I miei lettori lo sanno già, ma lo ripeto per chi è capitato qua mentre cercava il nuovo casting couch (sì Tristram, parlo con te): odio scrivere queste recensioni brevi. Per carità delle volte sono utili, sopratutto per le band che ritengo di merda o semplicemente discrete (e infatti nei primi tempi era così), ma ora le uso anche per quando ho poco tempo. Cioè sempre.
Una terribile disgrazia (per il mio ego, voi ci guadagnate), pensando che solo di recente ho relegato a pochissime righe quel fottuto capolavoro di “Forgetter Blues” dei The Molochs, e stavolta tocca ai poveri Feels e ai divertenti Guantanamo Baywatch, che qualche riga in più se la meritavano.
Vorrei davvero potervi fornire un servizio migliore, ma il mondo reale è sempre pronto a romperti i coglioni, per cui stavolta non sono quattro ma bensì CINQUE mini-recensioni, con una bonus che arriverà giusto giusto per rovinarvi il Natale.
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Future Holotape – Analog Renegades (2014)
Il venti Dicembre è una data importante per la storia dei videogiochi. Ventidue anni fa questo stesso giorno, Streets of Rage 2 della SEGA sconvolse il mondo occidentale.
È più o meno questo l’incipit di una folle raccolta della 30th Floor Records, improbabile etichetta inglese con una certa passione per i synth e gli anni ’80, quelli dei 16 bit e degli ectoplasmi verdi.
In questa raccolta (denominata “Synths of Rage”!) i principali artisti della label si prodigano in cover sintetizzate delle gloriose colonne sonore che accompagnarono i primi tre Streets of Rage, un’esperienza tra l’estatico (per chi ci ha giocato e l’ha amato) e la noia più totale (per tutti gli altri). Tra le band chiamate in causa ci sono questi Future Holotape, un duo californiano che dal look sembrano spuntati fuori dritto dritto da Grosso guaio a Chinatown, si ispirano dichiaratamente alle colonne sonore dei videogiochi e… penso basta?
Oltre ad una papabile colonna sonora per il potenziale capolavoro Kung Fury (film che dovrebbe uscire nel 2015), non vedo altra utilità pratica per questo “Analog Renegades”. Certo, è affascinante, a tratti divertente, è praticamente un film trash-fantascientifico made in eighties, però è tutta roba già sentita e risentita, senza mai nemmeno un mezzo tentativo di darci qualcosa in più. Insomma, a che serve questa ricerca estetica? Qual’è la chiave di lettura?
Se è un prodotto con poche pretese, è comunque mediocre, se invece ne ha non si capiscono bene quali siano.
Questa retro-mania che sta invadendo il mondo civilizzato ha sicuramente prodotto degli esperimenti interessanti, ma direi che i Future Holotape ora come ora siano solo una curiosità, e nulla più.
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The Feels – The German Club. Mystic, CT 06/27/2014 (2014)
Da non scambiare assolutamente con gli omonimi The Feels di New York, merdosissima band post-punk-pop che ha reso un grande servizio alla musica di merda con “Dead Skin” uscito anch’esso quest’anno. Foo Fighters e compagni di merenda ringraziano.
Questi The Feels invece vengono dal Connecticut, sono cinque ragazzi di belle speranze specializzati in jam session di una certa potenza evocativa, mischiando quanto sanno di jazz, rock e funk. L’anno scorso rimasi affascinato dalle semplici variazioni di “Fields”, il loro primo EP, così ingenuo e innocente che, ovviamente, non l’ho recensito. Ogni anno ormai salterò circa trenta o quaranta recensioni, porcobertoncelli.
Comunque sia, dalle dolci note di Recriminations e dal suono caldo del sax in Pizza Man, ecco i nostri cinque eroi tornare a solcare i palcoscenici con una live tra le più sorprendenti dell’anno e con un sound rinnovato e energico.
Si va da Zorn al jazz di strada, c’è posto pure per l’irraggiungibile Sun Ra, in effetti c’è un po’ di tutto nelle folli 12 tracce che compongono questa live al The German Club, un locale di Mystic, la loro città. Sebbene le molteplici influenze il risultato è straordinariamente compatto e coerente, per nulla confuso o cerebrale.
L’attacco di Jam > e della successiva Blegh! ti fanno scuotere il fondoschiena, la loro voglia di musica privilegia la stessa e non l’onanismo dei musicisti, dei pezzi che seguono come Glass Museum vorrei poter dire di più, ma sono tremendamente ignorante quando si parla di jazz e preferisco lasciare che la loro musica parli da sé.
Trovo fantastica la citazione pop di Keyboard Cat Jam >, una roba che Piero Bittolo Bon secondo me dovrebbe prendere in considerazione per i suoi Jümp The Shark.
Un album che non vi consiglierà NESSUNO, ma che vale la pena per almeno un ascolto. Lo potete trovare gratuito su Bandcamp, un ottimo modo per passare un po’ di tempo in pace e divertire un pizzico il cervello.
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Barrettiana band della Castle Face Records dei Thee Oh Sees, ed in effetti questi Burnt Ones hanno dei palesi rimandi alla band di John Dwyer, anche se non sono di certo riconducibili alla sezione ritmica.
Se la batteria raddoppiata di Shoun e Finberg assieme alle folli cavalcate al basso di Petey Dammit erano il fulcro del garage rock dei Thee Oh Sees (capito Dwyer?), nei Burnt Ones non c’è un vero protagonista, il suono è impastato, quasi trasognato.
Un simpatico divertissement intorno al garage californiano e a Syd Barrett, quest’ultimo presente sopratutto nelle nenie psichedeliche (come Money Man e Bye Bye Floating Charm), ogni tanto sovvengono degli interventi elettronici e il ritmo cerca di essere più trascinante (Spell Breakers), la il mood rimane sempre sommesso. Non mancano momenti di puro imbarazzo, come in Caterpillar, in cui psichedelia, videogioco e gospel si uniscono all’unico scopo di non farci capire un cazzo.
Non c’è un pezzo che spicca fra gli altri, sono tutti discreti, ma dopo un solo ascolto sono quasi certo che finiscano dritti dritti in un cassetto, pronti per prendere la polvere per molto, molto tempo.
Ennesima con un bel sound ma nessuna idea.
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Craig Chambers, Mattew Ford, Min Yee e Erin Sulivan, ovvero tre quarti dei geniali Dreamsalon, quelli di “Soft Tab”, l’album che ho recensito e ho lodato sperticatamente e che voi dovete ancora comprare. Stronzi.
Poco prima di esordire con il garage psichedelico di “Thirteen Nights” (2013) ecco i primi schizzi di quello che sarà “Soft Tab”, ovvero l’album che sto riascoltando di più da qualche tempo a questa parte.
Già in Wipe & Face si percepiscono gli influssi post punk, mentre in Shimmer Street il garage del primo album, ed è forse la cosa più affascinate dell’album questa costante dicotomia tra le due anime, quella psych garage e quella post punk.
Un album che, in sé, è interessante ma non trascinante, una curiosità per capire da dove arrivano tutte quelle idee che compongono il mosaico perfetto di “Soft Tab”.
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Guantanamo Baywatch – Chest Crawl (2012)
Questo trio dall’Oregon sono tra le esperienze live più cataclismatiche degli ultimi cinque anni di garage rock. Un incontro incestuoso tra Cramps e Dick Dale, l’unico problema per i Guantanamo Baywatch è che questo “Chest Crawl” rende forse la metà della loro potenza dal vivo.
Deprecabili, osceni, sfacciati, con un cantante-chitarrista tra l’imbarazzante e l’ignobile, è praticamente impossibile non amarli. Fanculo le recensioni d’oltreoceano che gli danno degli striminziti 6, questi almeno un 7 se lo pigliano senza troppi perché, mi viene in mente l’acida Sad Over You che dal vivo è una perversione surf punk di incredibile efficacia, da sola per quanto mi riguarda vale il prezzo (basso) dell’album.
Momenti strumentali surf davvero fuori di testa, liriche demenziali e tanta voglia di sballarsi. L’unica cosa che potrebbe rovinare completamente la band è che imparino a suonare. Speriamo non gli accada mai.
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