratura del cerchio comincia a diventare un po’ troppo spigolosa.
Un album semplice, che si districa in un garage fortemente derivativo da quello californiano, ma che non è per questo revival puro, ma più un ibrido, sostenuto da una ricerca melodica che ne è il motore portante, e che per il sottoscritto non è sinonimo necessariamente di qualità.
Il 23 di questo mese esce il nuovo lavoro di Anna, dall’ascolto di due pezzi in anteprima disponibili su Bandcamp sembra che il cantante/gruppo francese abbia decisamente cambiando sound, trovando un maggiore dinamismo. Vi terrò aggiornati.
The Madcaps – The Madcaps (2015)
Qualcosa mi fa pensare che Syd Barrett, come ripetevo come un cretino in loop cinque anni fa agli amici, e come da tre-quattro anni ripeto su questo blog nei margini del web, sia un’influenza imprescindibile del nuovo garage rock, artista ancora oggi troppo sottovalutato, che con tre album, il primo dei Pink Floyd e i suoi due solisti successivi, ha scolpito sulla pietra il sacro verbo psych come nessuno prima e dopo di lui. Più immediato degli sperimentatori Silver Apples, Red Crayola, Fifty Foot Hose, con un talento innato nel creare melodie complesse ma appetibili (altro che Lennon&McCartney! ecco: l’ho detto, adesso posso chiudere il blog), e dal quale ancora oggi è possibile trarre nuove idee.
Eccoci dunque all’esordio dei Madcaps dopo l’Ep anch’esso omonimo (eeeeeh la creatività!), molto garage più che psych, con il grande difetto dell’essere un revival praticamente puro, senza troppe idee, ma con un songwriting che ancora una volta dopo Anna continua a colpire là dove il nostro cuore batteva prima che scoprissimo le gioie di un rock più impegnato (ma non per questo cervellotico).
Un album nostalgico, la bella Emily Vandelay si presenta con la sua ritmica sixties, la chitarra alla The Nazz, e con forse la stessa capacità della band di Philadelphia di azzeccare prima di tutto il sound e lasciando in secondo piano la musica.
I nomi dei pezzi sanno di ricordi (Haunted House, Melody Maker, 8000 Miles From Home) ma una volta che metti play, con gli occhi umidi e le dita unte, quello che esce fuori dalle casse non sono gli stessi ricordi, sono tutt’altra cosa, e sono anche parecchio noiosi.
Baston – Gesture (2015)
Questo Ep del trio francese sembra un classico album da Burger Records, garage edulcorato dal pop, con forti tensioni psych che stanno lì solo per bellezza.
Anche perché, dopo il tiro magnifico di Maybe I’m Dead, questo Ep non sa di un cazzo. Melodie banali, suoni banali, testi banali (ma di solito non ci faccio caso), cover, quella di Little Honda dei Beach Boys, che è persino più brutta dell’originale, e non era così facile come sembra!
Mi pare strano che la Burger Records, ormai contenitore di quasi tutto il buono della scena garage assieme a tutta la merda che però fa numero (e da la possibilità a questa etichetta di galleggiare), non si sia accaparrata i diritti per il prossimo album di questa band, il classico esempio di come in una scena musicale il 90% della produzione sia musica derivativa e buona solo per riempire lo spazio tra una band e l’altra ad un festival.
Volage – Heart Healing (2014)
Ok, non mi fanno impazzire, però una cosa gli va detta: sanno come si fa un album rock! Un sound decisamente riconoscibile e un certo affiatamento sono le skill di questo “Heart Healing”.
Tra il giocoso, il garage, il weird pop e un songwriting piacevole, senza però scadere nella linearità e nella ripetizione.
Piccola parentesi sul fatto che oggi ho usato la parola songwriting tipo cento volte in tre righe di post: è tutta colpa di Giovanni, un mio collega dell’Università, il mio linguaggio è stato malamente influenzato dalla sua presenza da indie rocker che ascolta gli Arctic Monkeys. Per lui il rock È il songwriting, e non sono in pochi a pensarla così, e se siete di questa parrocchia (a mio avviso perversa e immorale) forse potreste trovare delle cose interessanti in questi Volage.
Il ritmo camaleontico si dipana ad ogni pezzo cercando di confonderci, e mostrando i muscoli della band. Il piglio punk di Touched By Grace, si trasforma in ballad psych e poi in garage rock in poco più di due minuti, ma senza dimenticarsi la voce e la melodia.
Abbiamo anche una perla mica da poco con i sette minuti e mezzo di Loner, dove l’insegnamento degli ormai sacri/intoccabili Thee Oh Sees arriva anche nella burrosa Francia. Ma invece del profumo di croissant caldi Loner puzza di Fuzz. La chitarra del complesso californiano di Charles Moothart esplode per poi essere addomesticata e spezzata, col cazzo che cascano nel tranello di fare un calderone di cazzate incomprensibili come i Jefferitti’s Nile, i Volage riescono a ricalcare i tòpos della psichedelia senza fare revival ma buttandoci dentro palle e idee. Sicuramente non c’è da urlare al miracolo, non sono riusciti a piegare il genere a loro immagine e somiglianza (come hanno fatto con il garage psichedelico i Pink Street Boys e col new-post-punk i Nun), ma riescono ad esprimersi con l’esperienza di una band scafata da migliaia di festival.
E vogliamo farci scappare il momento Barrett? Ma stavolta dura poco, giusto i primi accordi di 6H15, per poi cambiare, mutare, evolversi senza soluzione di forma. Un po’ come gli australiani Total Control, ma se i TC sono una specie di killer-mix di Ausmuteants e Ultravox, invece i francesini mescolano tutte le influenze della scena garage senza fermarsi un attimo, senza neanche l’ombra di un po’ di auto-referenzialità.
(M’è venuto un coccolone con l’attacco indie-brit pop di Love Is All, echecazzo, eravate andati così bene e poi all’ultimo mi fate ‘sti scherzetti del menga? Dai cazzo: sembrate i Jet di “Shine On”!)
(Ah, sì, caruccio anche il 10’’ uscito due anni fa, più punk e cattivo, magari un giorno lo recensisco.)
Qúetzal Snåkes – Lovely Sort of Death (2014)
Gran bel pezzo di Ep questo dei Qúetzal Snåkes, una delle band che mi convincono di più dell’intero catalogo dell’etichetta parigina, un rock con forti influenze space e shoegaze, le chitarre si districano tra richiami nineties all’hard rock, e dal vivo devono essere deflagranti.
Assieme ai Volage sono anche quelli che dimostrano una forte personalità, per la quale puoi parlare di influenze sixties ma non di revival. Come genere non sono di certo nelle mie corde, anzi: fanno poco casino e sono troppo bravi con i loro strumenti, ma mi ha colpito il sound e la qualità delle composizioni.
Personalmente ho ascoltato due volte questo Ep, e non credo che lo riascolterò mai più, ma penso che questa band meritasse qualcosa in più che una semplice citazione, se vi piace un garage non per forza urlato e con un certa ricercatezza nel suono questo è un ensemble che può fare per voi.
Ci sarebbero altre chicche da scoprire, come il surf rock dei Los Dos Hermanos, il punk pop dei Kaviar che nell’album sembra una roba alla Audacity ma che dal vivo spaccano, il garage pop leggero pseudo-Burger dei Travel Check, i frenetici Mountain Bike dal Belgio, ma forse ne parleremo un’altra volta. Se avete tempo (quella dimensione che a me manca più di quanto a Battiato manchi il suo centro di gravità permanente) e vi sono piaciute le band che vi ho proposto dateci un’ascoltata, chissà che non scatti la scintilla.
Cristo, che chiusa del cazzo.
Built To Spill – Perfect from Now On
Dato che le riviste di tutto il mondo stanno elogiando oltremodo il ritorno a 33 giri dei Built To Spill (che non credo sia ancora disponibile per noi mortali, e comunque me lo potrò permettere alla meglio verso natale) mi pare quantomeno adeguato passare del tempo a scrivere di quanto sia stato importante “Perfect from Now On”, il loro terzo album del 1997, e di come questo meraviglioso disco dovrebbe essere considerato uno di quelli da avere ad ogni costo, come il primo dei Pink Floyd o “Aftermath” dei Rolling Stones.
È che, essenzialmente, se non hai ascoltato Perfect ti sei perso semplicemente il meglio degli anni ’90. Un’unione trascendentale tra Syd Barrett, Captain Beefheart e l’hardcore, un incontro, quello tra i primi due, già celebrato nel 1980 dai Soft Boys di Hitchcock, ma che nei Built To Spill trova nuova linfa vitale da una generazione che di grunge non c’ha proprio un cazzo.
Ok ok ok, forse Beefheart c’entra poco, forse la loro ispirazione erano effettivamente Barrett, la seconda ondata hardcore e certamente Hitchcock, forse di Zoot Horn Rollo e di Jeff Cotton non gliene fregava una cippa a Doug Martsch, però i suoi Built To Spill hanno spesso il piglio ordinatamente scalmanato della Magic Band, molto più dei Mule di P.W.Long, tanto per dire.
E quel piglio da blues storto nella forma ma non nell’anima si sente eccome nel micidiale attacco di Distopian Dream Girl, uno dei più belli della Storia Del Rock (la mia personale classifica recita più o meno così: 1) Moonlight On Vermont, 2) Old Pervert, 3) Humor Me, 4) Psycho, 5) 1969, 6) Louie, Loui, 7) Distopian Dream Girl e via dicendo, comunque sia è una classifica parecchio suscettibile a cambiamenti). Beh, ok, quello è un pezzo dal secondo album, però se una band sa fare una roba così vorrà pur dire qualcosa!
Quello che caratterizzava “There’s Nothing Wrong with Love”, il secondo lavoro dei BTS, era la freschezza dei pezzi, molto dinamici e zeppi di spleen anni ’90, mentre in Perfect il suddetto spleen diventa dominante, e la forma si modifica attorno alla sostanza. I tempi si allungano, la consapevolezza aumenta.
Ecco, spleen è una parola chiave per comprendere fino in fondo questa band (Alberto Leone nella bio per Ondarock la userà seicento volte, crist’iddio), ma lo spleen cos’è? È giovanile malinconia, è insofferenza verso la vita e i suoi avvenimenti, un concetto ovviamente universale sempre esistito e cazzi e mazzi, ma che trova la sua definizione, nell’ambito del rock, negli anni ’90.
Il grunge riprende l’hard rock, anche se è figlio dell’hardcore, i Built To Spill riprendono la psichedelia anche se sono figli dell’hardcore. Badate bene che è questo il punto di svolta, la cosa che rende i BTS tra i grandi dei ‘90. L’hard rock come genere è una gabbia espressiva: intro, riffone, melodia, riffone, assolo di trenta minuti, melodia, chiusura (se dal vivo aggiungersi: “altro assolo”), o lo fai così o fai un altro genere, c’è poco da fare. Ma i BTS se ne straffottono di Deep Purple, Led Zeppelin e amenità varie, prendono il genio sregolato di Barrett e lo reinterpretano da bravi figli dei vari “Zen Arcade”, “Damaged”, “Double Nickels on the Dime” e via dicendo.
Per cui se la malinconia di Barrett era comunque stemperata dalla voglia di raccontare strane favole, qua lo spleen si scontra con la rabbia hardcore punk (politica sì, ma anche generazionale), e quello che ne viene fuori è la musica instabile, nervosa, dinamica ma ordinata dei BTS.
Nel primo album del ’93, “Ultimate Alternative Wavers”, ci sono ancora troppe incertezze. A volte si sfocia nel manierismo, mescolando una grande potenza espressiva ad eccessi chitarristici (penso a Shameful Dread), ma è comunque un esordio CON LE PALLE, dove Martsch mostra i muscoli e la sua eccezionale abilità come compositore.
Gli basta un anno per sfornare “There’s Nothing Wrong with Love”, una sorta di concept album/manifesto generazionale. I suoni sono più puliti, la chitarra appare più definita, e i suoi dialoghi elettrici continui drappeggiano ogni pezzo superando i vincoli estetici della psichedelia classica (e avvicinandosi tantissimo ai Dinosaur Jr.), il sound ormai è loro e loro soltanto. Tra riff azzeccati e finali inaspettati si arriva al vero capolavoro dell’album, che ho già citato ma che ri-cito perché questo è il mio cazzo di blog, ovvero Distopian Dream Girl.
E poi niente, dopo questi due album tosti, ma non eccezionali, bisognerà aspettare fino al 1997 per trovarsi di fronte alla magnificenza di “Perfect from Now On”. Ad ascoltarlo oggi questo album, come i precedenti, ha un grosso problema: è davvero anni ’90. Uno strano problema direte voi, appartenere ad un periodo musicale è inevitabile, anche se sei un genio avveniristico sei comunque “figlio del tuo tempo”, ma nei BTS si soffre un po’ per la voce, stuprata da migliaia di band su MTV, ci si storcono ogni tanto le budella per il suono della chitarra, diciamo che la superficie, il primo impatto, non è quasi mai dei migliori. Questo discorso però è valido solamente se sei nato nei ’90, come me, altrimenti cazzotenefrega.
Ma se si supera l’iniziale sconcerto di trovarsi di fronte a quei suoni che hai volontariamente dimenticato per cedere la tua anima ai Ramones, ecco che viene fuori tutta la grandezza della band. Prima di tutto la tecnica, non buttata lì per farsi belli, ma al servizio del discorso musicale/spleen, come nei nove minuti di Untrustable/Part 2 (About Someone Else), inizialmente monolitica, statica, e poi profonda, giocosa, inaspettata. Sebbene I Would Hurt a Fly sia il pezzo più conosciuto dell’album (anche perché rispecchia quell’idea comune di rock intimista anni ’90) è nel resto che la band compone un arazzo di dolce complessità, senza la pesantezza dei progger né l’autoreferenzialità delle band grunge.
Ma quanto è tirato l’intro di Made-Up Dreams? Già in quelle note acustiche e nella voce di Martsch c’è tutta la potenza inespressa di quello che seguirà. Come resistere al dialogo elettrico di Stop the Show, che culmina in un finale devastante e ipnotico?
Non c’è un pezzo in più, è tutto proprio come dovrebbe essere. E senza quella forzatura di essere un manifesto generazionale, come nell’album precedente, Perfect diventa uno specchio fedelissimo della sua generazione, con tutti i suoi difetti e le sue sorprese, con l’introspezione e la necessità di essere ascoltati dagli altri.
La cosa bella è che dopo il ’97 i BTS hanno continuano a sfornare album (cinque in tutto, contando il nuovo arrivato, “Untethered Moon”) e non ci riescono proprio a far cagare. È più forte di loro. Qualcosa di buono lo trovi sempre, un’idea, un guizzo. Però l’inesplicabile tensione giovanile di “Perfect from Now On” rimarrà lì, in quella dimensione dove mettiamo momenti brutti e belli, con i contorni ormai sfumati dalla malinconia.
Psychomagic, The Molochs, Jefferitti’s Nile, Santoros
L’operazione “rizzatil’uccello con la Lolipop Records” è iniziata! Se la Burger Records ha cominciato (e non da poco) a interessarsi a qualunque cosa si muova e suoni una chitarra, fregandosene della qualità (il più delle volte), la Lolipop è fedele al sacro vincolo dell’autenticità, quella forza latente nel rock che puoi esprimere solo urlando (o sussurrando) ad un microfono chi sei. Il loro catalogo da interessante è diventato il mio preferito in assoluto dopo pochi mesi di estenuante recupero, mica zucchine gente: questi due ragazzi californiani hanno tirato sù un’etichetta con i cojones belli grossi e bitorzoluti.
Dopo parecchi ascolti avrei dovuto scrivere parecchie recensioni, ma l’alcolismo e la pigrizia hanno preso nuovamente il sopravvento. Sembra che rum e studio non vadano d’accordo. Strano. Comunque sia, giusto perché è un imperativo categorico, ho fatto un enorme sforzo scrivendo brevissime recensioni di alcuni album che ho ascoltato di recente.
Alcuni sono carini, uno merdoso, un altro quasi un capolavoro, ma tutto sotto la illuminante guida della Lolipop, ultimo baluardo contro un garage rock sempre meno rock e sempre più moda.
Psychomagic – Psychomagic (2013)
Se ieri sera fosse stati dalle parti di Los Angeles avreste potuto assistere ad uno show con The Memories, Joel Jerome, Wyatt Blair (progetto solista del batterista dei Mr.Elevator & The Brain Hotel) e Billy Changer (bassista nei Corners). Forse tra tutte queste realtà ormai consolidate della nuova scena garage vi sareste stupiti ad esaltarvi per gli sconosciuti Psychomagic dall’Oregon, protagonisti da qualche anno della scena psych garage.
Se non fosse per la Lolipop Records come avremmo fatto a scoprirli? I 43 scarni secondi di I Don’t Wanna Hold Your Hand sono troppo poco idioti per la Gnar Tapes, e troppo poco rock pop per la Burger. Le influenze pop di Mutated Love non devono spaventare, la linea psych è sostenuta dalle varie I’m Freak (ecco, questa quasi coerente con i prodotti della Gnar), I Wanna Be That Man, Hearthbroken Teenage Zombie Killer, ma le influenze che compongono questo album omonimo sono delle volte troppe.
C’è qualcosa di Late Of The Pier in I Just Wanna Go Home With You, ci troviamo addirittura il peggio di Elton John (sempre che ci sia un meglio) in Bottom Of The Sea!
Che razza di animale sia questo Psychomagic non ci è dato saperlo, un misto amarissimo di psych pop garage che delle volte esalta e altre tramortisce, senza però convincere del tutto.
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The Molochs – Forgetter Blues (2013)
Ma allora qualcuno che ha sposato la linea blues garage c’è! Certo, non è quella hard dei White Stripes, stavolta siamo su lidi molto intimisti, pregni di una poesia e di una potenza sconvolgenti.
Stiamo parlando probabilmente di una delle migliori band di tutta la scena contemporanea, motivo per cui non la troverete in cartellone con i big del momento, dato che se strafottono di aderire al sound patinato che sta facendo sbancare troppe band mediocri (Bass Drum Of Death, FIDLAR, Audacity), i The Molochs si rifanno ad un concetto di autenticità nella chitarra acustica che passa direttamente dal Greenwich Village fino ai Violent Femmes, così dolcemente disillusi, così dannatamente reali.
Il genio di Lucas Fitzsimons nel comporre musica perfetta per le sue ottime liriche è comprabile a quello di Warren Thomas, forse gli unici due cantori dei nostri giorni, alla faccia di certa merda che ci propinano le riviste passando fenomeni da baraccone come cantautori.
Il ritmo ineluttabile di una Oh, Man era davvero tempo che non lo ascoltavo, quanta amarezza in Drink the Dirt Like Wine, così minimale ed espressiva, lontanissima dalla freddezza e dall’isolamento di “Same Old News” di Tracy Bryan (Corners), non c’è un tentativo di descrizione né di allontanamento dal fruitore (come nella musica di Bryant), parole e musica seguono la melodia della necessità.
Stupenda, anzi: immensa cover di Syd Barrett, Wined & Dined, padrino della scena contemporanea come spesso ripeto e sottolineo, fino allo sfinimento.
Se vi volete bene (o se vi volete male ma non sapete esprimerlo) dovete comprare questo “Forgetter Blues”.
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Jefferitti’s Nile – The Electric Hour (2014)
Non si fa che parlare di questo album da parecchi mesi, così alla fine ho dovuto acquistarlo! La potenza devastante e il wall of sound sono notevoli già di per sé, ma sono le miriadi di influenze sixties che compongono questo schizofrenico mosaico le protagoniste, spesso nella singola canzone ne puoi contare quattro o cinque.
Senza dubbio spaventerete non poco i vostri vicini mettendo a tutto volume Midnight Siren, tra Hawkwind, Ty Segall, Blue Cheer e la velata ma percepibile presenza dell’indie dei Late Of The Pier.
Detto questo dopo aver ascoltato a riascoltato “The Electric Hour” mi sono tremendamente annoiato. Va bene saturare lo spazio, va bene buttarci dentro grandi band come i Blue Cheer e gli Hawkwind, va bene passare da un genere all’altro senza troppi complimenti, però non c’è sostanza!
Insomma, prendete una band qualsiasi della Captcha Records che faccia psych e capirete che voglio dire. Qui la psichedelia è una scusa per mostrare un po’ di virtuosismo, tante paillette colorate e luci stroboscopiche, ma è tutta forma. Che cazzo di senso avrebbe quel gran casino di Stay On? Quale ricerca, quale concetto si cela dietro? Certo, direte voi, non è che per forza bisogna dare un senso profondo a tutto quello che si fa, sono d’accordo, solo che la musica dei Jefferitti’s Nile è pretenziosa, tracotante, barocca, senza motivo di esserlo!
Se fai due accordi e parli di quanto vorresti farti una canna mi sta bene, ma se devi fare terra bruciata del mio spazio vitale sonoro per infilarci tutto quello che ti passa per la tua mente bacata allora posso pretendere un minimo di senso, o no?
Ma poi quelle virate alla Coldplay in Upside? Non ve ne siete accorti? Davvero?
Mah, un album semplicemente ridicolo.
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Santoros – Animals [EP] (2014)
Ecco una band con le palle, pochi fronzoli e tante cazzate. Non lo nascondo: provo una profonda e poco dichiarata attrazione sessuale per i volti sudaticci dei Santoros, il loro psych garage sgraziato mi fa frizzare il ravanello. E poi sono messicani. Non lo so, mi sembra tutto troppo bello per essere vero!
Il lamento insopportabile di Jossef Virgen all’inizio di I Didn’t Know è di una bellezza estetica inarrivabile, le incursioni della chitarra di Adolfo Canales sono pura libidine.
L’attacco di Diego Pietro alla tastiera in Rabbits farebbe scendere una lacrima di pura gioia a Ray Manzarek. La sua successiva discesa negli inferi psych garage invece fa piangere d’invidia gli amici Mr.Elevator & The Brain Hotel, chissà come si è torturato le dita Thomas Dolas ascoltando questa Rabbits, un brano che dal vivo si presta al delirio totale, ma che trova la sua definizione nel sound unico e brillante dei Santoros.
Regà: so’ quattro dollari su Bandcamp. Quattro dollari, porcodemonio, quattro, manco lo so quanto viene in euro, meno di qualunque merda ingurgitiate durante la giornata, quindi poche scuse e comprate questo EP.
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Dreamsalon – Thirteen Nights
La Captcha Records è un’etichetta davvero interessante, dopo averci regalato i messicani Has a Shadow con quel capolavoro di “Sky is Hell Back” passiamo ad una band certamente meno interessante ma non per questo banale.
I Dreamsalon sono una novità nel panorama garage psych, ma di quelle buone. Vengono considerati una specie di Violent Femmes in salsa psichedelica, il che ci pone delle premesse niente male (oltre che a della aspettative pericolosamente alte).
Qualche EP nel 2012 e tanta gavetta, poi nel 2013 esce “Thirteen Nights”, la prova che Seattle non è più un luogo isolato ma fa parte di una rivoluzione sixteen che imperversa in tutti gli States.. Una volta le scene musicali erano legate ad uno stato o addirittura ad una città (perché anche l’hardcore ha vissuto più stagioni legate a diverse città), adesso con internet le distanze si sono accorciate, le idee scorrono più velocemente, e il sound californiano imperversa anche in Canada (Pack A.D.) come in Messico (i già citati Has a Shadow), e quindi anche la grunge Seattle (alla quale ormai va giustamente stretto il grunge) diventa una assolata costa californiana, dove si suona surf rock tra bikini e birra ghiacciata.
Probabilmente “Thirteen Nights” è uno dei prodotti meno banali recentemente usciti, lo ancora di più è se messo in confronto a band più fortunate come gli Audacity o quel fumo di paglia di Jacco Gardner.
Il garage psych dei Dreamsalon spazia tra chitarre che ricordano Dick Dale e le sfuriate di feedback alla Ty Segall, le cavalcate sul basso di Min Yee sono infernali e ammalianti, Matthew Ford calpesta la batteria per poi accudirla esaltandosi in dei passaggi jazz-rock, Craig Chamber a quella chitarra gli fa fare di tutto, la pizzica, la fa urlare, la fa ronzare, la distorce devastandone il suono per poi fare il verso a Syd Barrett (l’unico e incontestabile padrino del rock contemporaneo). Credo sia sempre Chamber a cantare, ma non ho trovato molte informazioni su questa band quindi la butto lì.
Ci sono pezzi davvero notevoli, il giro di basso ipnotico di On The Bus che sfocia in un rabbioso garage punk, il suono avvolgente di Lick o il delizioso riff di Get To Work uscito fuori da un “Nuggets” perduto. C’è pure spazio per la sperimentazione con Every Man, Woman, And Child, punta di diamante dell’album.
Boh, non che altro dirvi, quantomeno ascoltatelo su Bandcamp, questa amici miei è roba che scotta.
Un esordio notevole, un sound già riconoscibile ed un pezzo come Every Man, Woman, And Child che può solo portare lustro alla Captcha Records.
Mr. Elevator & The Brain Hotel – Nico & Her Psychedelic Subconscious
Freak, psichedelici, anni ’60 e troppo esplosivi per ignorarli, Mr. Elevator & The Brain Hotel sono una delle realtà più frizzanti dalla California.
Capitananti da un geniale Thomas Dolas, già da qualcuno elevato al ruolo di nuovo Ray Manzarek e nemmeno troppo a caso, sono un trio dalle potenzialità ancora da definire. Le strepitose acrobazie sui tasti di Dolas ricordano Ray Manzarek come il più cattivo Brian Auger, il basso di Andrew Minter sembra uscito fuori da una band beat post-Rubber Soul, il ritmo garage alla batteria di Wyatt Blair è il collante necessario per rendere il sound di questa band davvero riconoscibile.
Fin qui mi sono limitato a riportarvi notizie dall’internet, ma cosa c’è di preciso nel finora unico album pubblicato dai Mr. Elevator & The Brain Hotel?
Intanto partiamo dal 7” uscito l’estate scorsa, “Are You Hypnotize?”, citazione poco velata al mitico album di Jimi Hendrix, eppure l’unica cosa che hanno in comune è il rifarsi a quel periodo storico piuttosto che al suo rock, perché la roba che sgorga fuori dalle casse è puro garage rock, non quello rivisitato contemporaneo (Thee Oh Sees) ma una vera e propria ripresa degli stilemi classici del genere.
Certo, la coda della title track di questo breve lavoro lascia intendere una ricerca, una sorta di sperimentazione sul modello dei sixties, mentre Dreamer e acido garage rock con un pizzico di indie. Tutto sommato una presentazione mediocre.
Ad ottobre la Burger Records rilascia il loro album d’esordio, questo “Nico & Her Psychedelic Subconscious”che è almeno due passi avanti i primi due singoli estivi, fra l’altro non presenti dell’album. Subito lanciatissimo il trio psych garage si ritrova in poco tempo ad essere l’headliner di numerosi festival e parte in giro per l’America per far impazzire folle di nuovi e vecchi garagisti e qualche bluesman (proprio ieri hanno suonato in compagnia dei Howlin Rain).
Già rinvangare una figura mitologica come Nico (per molti al pari di un Unicorno su un tappeto volante) è un ottimo modo per ricevere attenzione, ma qui non siamo mica dalle parti della Nico razionale alla “Desert Shore”, ma come ci suggeriscono questi tre californiani siamo nell’inconscio, nell’irrazionalità, nella follia colorata degli anni ’60 che una figura pop come Nico rappresenta.
La corsa spericolata di My Purple i, quell’attacco acido alla Manzarek di Mermaid Song, quel giro rubato al primo Santana di Right Where You Ought To Be (che si trasforma presto in una cantilena psichedelica filo-barrettiana), fino ad una classica Don’t Hold Back.
Parte di corsa anche Infinity, per poi perdersi in un sogno sempre più vicino a Syd Barrett che a Nico.
Diciamo che gli acuti di questo album sono nella breve e acidissima jam Grape Jelly, dove probabilmente sono racchiusi tutti gli elementi che rendono questo album decisamente intrigante. Ascoltatela su Bandcamp, così potete decidere se proseguire o saltare a piè pari questa band. Mentre i primi due pezzi d’apertura sono da antologia, Nico mescola sapientemente Doors, Question Mark & The Mysterians, The Music Machine e altro, riuscendo comunque a possedere un sound personale e riconoscibile! Lo stesso vale per la coda dove si sviluppa la caoticità dell’inconscio (& Her Psychedelic Subconscious).
Un album da avere assolutamente per chi adora questo genere di revival maturi e decisamente non retorici, Thomas Dolas sarà di certo uno dei protagonisti assoluti di questa nuova scena californiana.
- Lo Consiglio: ai garagisti di vecchio e nuovo corso, inoltre a tutti quelli che il rock di una volta dona sempre emozioni nuove.
- Lo Sconsiglio: se credi che Ray Manzarek sia un musicista sopravvalutato allora è meglio che lasci perdere.
- Link Utili: cliccate QUI per la pagina bandcamp della band e ascoltare l’album, mentre QUI per la pagina Facebook, se volete farvi un giro tra le ottime proposte della Burger Records invece cliccate QUI.
E ora, come al solito, qualche video:
Acida live con punte indie nel mitico Jam In The Van:
Ecco, sempre nel Jam In The Van, la psichedelica esecuzione di Nico and Her Psychedelic Subconscious:
Beh, dato che li ho citati…
Jeffrey Novak – Baron In The Trees
Senza infamia e senza lode, lo collocherei in questo momento della sua carriera tra un Syd Barrett smorto e il più ispirato John Lennon, molto dei contemporanei The Mallard e White Fence e difatti anche lui come questi ultimi fa parte della rinascita (se mai c’è stata una “morte”) della psichedelia americana che ha sede fissa in California.
Jeffrey Novak è praticamente sconosciuto in Italia se non per la sua parentesi Cheap Time, mediocre tentativo di unire glam a garage come un tempo. Questo tizio rinasce in tempi recenti lasciando perdere definitivamente la vena glam (davvero, faceva schifo) e lasciando il garage ai vai Ty Segall e Crystal Stilts (che è in buone mani, fidatevi), protendendo per una psichedelia spicciola.
Lontano dalla magnificenza spesso dichiaratamente masturbatoria dei The Black Angels, lontanissimo dalla potenza e dalla genialità di Thee Oh Sees e Zig Zags, è certamente più affine alla forma-canzone alla White Fence, ma se il caro Fence è comunque ancorato ad un concetto (forse) un po’ posticcio della psichedelia, Novak dal canto suo è molto vicino all’ultimo Barrett del ’70, il che perlomeno ci fa capire che il ragazzo assume dosi di rock ben tagliate.
In soldoni il tizio ci sa fare e nel 2012 pubblica questo “Baron In The Trees” (credo ispirato in parte al celebre romanzo Il Barone Rampante di Italo Calvino, che se non avete letto siete brutte persone) che finalmente sono riuscito ad acquistare ieri, e che intende essere un po’ la summa del percorso di Novak e forse la prova della sua definitiva maturazione.
Quest’anno è uscito “Lemon Kid”, ma, ehi, appena avrò il grano vedrò di procurarmelo, intanto mi cucco/vi cuccate questo.
Novak non è un genio della musica, e di certo non è tra gli artisti di punta di questa nuova ondata garage-psichedelica che mi sta appassionando a livello discografico come niente nella mia vita, la sua psichedelia chiede poco e dà pochissimo.
In Baron la fa da padrone l’acidità di Barrett (presente sopratutto nella performance vocale), ma la musica è molto pop prima ancora che rock. Eppure nella sua confezione abbellita di archi (Parlor Tricks) di rimandi floydiani esagerati, di pezzi impacchettati ad arte (Watch Yourself Go) di hit accattivanti (Here Comes Snakeman) di tutti quelli che invece di prediligere la via più “estrema” della psichedelia, fondendola con drone e garage, si sono buttati su un’idea più melodica e modesta, Jeffrey Novak ne risulta senza alcun dubbio il più gradevole.
Si merita una pacca su una spalla, il tizio.
“Baron In The Trees” per quanto mi riguarda è involontariamente un classico. È un metro, un modulo, come cristosanto posso dire… ecco: un esempio di cosa si è preso dal passato e di come lo si riutilizza oggi negli anni ’10 del 2000.
Al contrario di tutte le band psichedeliche principali di questo momento Novak viene dal Tennessee, più precisamente dalla rigogliosa capitale Nashville, patria del country. E già da qui si può capire come proprio il buon Novak riesca a dare il suo meglio entro i 4 minuti (meglio se 3 o due e mezzo), con poche note ben posizionate, una melodia sempre orecchiabile e il tutto registrato decentemente.
Sebbene sia un po’ più acida la title track che chiude questo brevissimo album (anche troppo, solo 9 pezzi per un totale che sfiora la mezz’ora!) il resto si libra nell’aria con leggerezza e una buona dose di maturità.
Un ottimo passatempo e un simpatico acquisto natalizio. Lo consiglio a chi tra un feedback e l’altro vuole un attimo riposarsi e tenere qualcosa di decente di sottofondo. Non c’è bisogno di ascoltarlo con attenzione, va giù liscio come il vino che comprate al Penny Market, senza infamia e senza lode.
- Pro: scrollatosi di dosso il glam e buttandosi in Barrett, Novak ha trovato se stesso e della buona musica.
- Contro: nessuna pretesa di alcun genere, un disco che non ha niente da dire.
- Pezzo consigliato: Baron In The Trees.
- Voto: 6/10
Thee Oh Sees – Carrion Crawler/The Dream
Gentili lettori,
quanto vi propongo oggi è un album di una band che fa stracciare i vestiti di dosso anche ai critici più testardi. Peccato che i voti mediamente alti e i complimenti strascicati vengano spesso rilegati alle ultime pagine, lasciando in copertina gli ultimi aborti degli Arcade Fire.
I Thee Oh Sees sono, e tremo al dirlo, la miglior rock band dell’ultima generazione. Se tremo nel dirlo è per molte ragioni.
La prima è certamente il fatto che oggi definire cosa sia “rock” è sempre più difficile. Non per me, ma il resto della critica che pur di recensire undici miliardi di album al giorno più dell’altra rivista musicale fanno diventare rock anche “AM” degli Arctic Monkeys (per loro la linea di confine è sempre più confusa).
Dimenticandoci di punto in bianco che fare rock non è imbracciare una chitarra e vomitare ovvietà da un microfono, ma è farlo in un certo modo e con dei validi motivi. E il modo e i motivi si sentono parecchio da quelle casse, cazzo se si sentono!
Per i confusi e gli anfetaminici: i motivi non devono per forza essere “alti”, come i modi non devono essere per forza virtuosistici, basta che non siano artificiali. Puoi anche voler diventare i nuovi Beatles, fare un mucchio di soldi e raccatarre figa in ogni angolo, ma se da questi propositi vengono fuori i Ramones è una cosa, ma se invece vengono fuori gli Strokes significa che qualcuno sta mentendo. E i Ramones erano troppo fatti per per riuscirci in modo credibile.
Il rock vero si sente.
Quando ascolto un pezzo qualsiasi degli Strokes non sento niente, a parte una smodata voglia di raccogliere fiorellini in giardino e guardare in TV X-Factor. Quando ascolto i Thee Oh Sees mi si rizzano a porcospino tutti i peli delle palle, vorrei spaccare tutti poster di Frank Zappa in camera con la tavoletta del cesso e guardare Beavis and Butt-Head in streaming.
La storia dei Thee Oh Sees è davvero strana.
Se gran parte delle rock band cominciano coverizzando qualche pezzo con gli strumenti comprati qualche natale di troppo fa da mamma e papà, John Dwyer (leader della band) comincia con esperimenti noise allucinanti.
Il primo nucleo della band si forma nel 1997, denominati Orinoka Crash Suite pubblicheranno tre album che ad oggi ascoltiamo in tutto il mondo solo io e John Dwyer.
“34 Reason Why Life Goes On Without You / 18 Reason To Love Your Hater To Death” meglio conosciuto come “1” è una di quelle cose per cui o hai una mente aperta all’esperienza emotiva REALE oppure dopo due minuti fuggi dalla stanza violentato mentalmente. L’esperienza noise non è da tutti, ma se vi piace il genere i primi tre album degli Orinoka vi faranno esplodere il cervello.
Dopo questa avventura composta di rumori, fruscii e ambienti sonori al limite dell’umana sopportazione, la band si volge a sonorità più garage e al formato canzone universalmente riconoscibile. Formano così gli The OhSees che nel 2007, con l’arrivo di Petey Dammit possono trasformarsi nei definitivi Thee Oh Sees.
Con quella chitarra che suona come un basso Dammit dona a Dwyer il sound definitivo, un ponte trascendentale che unisce Syd Barrett, Soft Boys, Fuzztones e Ty Segall.
Non c’è un album che si possa definire “poco riuscito”, dal primo (“The Master’s Bedroom is Worth Spending a Night In”, 2008) all’ultimo (“Floating Coffin”, 2013) eppure ne hanno fatto uno che forse forse è “il più riuscito di tutti”.
Ecco: “Carrion Crawler/The Dream”, uscito nel 2011 qualche mese dopo “Castlemania”, è la sintesi di tutto il sound, delle idee e della follia dei Thee Oh Sees.
Concepiti come due EP diversi Carrion e Dream vengono fusi in unico album, unendo così la vena puramente psichedelica a quella più spiccatamente garage della band. La prima parte apre proprio con Carrion Crawler (chi gioca a D&D sa già a cosa si riferisce) monumento del rock psichedelico, un nuovo classico indimenticabile.
Segue Contraption/Soul Desert, fusione di un loro vecchio pezzo con Soul Desert, fra l’altro la mia preferita dei Can pre-”Tago Mago”. I ritmi ripetitivi, perfetta sintesi di acidi e introspezione, si confermano con la successiva Robber Barons.
Una specie di space-garage quello di Chem-Farmer, con un lavoro portentoso delle due batterie di Lars Finberg e Mike Shoun. Un surf-rock indemoniato.
La breve Opposition (With Maracas), formula garage che sembra la versione velocizzata e sbarazzina di The Whipping Continues (un geniale, acido e rumoroso pezzo contenuto nel precedente “Castlemania”) ci apre alla seconda parte. Il tema musicale sta cambiando repentinamente, portandoci da altri lidi ben più duri e molto meno introspettivi.
The Dream, anticipata da quei brevi accordi così geniali da imprimersi nella mente per sempre, è il cavallo di battaglia di questo album, la sua potenza garage-caotica dal vivo è inebriante, un’orgia sonora che prolunga un orgasmo per sette-otto minuti di furiosa live.
Seguono velocemente perle di saggezza garage impressionanti (Wrong Idea, Crushed Grass), molto più imprevedibile e camaleontica Crack in Your Eye. Degna conclusione la scalmanata Heavy Doctor.
Non c’è bisogno di aggiungere altro, il rock dei Thee Oh Sees è un buco nero che risucchia tutta la storia mantenendo una propria originalità, la quale deriva da una mente geniale e da dei compagni altrettanto degni, un sound unico perché vecchio ma estremamente moderno. Da ascoltare esclusivamente senza cuffie.
La musica di questa band avrà (e già ha) delle ripercussioni decisive nel sound della California. E oltre.
- Pro: tutto quello che c’è di buoni dietro la parola rock.
- Contro: se vi piace il rock in tinta pop vi sconsiglio vivamente i loro album, vi risulterebbero inutilmente noiosi.
- Pezzo consigliato: vi consiglio i due title track, Carrion Crawler e The Dream.
- Voto: 8/10
Pink Floyd, la discografia (parte prima)
Questo speciale sulla discografia dei Pink Floyd [diviso in tre parti, questa, quella e quell’altra] lo faccio per allontanarmi ufficialmente da due categorie di pensiero sulla band:
- la prima è quella per cui “The Piper at the Gates of Dawn” è l’unico disco decente della loro discografia, per me non è così, anche se lo ritengo il migliore (tranquilli, spiego anche il perché);
- la seconda categoria è quella per la quale qualsiasi cosa abbiano prodotto i Pink Floyd, dagli album alle raccolte, dai singoli ritrovati ai bootleg, fino ai dischi solisti dei componenti della band è oro colato, dannato oro colato. O comunque meglio di tanta altra roba a-prescindere;
I Pink Floyd sono stati la terza band rock che ho conosciuto, subito dopo Genesis e Led Zeppelin, non c’è dubbio che esista un legame affettivo tra me e il gruppo, non lo nego né tanto meno cercherò di negarlo proponendovi una visione oggettiva della loro discografia, le mie opinioni sugli album sono un miscuglio che va dall’ascolto giovanile e passivo fino alla riflessione storico-contestuale, senza dilungarsi troppo e senza alcun punto di riferimento se non la mia esperienza.
Non parlo quasi mai delle band fuori dal contesto degli album prodotti, non mi interessa, ho letto biografie di molti gruppi e anche dei Pink Floyd, ma non le ritengo quasi mai rilevanti a meno che non ci sia una diretta correlazione tra il prodotto finale e la percezione dell’ascoltatore (badate bene: non dell’autore ma dell’ascoltatore).
Possiamo cominciare?
Bene.
Piuttosto celebri i primi passi dei Floyd, spesso ci si dimentica come la band non soffrì mai così tanto la fame come qualcuno dice, infatti già con i primi singoli da Arnold Lane/Candy and Currant Bun fino anche ai meno celebri Apple and Oranges e Julia Dream riscuoteranno subito un buon successo. Il pubblico che accoglierà i Pink Floyd di stampo fortemente “barrettiano” è un pubblico ormai ben allenato alla psichedelia (quasi sempre legata al garage almeno in America), in fondo anche Fresh Garbage degli Spirit era un hit, i ragazzi ascoltavano i The Leaves, i Canned Heat, il grandissimo Tim Buckley, i The Move, i Jefferson Airplane e duemila altre band che non mi metto qui a elencare.
Quindi il sound dei Floyd non era ostico per niente alle orecchie europee e statunitensi, in particolare per essere una band psichedelica i Pink Floyd non tratteranno mai male l’ascoltatore e quasi mai lo porteranno ai limiti della sopportazione, anche nelle sperimentazioni più “estreme” i Pink Floyd resteranno sempre ben aggrappati a dei canoni estetici e comunicativi universali.
La forza carismatica di Barrett dettava legge nella band, la sua creatività esplosiva lo poneva inevitabilmente al di sopra degli altri membri. Probabilmente Syd Barrett è stato uno dei musicisti più influenti di tutta la storia del rock, e la portata di questa influenza non è ancora stata ancora stimata con precisione.
Anche singoli come It Would Be So Nice di Richard Wright soffrono fortemente l’ascendente musicale di Barrett, si salva proprio il b-side di questo singolo, ovvero Julia Dream di Roger Waters, non così tanto forse, ma di certo se c’era una personalità che voleva spiccare nella composizione di singoli appetibili (non facendo carta carbone di Barrett) quello era Waters.
I Floyd si fanno strada nei locali più “in” del momento, la psichedelia in quegli anni sta già perdendo la sua carica rivoluzionaria iniziale per diventare un divertissement per la medio-borghesia, la gente leggeva Burroughs, Kerouac e Bukowski, ma pochi ne assimilavano il contenuto, stava nascendo una moda.
Nel 1967 esce “The Piper at the Gates of Dawn”, con molta probabilità il più grande album psichedelico di tutti i tempi, e anche quello che ne decretò la fine come genere (nella sua accezione classica, of course), inoltre è uno degli album più seminali di sempre e che ancora oggi ha delle influenze gigantesche (Thee Oh Sees, White Fence, Jacco Gardner, Jeffrey Novak, solo per citarne alcuni dei giorni nostri).
Piper è una raccolta incredibile di idee e intenzioni, da una parte Barrett che vorrebbe diventare come Jimi Hendrix, dall’altra lo stesso Barrett che al massimo è l’incubo folle di Jimi (mettete in confronto Interstellar Overdrive a Uranus Rock, Syd è chiaramente contemplativo e introspettivo, Jimi estroverso e manierista). Distorto, confuso, allegro e irriverente, sono pochi gli aggettivi che sfuggono alla penna del critico quando si ritrova di fronte ad un disco così complesso quanto elementare, così importante quanto incompreso.
Qui c’è la sintesi di tutto il movimento psichedelico, diluito in brevi pillole appetibili (anche commercialmente) dalla fulgida e insana mente di Syd Barrett. Il resto della band fa da comparsa se eliminiamo Take Up Thy Stethoscope and Walk, il singolo di Waters che musicalmente però non si discosta dal sound imposto da Barrett (e intavola già dal 1967 quel personaggio che Waters si porterà dietro di critico dell’umanità, impegnato a discostare l’uomo dalla scimmia, un ruolo che, a parer mio, non riuscirà mai a interpretare in modo credibile).
Astronomy Domine, l’attacco di Lucifer Sam (geniale la recente cover dei MGMT), il riff di Interstellar Overdrive, lo scampanellio delle biciclette di Bike (splendidamente coverizzata nel secondo album di Ty Segall), tutto in Piper è passato alla leggenda. L’unico brano ereditato dai singoli è The Scarecrow (uscito quello stesso anno assieme alla celebre See Emily Play) per il resto Barrett dimostra la sua infinita capacità creativa, un genio incredibile.
Peccato che Barrett decise di bruciarsi il cervello, dimostrando ancora una volta che anche un genio può essere un perfetto idiota. In fondo anche un visionario come Kubrick disse che Spielberg è un grande regista, e lo disse da sobrio, dunque a posteriori possiamo dire che al buon Barrett non è andata poi così male.
Il successo di singoli come Interstellar Overdrive inizieranno i Floyd ad una carriera non proprio qualitativamente altissima nel cinema (diciamo pure merdosa, dai). La traccia sarà difatti utilizzata per “Tonite Lets All Make Love In London” di Peter Whitehead, un regista mediocre noto soltanto per aver registrato molte band rock agli esordi, lo si ricorda perlopiù per il precedente “London ’66–67” che raccoglie due registrazioni dei Pink Floyd e qualche intervista. Secondo Wikipedia Whitehead è considerabile come un precursore del video-clip, ma è solo una delle tante voci imbarazzanti di Wikipedia, nulla più.
Nessun album dei Pink Floyd intaccherà in modo così profondo la musica rock, per quanto le vendite siano propense a farci credere che con “The Dark Side Of The Moon” e “The Wall” i Floyd abbiano espresso il loro meglio, il che non è improbabile almeno se consideriamo l’uscita di Barrett e l’inevitabile avvicendamento di Waters come la creazione di un’altra band diversa dalla prima, Piper è una pietra miliare che la musicologia deve prendere in considerazione in modo più serio e analitico, un monumento dalle proporzioni colossali.
L’attività dei Floyd tra il ’67 e il ’69 è frenetica, il che quasi sempre presuppone un notevole calo della qualità, eppure questi tizi riusciranno a produrre comunque qualcosa di interessante.
Senza il genio folle di Barrett i Floyd rischiano seriamente di diventare una copia edulcorata di Arthur Brown o dei The Move, ma si salvano grazie ad una serie di scelte dettate dal caso e dal cinismo di Waters.
Gilmour arriva per rattoppare i vuoti lasciati da Syd e porta un sound nella chitarra che pian piano verrà fuori e resterà nell’immaginario collettivo fino ad oggi. Una tecnica pulita, un suono sempre riconoscibile. Peccato che non valga un laccio di Barrett in quanto composizione, non è un caso se con l’insuccesso di Point Me at the Sky Waters deciderà conclusa l’esperienza dei singoli (sapendo bene di non poter più contare sulle idee geniali ma appetibili commercialmente di Barrett) e si concentrerà sugli album e sul donare un sound ben preciso alla band. Il suo.
Nel ’68 ci riprovano con il cinema, scrivendo qualche pezzo mediocre per il tragico “The Committee”, una merda allucinante del prode Peter Sykes, conosciuto dagli studenti del DAMS e dai nerd per aver dato vita al mitico serial “The Avengers”, un divertente serial inglese che seguiva la moda cinematografica del momento delle spy-story e si basava sui feuilleton a tinte poliziesche e pieni di figa.
Dopo questa indecente prova si rifaranno con “A Saucerful of Secrets”.
Il disco è una pietra miliare della band, un po’ meno del rock. Perché dico questo? Waters prende le redini della band e la trasporta verso dei lidi pericolosi, dalla psichedelia di stampo garage si passa al prog inglese, ma sopratutto mette giù le basi per un sound talmente particolare da essere unico.
Se da una parte il sound inimitabile dei Floyd è una caratteristica che esalta i fan, dall’altra rende inattaccabili i suoi detrattori, i quali quelle sonorità proprio non riescono a mandarle giù. Forse il problema dei Pink Floyd di Roger Waters è quel lavoro da equilibrista che non porterà mai la band alla sperimentazione estrema come invece poteva sembrare con “A Saucerful of Secrets” e con “Ummagumma” dell’anno successivo, e neanche ad un tentativo di fare genere (tranne che per il caso “The Wall”).
Quindi sebbene Saucerful non sia una pietra miliare del rock (per quanto riguarda la composizione e la portata innovativa – che è di fatto nulla) è un disco abbastanza della Madonna. Bisogna chiaramente apprezzare il sound della band, ma questo vale per tutti i gruppi con un sound così “personale”, unito al fatto di avere a cuore il prog.
Saucerful è dannatamente prog, un prog che si muove in termini quasi mai seri o puramente tecnici, ci sono molti rimandi ancora alla psichedelia americana, e Barrett incombe sulla band come un fantasma che li tiene tutti per le palle (Jugband Blues). Per quanto mi piaccia questo album alla lunga stanca, spesso le idee buone vengono ripetute fino alla nausea, ma alcuni spunti sono indimenticabili.
L’atmosfera generale dell’album si percepisce da due tracce potenti e epiche sotto molti aspetti: Let There Be More Light e Set the control for the Heart of the Sun. Riff ripetuti all’infinito aleggiano nell’aria e scandiscono il tempo come in un rituale sacro, nel mezzo un mucchio di idee non sempre attinenti, ma ben costruite e sopratutto ben realizzate dal punto di vista dell’ingegneria del suono.
Ed ecco quindi comparire fin da subito un altro caposaldo che caratterizzerà la band in tutti i suoi album successivi, e in particolar modo da “Atom Heart Mother” in poi, ovvero la cura maniacale del suono dal punto di vista prettamente ingegneristico. Una carta che i Floyd sapranno giocare bene sempre dal 1970 in poi.
Detto questo Saucerful è stato molto rivalutato recentemente come album, forse anche troppo, in particolare considerando il brio del primo album, qui del tutto sparito.
Nel ’69 Barrett si ripresenta con l’uscita del singolo Octopus/Golden Hair, un prologo di quel che sarà “The Madcap Laughs”, il suo primo album solista del 1970.
Di “The Madcap Laughs” ci sarebbe molto da dire, ma se mi prolungassi per ogni album sarebbe un post ancora più tremendo di quanto già è. Delle sessioni di registrazione di questo incredibile disco si è parlato fin troppo, tanti ancora però non ascoltano con attenzione questo lavoro, come anche il successivo “Barrett” uscito qualche mese dopo (e con qualche acciacco in più).
Dalle leggende che lessi su quelle sessioni notai perlopiù due cose: la fragile e inconsistente personalità di Gilmour, quasi intimorito da Barrett, e la totale follia di Wyatt nel vedere in Barrett qualcosa che in realtà non c’era già più.
Il disco è ovviamente geniale, ben diverso dalle sonorità di Piper, maturato non direi, piuttosto Barrett si è dato ad altro continuando a sfornare singoli straordinari per ecletticità e commerciabilità (Terrapin, Love You, Here I Go, Octopus, Long Gone, She Took A Long Cold Look). Quello che si evince accostando il Barrett del dopo-Piper e il resto dei Floyd è che sebbene nella totale pazzia che stava divorando Syd in quegli anni era lui quello ad avere le idee chiare, al contrario del resto della band, la quale era alla disperata ricerca di singoli “alla Barrett”. Sarà la progressiva presa di posizione di Waters a salvare i Pink Floyd da un lento ma chiarissimo declino (almeno per i critici e per gli ascoltatori dell’epoca). Per lui sarà facile superare la passività di Gilmour, la timidezza di Wright e l’indifferenza di Mason per poter imporre la sua idea su cosa dovessero essere i Pink Floyd.
Le sonorità di Madcap derivano da tutto quello che Barrett ascoltava, dai Nice ai Soft Machine, ma sintetizzato dalla sua personalissima visione. Wyatt vedeva in Barrett un genio avveniristico, cosa che Barrett è stato finché la droga non gli ha bruciato il cervello. Ora era solo un genio sregolato, ma che da solo, senza cioè l’aiuto di altri musicisti e di amici, non avrebbe potuto fare molto.
“Barrett” è l’ennesima (e ultima) prova di quanto detto: un genio unico, un fenomeno irripetibile, ma la sua portata è stata irrimediabilmente bruciata da una emotività prepotente che lo rese troppo fragile per questo mondo.
Lontano dalla pochezza della critica sociale di Waters (nulla in confronto ad altri musicisti coevi del bassista dei Pink Floyd), Barrett viveva in un mondo tutto suo, magnifico e terribile, fantasioso quanto tragicamente reale.
Quando a Lucca, al Summer Festival del 2006, Waters (per l’occasione accompagnato anche da Mason, me lo ricordo bene dato che c’ero anche io) dedicò la prima parte del concerto a Barrett deceduto il giorno prima, avevo sedici anni, e per quando idiota già lo fossi sapevo comunque bene che Barrett non avrebbe mai potuto fare altro ormai, dato il suo stato mentale e fisico, eppure mi sentì molto triste. Mi resi conto che un’epoca intera era stata spazzata via, e che quel concerto altro non era che un rituale pagano per ricordare quello che fu, come più o meno tutti i concerti dei sopravvissuti a quegli anni di sesso, droga e non sempre rock and roll.
[per la seconda parte clicca qui]
White Fence – Cyclops Reap
Prenoto “Cyclops Reap” del buon White Fence più o meno una settimana fa. Sentivo il bisogno di un po’ di sana psichedelia.
L’Università occupa da qualche giorno qual gran salone vuoto del mio cranio, e fa un casino della Madonna. Cazzo, mi sono sparato a mille “Slaughterhouse” di Segall perlomeno cento volte, ma niente gesùd’amoreacceso, il cervello è impappinato alla grande.
Mi dicevo: devi scrivere una sudicia recensione, hai un blog per quello, non puoi lasciarlo marcire e baggianate varie. Così mi sono messo ad ascoltare un sacco di roba a rotazione, ma niente di cui valesse la pena parlare.
L’altro ieri sono sceso in garage alla ricerca di qualche disco o musicassetta dimenticata, ho tirato fuori dall’oblio certa merda che nemmeno vi sognate: dagli Incubus ai Red Hot è uscito di tutto, tutta quella roba che per un motivo o per un altro in camera mia non ci entra nemmeno se butto giù tutte e quattro le pareti.
Più cercavo di concentrarmi più vagavo senza meta.
Ieri sono uscito per andare in fumetteria, una cosa che non facevo da almeno due anni (e ho la fumetteria sotto casa!). Ritornare in quel posto speravo mi sconquassasse un po’, desideravo una sorta di reminiscenza cosmica, ricordarmi di quando ero quattordicenne e coglione, e invece niente, assolutamente niente.
Per entrare nella fumetteria devi prima passare dal benzinaio di fronte, dove lavora il proprietario. Uno scambio veloce di gesti esplicativi e ci capiamo subito, prende le chiavi e mi apre. La fumetteria è piccola, appena sei dentro vieni disorientato da mille colori acidi, l’odore della carta si mischia a quello della benzina, le luci si rifletto sulla plastica protettiva che ti divide dai numeri più costosi e rari.
Ci passavo le giornate in quel posto e ragazzi, sebbene sia davvero un buco, nessuno mi notava più di tanto. Conoscevo a memoria la disposizione dei fumetti in tutti gli scaffali, le loro copertine, gli autori, i prezzi. Lì comprai la prima edizione originale di Watchmen (la prima in volume, vorrei sottolineare), mi costò parecchio potete scommetterci, e oggi non so se rifarei mai una cazzata simile.
Compro il secondo numero de “L’Immortale” di Hiroaki Samura per un’amica e chiacchiero un po’ col tipo della fumetteria. Quello mi racconta un po’ di quanta merda sta collezionando ora che le leggi per le fumetterie stanno cambiando radicalmente. Sapete che adesso nell’arco di un anno devi avere venduto più di quanto hai comprato se no ti chiudono baracca e burattini? Praticamente chi cazzeggia col fumetto adesso si ritrova come il mio amico fumettaro sotto casa, che ha dovuto distruggere un sacco di begli albi e firmare una serie di documenti che lo confermavano a norma di legge per non chiudere. Bella merda.
Tornato a casa trovo White Fence ad aspettarmi.
È arrivato, ma non so se ho tanta voglia di ascoltarlo.
Lo metto sù tanto per fare qualcosa e mi butto sul letto.
Cyclops parte, ed io intanto me ne sono già andato. Non riesco davvero a concentrarmi in questi giorni, così la prima traccia, Chairs in the Dark se ne va senza che io possa dirgli addio.
Cerco di immaginarmi Fence davanti a me, seduto sulla mia sedia a dondolo che strimpella i suoi pezzi, uno dietro l’altro.
Sento l’odore dell’estete, il mare fermo come un lago e il sole che lascia solo afosi ricordi all’orizzonte. Batte i piedi sulla sabbia Fence, tiene a mala pena il tempo mentre latra come il più stanco dei Syd Barrett.
Appena parte Pink Gorilla perdo il senso del tempo e mi ritrovo in una discoteca vuota, i neon mi illuminano la camicia di un schifoso rosa che non sa davvero di nulla. Fence è ancora lì, stavolta con la sua band (dei coniglietti rosa che suonano palesemente svogliati), appena finisce questa serie di accordi molto The 13th Floor Elevators ritorno in spiaggia.
Un vento leggero si alza, diventa tutto in bianco e nero, finché a metà di White Cat tutto torna odiosamente a colori.
Mi alzo dal letto solo per finire per terra, Fence come un menestrello sotto anfetamine, saltella attorno a me stonando l’impossibile.
Il volume sale e scende, la velocità sembra rallentare per poi riprendere a correre, il disco sembra fermarsi di colpo, la puntina sembra piegarsi ma Fence la riprende per un pelo e tutto scorre come prima.
Sono in mezzo ad una strada, mi fulminasse Beefheart se non è quella di “Help!”, il film dei Beatles che ho rivisto qualche notte insonne fa. Fence però non fa il cazzone come quei quattro scarafaggi, lui se ne sta seduto in mezzo alla strada che suona Only Man Alive, una palla massacrante, ma quando se ne va?
Su Run by the Same mia madre bussa alla porta di camera mia << devi buttare l’immondizia >> mi dice, o così ho capito, le rispondo che finisco di sentire quest’ultima traccia e vado.
Le chitarre si mescolano, Dylan, Donovan e Barrett stanno suonando tutti assieme, ma che ci fanno ancora qui? Non mi sembra abbiano nulla di nuovo da dire. Ora basta: prendetevi Fence che se ne sta lì steso a terra, non lo posso vedere in questo stato! Ecco, andatevene, ho un sacco di cose da fare qua…
Se solo trovassi la giusta concentrazione…
- Pro: psichedelico, senza dubbio.
- Contro: noioso e già sentito.
- Pezzo Consigliato: Pink Gorilla per svegliarsi, To the Boy I Jumped in the Hemlock Alley per farsi un bel viaggio.
- Voto: 5/10
The Move – Move
Negli anni ’60 sono venute sù così tante band che oggi è davvero difficile fare il punto della situazione.
Un genere particolarmente sfigato è il progressive, oggi noto perlopiù grazie ai gruppi più influenti. Si và dalla musica complessa e consapevole dei Weather Report ai barocchismi degli Yes alla genialità di Peter Gabriel con i Genesis. Purtroppo molte band che furono come un ponte ideale per il prog e i suoi sviluppi vengono tutt’ora ignorate. Tempo fa parlai dei Rare Bird, band eclettica che decise di andare avanti con un hammond, due tastiere, una batteria, un basso e nemmeno mezza chitarra, tirando fuori dal cappello un disco eccezionale nel 1970 come “As Your Mind Flies By”. Oggi invece ci concentreremo su una band molto diversa.
Le influenze che portarono il prog a diventare un genere ben (insomma) definito sono state tantissime, e non tutte d’accordo con loro! Si va dalla psichedelia nel garage rock a John Cage e alle tecniche stocastiche, fino a Anthony Braxton e magari qualcosa dalla musica di fine ottocento.
Comunque nella maggior parte erano band che nascevano sulla scia dei deliranti anni ’50-’60, ragazzi che vedevano nella strumentazione elettrica una via di scampo e un simbolo della lotta contro al generazione precedente, la loro emancipazione, la loro libertà.
Alcuni di essi a forza di sperimentare iniziarono ad interessarsi ai generi suddetti, cominciarono ad affinare la loro tecnica, e sempre in quegli anni iniziarono i primi bisticci tra le band.
Il successo incredibile degli Who portò in quel di Londra una lotta musicale senza paragoni. Ogni quartiere si sentiva in dovere di rispondere, ma la guerra dei mod era una vera e propria guerra a suon di chitarra e batteria!
Tra le band più rappresentative ci sono certamente gli Small Faces, ma è ingiusto che il tempo si sia lasciato dietro una band eclettica come i The Move.
I The Move nascono proprio come risposta a questa situazione musicale, una risposta di tutto punto che racchiudeva in sé alcuni dei maggiori talenti della Londra dell’epoca. Roy Wood fu il filo conduttore della band, dai The Nightriders ai Move fino ai Electric Light Orchestra: la sua sarà una carriera in decisa ascesa, potremmo dunque definire i Move come il momento di passaggio per Wood dall’anonimato alla fama.
Cosa c’è nei The Move che possa far presagire al salto con gli ELO?
Tante cose, anche se al contrario degli ELO i The Move erano un progetto in continuo movimento (come si intuisce dal nome della band), si ispirarono ai Beatles come ai Faces, ai Byrd e ai Creem, e tentarono molto presto, cioè già al secondo disco, di appoggiare appieno il movimento prog inglese.
Nel 1970 con “Shazam”, e nel 1971 con “Looking On” riuscirono a ritagliarsi un posto importante in quella difficile Londra, mischiando pop basilare al prog e a qualche timida sperimentazione.
A mio modestissimo avviso il lavoro più interessante è il primo disco, omonimo ovviamente, del 1968, il quale racchiudeva le esperienze della band dal ’65 fino a quel momento. Fu una band molto vivace politicamente, niente a che vedere con i feroci MC5, ma ricevettero denunce e censure di ogni genere. I loro testi andavano da gente chiusa in cliniche per l’infermità mentale ad attacchi a noti politici, alcuni dei loro pezzi degli ultimi ’60 hanno ritrovato la luce solo negli anni ’90!
“Move” è un disco pop, con tinte prog, decise virate psichedeliche e qualche tentativo sperimentale (davvero accennato e ingenuo). Con le dritte di Dennis Cordell e della Regal Records Zonophone questa band sembrava pronta per sbancare ovunque.
La Regal fu tra le etichette che unite si trasformarono nella EMI, e gran parte del suo valore lo deve proprio alle orecchie di Cordell, produttore di successi mondiali come “A Whiter Shade Of Pale” (1967) dei Procol Harum e il glorioso “With a Little Help from My Friends” (1969) di Joe Cocker.
Sì, ok, mi sono un po’ perso in seghe mentali come al solito.
Il disco si apre con Yellow Rainbow, da Barrett ai Beatles per i Move c’è un passo, certamente a livello compositivo non hanno niente da invidiare ai secondi, magari peccano un po’ di creatività.
Segue bene Kilroy Was Here (Wood è un trascinatore nato), conferma la psichedelica vena creativa anche (Here We Go Round) The Lemon Tree con una una ingenua sezione d’archi che fa sorridere senza infastidire.
Molto garage la Weekend di Bill and Doree Post, molto Beatles Walk Upon The Waters.
Flowers In The Rain è una di quelle cose per cui ringrazi gli anni ’60. Spensieratezza derivata da un uso poco ragionevole di acidi, con quegli effetti sonori che sarebbero quasi ad un livello narrativo (è presente un effetto temporale). Ricordo che anche Le Orme, nel loro primo disco, nel singolo Oggi Verrà utilizzarono un effetto simile (un po’ più scrauso magari) ma senza donargli questa piccola, timida, valenza narrativa. È comunque un punto a favore per i The Move.
Hey Grandma spinge sul rock, e non possiamo che apprezzare. Il disco fin qui non annoia mai, nessun capolavoro, ma buona e sana musica popular.
Useless Information è un riempitivo semplice senza motivo di esistere. Più divertente e filo-zappiana Zing Went the Strings of my Heart, una nota di colore decisa nell’album.
Daje cogli archi con The Girl Outside, un sound molto italian style, ma non c’è da sorprenderci. I Move hanno avuto un breve ma intenso momento di popolarità in Italia, grazie al singolo Blackberry Way (ideato assieme all’Equipe 84, in Italia è conosciuta come Tutta Mia La Città), addirittura nel ’71 i The Move canteranno in Italiano con Something nel loro disco”Looking On”.
Fire Brigate è simpatica, ma nulla più. Mist on a Monday Morning fa molto primo prog, con l’idea del suono del clavicembalo e gli archi e Wood che canta come un vero lord inglese. Gustoso.
Chiude una versione un po’ infima di Cherry Blossom Clinic, certamente il loro capolavoro, ma in questo singolo c’è solo la potenza di quello che poi sarà atto nell’album successivo, ovvero “Shazam”, dove troneggia senza dubbio una Cherry Blossom Clinic Revisited di ottima fattura, psichedelica e prog oltre modo, uno dei miei pezzi preferiti del ’70 per follia e goliardia.
Insomma, “Move” dei The Move non ha cambiato le nostre vite alla fine di questo ascolto, ma non ci ha nemmeno fatto pentire dei soldi spesi.
- Pro: un disco da custodire come documento storico, in “Move” potete sentire tutte le influenze che definirono alle orecchie della gente generi come il garage, il prog, la musica psichedelica e il pop raffinato degli ELO.
- Contro: pochissimo, le ingenuità in questo caso sono un valore aggiunto per me!
- Pezzo Consigliato: non è di questo disco, ma Cherry Blossom Clinic Revisited è davvero un gioiello perduto dei ’70. Godetevelo.
- Voto: 6,5/10
The White Stripes – The White Stripes
[AGGIORNAMENTO ALLUCINANTE: in un momento di noia ho recensito l’intera discografia di Jack White, la quale contiene una versione aggiornata di questo post, se volete farvi un giro non avete che da cliccare QUI.]
Il primo disco è sempre il migliore. A volte il secondo, e a volte persino il terzo, ma dal quarto in poi sono casi davvero rarissimi. A questa statistica non si sottraggono nemmeno i White Stripes di Jack e Meg White, due nomi (d’arte) che hanno attirato attorno a sé una montagna di gossip di cui, sinceramente, non ce ne frega una benamata mazza.
Appena una band diventa famosa parte a bomba la divinizzazione della stessa, con la conseguente “fame” di gossip: di che si fa Jack White? Ma Meg se la scopa? Perché chiamarsi Jack White se poi non fai una band con Jack Black? E via discorrendo.
Peccato che la musica non c’entri un bel niente con queste idiozie. C’è da dire che è nato a Denver, il che è fondamentale per comprendere i vari perché della sua musica. White è un bianco che si sposa con il blues dei neri mischiandolo con una buona dose di garage-rock, cresciuto nella città dove poteva meglio conoscere i classici dei due generi.
Le sue prime uscite come musicista non sono certo formidabili, ma pian piano Jack inizia a trovare uno stile tutto suo, già percepibile in “Makers Of High Grade Suites“, tre pezzi registrati assieme a uno dei fratelli Muldoon dei The Muldoons, usciti soltanto nel 2000.
Probabilmente “Makers Of High Grade Suites” è il lavoro che segnerà in maniera indelebile il sound della chitarra di White nei White Stripes, suono che perderà progressivamente con i The Raconteurs, e poi con i Dead Weather (dove spesso suonava la batteria) e infine nel suo ultimo lavoro da solista, “Blunderbuss“ (2012), dove riecheggia qualcosa del suo retaggio garage in Sixteen Saltines, anche se l’esecuzione è una delle più anonime del focoso chitarrista.
La voglia di spaccare i culi, comunque, sembra ormai persa. Intuibile forse già ai tempi di un suo flirt poco conosciuto con Beck in “Guero” (2005) dove suona il basso in Go It Alone con fare tragicamente blues sulla solita verve noise-intellettuale del bravo Beck. La sua attenzione per una musica meno intuitiva del garage trova la sua totale definizione in un progetto assieme a Alison Mosshart, l’eclettica cantante dei The Kills.
I Dead Weather sono stati un po’ la negazione di un percorso fin lì fatto da White. Non c’è una reale evoluzione in “Horehound” (2009) e in “Sea Of Cowards” (2010), al massimo una unione di intenti nel far convergere il sound dei Kills, dei Queens Of The Stone Age, dei The Raconteurs e dei White Stripes. Il solito super-gruppo insomma, un primo disco interessante (perché propone suoni interessanti) e un secondo noiosissimo (perché li ripropone spudoratamente).
Il dramma di White è quello di non aver trovato una valvola di sfogo ideale per la sua straordinaria creatività dopo l’esperienza degli Stripes. In generale trovo che il suo meglio lo dia proprio in quel garage-rock con tinte blues che caratterizzano i suoi lavori iniziali, piuttosto che in questa sua veste moderna di vate del rock and roll in tinta twist, che sebbene produca dei bei pezzi non hanno nemmeno l’ombra dell’energia e della potenza di dischi come “De Stijl” (2000) e “White Blood Cells” (2001).
Poi ci sono i premi, le collaborazioni, i film (abbastanza divertente il corto dove Meg e Jack interpretano se stessi) e tantissima altra roba, però per la lista della spesa esistono le biografie.
Una di cosa di cui invece proprio non mi capacito è lo schieramento netto che si è creato contro il primo disco degli Stripes (che spesso si allarga ai primi tre). Ho letto addirittura che “White Blood Cells” sarebbe un disco studiato a tavolino perché è il terzo disco di una serie di album tutti uguali (che è una spiegazione del cavolo, a questo punto gente come Zorn, Segall e Zappa vanno a farsi friggere).
Il primo disco degli Stripes risente ancora tantissimo dell’esperienza con “Makers Of High Grade Suites”, è sopratutto garage, e di certo non è così banale come lo vogliono far passare. Inoltre parlare di banale nel garage è qualcosa di talmente idiota che è difficile da categorizzare. Dai The Castaways ai The Datsuns sono cambiati gli strumenti, sono migliorate le sale di registrazione, ci sono state tantissime influenze che hanno cambiato il sound tipico di questo genere, e il garage nei primi del 2000 ad un certo punto divenne un’accozzaglia di cose spesso difficilmente definibili (con questo non voglio certo dire che è tutta merda, diosanto! Cioè, quanto amo io “Electric Sweat” dei The Mooney Suzuki pochi al mondo!).
Quello che hanno fatto gli Stripes è stato portare indietro le lancette, riportare il garage ad essere diretto, sincero e ingenuo, quando ancora i metri di paragone erano Son House e gli Stooges. Se poi prendiamo in esame proprio questi anni c’è nel garage un ritorno alle origini pazzesco, si ruba ai MC5 ma anche al primo garage di origine psichedelica, si riprendono i Rats, si riprende Kim Fowley, si riprende anche gente fuori dagli schemi come Syd Barrett!
I primi tre dischi, sputtanati dalla critica italiana, hanno anticipato di almeno cinque-sette anni questa tendenza. Ty Segall, oggi, lo dimostra abbastanza bene.
Detto questo il garage degli Stripes si esaurirà ad una velocità sorprendente, e il minimalismo voluto da Jack White verrà ripreso solo in parte, anche se credo sia una delle cose più belle mai fatte nel garage, perché unica nella sua semplicità. Alla faccia dei detrattori.
Il disco è prodotto dalla Sympathy for the Record Industry, una delle più gloriose etichette americane, che annovera talenti del calibro dei Bad Religion, dei Suicide, i Von Bondies (con i quali White ha avuto un forte diverbio tempo fa), i New York Dolls e addirittura i The Gun Club. Non male!
L’album è decisamente eterogeneo nel sound, la chitarra troneggia con riff minimali, nessuna distorsione barocca, niente assoli da undici minuti, zero virtuosismo, siamo proprio tornati alle basi, solo energia.
Jimmy The Exploder è questo ed altro. Il punto di forza di White è certamente la facilità con cui introduce riff su riff. Il ragazzo non si prodiga in copia-incolla, è piuttosto ispirato, semmai.
Consideriamo un attimo la questione della batteria di Meg. Non è Meg che suona male, Meg suona semplicemente da cani, ma è questo quello che sa fare, ed è questo quello che Jack vuole da lei. White non fa la sua musica e poi ci mette Meg, ma costruisce i pezzi partendo proprio dai suoi ritmi da “scimmione” (definizione sua, mi astengo da giudizi estetici), in pratica utilizza i ritmi di questa batteria minimale per non uscire fuori dagli schemi, si pone un auto-limite antro il quale fare esplodere la sua creatività.
Poco originale?
Va bene…
Il disco scorre giù veloce e assassino, Stop Breaking Down, del grande Robert Johnson, è un pezzo forte, rapido e minimalista, ma in potenza anche lento e barocco, The Big Three Killed My Baby è uno dei singoli con più forza degli ultimi anni del garage, Suzy Lee viaggia sulle corde del blues e del garage come in Sugar Never Tasted So Good.
Bellissime Cannon e Astro, un paio di accordi, potenza e quella vocina straziante di Jack che urla al microfono.
I pezzi sono tutti i ottima fattura, come anche la cover di Dylan (One More Cup Of Coffee) e l’ennesima versione del classico blues St. James Infirmary, che, udite udite, trova in questo disco degli Stripes la sua consacrazione, almeno per me (mi fa tremare le budella, che ci posso fare?).
Il disco si chiude con la luciferina I Fought Piranhas, bellissima prova di slide e potenza.
C’è poco da dire su questo disco, ma molto da ascoltare.
Magari stavolta con un po’ più di umiltà.
- Pro: garage non purissimo, un ritorno alle origini del genere nelle sue venature più blues.
- Contro: troppo leggero. Sebbene ci siano delle sferzate anche importanti, pezzi come When I Hear My Name sono potenzialmente delle bombe, ed invece sembra che White preferisca la versione light.
- Pezzo Consigliato: amo Astro. Lo so che ho qualcosa di sbagliato dentro, ma sono fatto così!
- Voto: 7/10
[approfitto degli Stripes per informarvi che ho un nuovo blog (ancora???) di recensioni cinematografiche, Alla Ricerca Del Bellerofonte]