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Jack White – la discografia (parte prima)

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Tra i musicisti più conosciuti e apprezzati al mondo, John Anthony Gillis (aka Jack White III) ci piace perché oltre tutte quelle puttanate da marketing spicciolo (vestirsi di bianco rosso e nero indossando una chitarra bianca rossa e nera su un palco bianco rosso e nero e ora vomito) è un tipo vero, autentico, che aveva qualcosa da dire.

Sia chiaro fin da subito che se volete sapere vita, morte e resurrezioni varie di questo chitarrista di Detroit vi comprate una biografia o vi spulciate Wikipedia. Delle note biografiche a me frega un cazzo. Bene.

1990-1999: I PRIMI RUMORI

Tra il 1990 e il 2000 Jack White comincia a dimenarsi tra diverse band tutte inerenti il suo principale interesse: il garage rock. Sebbene le note e più volte ribadite dallo stesso origini da puro bluesman, non c’è mai stata una band in cui White non producesse del dannato rumore con chitarre di seconda mano e registrazioni malandate, puro garage rock d’antan. Mischiando quel buon vecchio blues allo scalmanato garage delle giovani band di Detroit in cui suonava, comincia a sviluppare le sue caratteristiche come chitarrista, riff semplici ma efficaci, strutture basilari quando non banali, volume altissimo e un’energia da paura.

Tra Goober & the Peas, The Go, Two-Star Tabernacle e The Upholsterers Jack White comincia a farsi le ossa, intanto tutti gli input che band come The Dirtbombs stavano distribuendo a giro con i loro graffianti album vengono ben accolti nella città degli MC5 e degli Stooges

Tra tutte queste esperienze nel 1997 comincia anche quella dei The White Stripes. Come tutte le cose notevoli nel rock si comincia per gioco, Meg alla batteria si limita a tenere un ritmo mentre Jack può ricamarci sù con tutta la sua creatività. Non c’è alcun dubbio su chi sia la mente della band, ma sopratutto non c’è dubbio su quali siano i meriti di Jack White e cosa abbia portato al rock. Tecnicamente niente, ma la sua mente ha creato alcuni dei riff più potenti e sorprendenti degli anni ’10 del 2000. 

Sebbene il progetto in duo The Upholsterers (unico album pubblicato: “Makers Of High Grade Suites”, 2000)  sia la più famosa delle collaborazioni di White prima dei White Stripes, anche grazie alla citazione contenuta in “It Might Get Loud” il documentario di Davis Guggenheim del 2008, con tanto di storiella sul suo lavoro di tappezziere e menate varie, certamente la band più importante per il suo sviluppo sono stati i Two-Star Tabernacle in compagnia di Dan John Miller dei Blanche (band dove al banjo militava un certo Jack Laurence). Un po’ country, un po’ blues e un po’ garage, ma soprattutto tante idee buttate qua e là dal nostro raccolti in due bootleg: “Live At Gold Dollar Set List” (1998) e “Live At Paychecks Set List” (1999).

Se nei The Upholsterers c’era molto del sound degli Stripes nei Two-Star Tabernacle ci sono le prime idee: Hotel Yorba, Now Mary e Who’s To Say (scritta in collaborazione con Dan John Miller) sono tre indistinte perle che prospettano solo in parte l’esplosione del genio creativo. C’è già il rumore, la distorsione, l’unica è la batteria non ancora minimale anche se il twist di Damian Lang che di solito si scatena nei suoi Detroit Cobra è qui del tutto asservito alle grette ritmiche garage.

Un po’ di Son House, un po’ di Oblivians e un pizzico di Captain Beefheart, dopo una serie di b-sides che verrano ripescati solamente nel 2004 in “The Legendary Lost Tapes”, arriva nel 1999The White Stripes”, un debutto col botto.

1999-2000: DA CAPTAIN BEEFHEART A MTV C’È UN PASSO

Avevo già parlato di questo album in una recensione, le cose da dire sono poche ma essenziali per capire non solo il perché questo sia il miglior album di Jack White in assoluto, ma anche come questo sia uno degli album “più rock” degli ultimi 20 anni. 

Le idee sono poche e riciclate, i riff minimali e l’uso della batteria al limite del ridicolo, ma l’energia e la facilità con cui White inventa o reinventa riff della Madonna ha dell’incredibile. Dall’esplosività (manco a dirlo) di Jimmy The Exploder al blues distorto e mefistofelico di Suzy Lee a delle cover pazzesche. La versione di White di Stop Breaking Down di Robert Johnson rende quella dei Rolling Stones quanto meno inadeguata, One More Cup Of Coffee di Bob Dylan è l’unica cover di Dylan che non soffre di sudditanza verso il Maestro, lo standard blues St. James Infirmary trova in questo album la sua più alta interpretazione. Già questo basterebbe a renderlo un album notevole.

C’è il garage ignorante e cattivo di Cannon, Astro, When I Hear My Name, Broken Bricks e Little People, i riff devastanti di The Big Three Killed My Baby e Slicker Drips, e infine il solito blues (I Fought Piranhas) che grazie a Jack White torna a quel sound infernale delle origini. 

L’album non conosce ancora il successo mondiale, ma già col secondo aggiusteranno il tiro.

Nel 2000 esce “De Stijl”, omaggio sia nel nome che nella copertina al grande e breve movimento artistico olandese, omaggio che forse poteva anche risparmiarsi il buon White, dato che a parte gli orpelli e l’evidente fascinazione per il design minimale di Piet Mondrian, Gerrit Rietveld, Van Doesburg non si va di certo in alcun modo verso il senso di questo movimento. Ma fa figo, e quindi…

Acidità a parte il secondo album dei White Stripes è una bomba, anche se meno esplosiva della precedente. Il primo lavoro era stato dedicato al leggendario Son House, questo invece ad altri due grandissimi: Blind Willie McTell e Gerrit Rietveld, il primo ovviamente uno dei massimi esponenti del Delta Blues, il secondo un designer ante-litteram del neoplasticismo (detto anche De Stijl) autore della famosissima sedia rossa e blu, oltre che architetto di importanza non indifferente.

Non mancano gemme in questo album, minore al primo solo perché non può più sfruttare quell’elemento di novità che è il carisma e il rumore di Jack White. La triade iniziale è da lasciare senza fiato, il garage rock puro e semplice di You’re Pretty Good Looking (For a Girl), la sua versione minimale (quasi a voler mimare lo stile olandese neoplastico, peccato che concettualmente ci sarebbe qualche problemino, ma lasciamo stare) nella spettacolare Hello Operator e infine il solito blues strascicato e diabolico di Little Bird

La prima cover è di Son House, Death Letter, ed è di nuovo una cover definitiva, che porta il blues di Son House a vette fino a quel momento inesplorate. 

Lo slide sporco di Sister, Do You Know My Name? e di A Boy’s Best Friend lascia il posto alla chitarra acustica di Truth Doesn’t Make A Noise, il primo vero esempio del Jack White maturo che si esprimerà al meglio con i The Raconteurs

Si torna al garage incazzato con Let’s Build A Home, Jumble Jumble e con lo splendido riff di Why Can’t You Be Nicer to Me?. Conclude l’album una divertente cover di Blind Willie McTell, Your Southern Can Is Mine, cantata da i due membri della band. 

È sempre del 2000 il 7” pubblicato dalla Sub Pop “Party of Special Things to Do” con tre ottime cover di Captain Beefheart dei nostri, tra cui China Pig tratta da “Trout Mask Replica”.

Ma è nel 2001 che i The White Stripes diventano un fenomeno mondiale, grazie alla solita MTV. La cosa interessante è che al contrario di QUALUNQUE band nella storia dell’universo ad aver sbancato con MTV gli Stripes saranno gli unici a mantenere sia la fama che la buona musica. 

Sempre per la Sympathy for the Records, ma stavolta col supporto di V2, XL e sopratutto dell’etichetta di Jack White stesso, la Third Man Records, esce “White Blood Cells”. Ormai la vena garage esplode in tutto il paese, l’importanza di band come i Von Bondies e di altre ora supportate dall’etichetta di White comincia a seminare qualcosa che oggi ragazzi come Ty Segall invece non raccoglieranno come potrebbe sembrare in un primo momento. Ma del lascito di questi White Stripes parleremo più avanti.

Si ripescano Hotel Yorba e Now Mary dai Two-Star Tabernacle, si continuano a fare passi avanti verso una maturazione del sound, ma con poca creatività. Jack White comincia chiaramente a ripetersi, sebbene abbondino i riff nuovi e indimenticabili (Dead Leaves And The Dirty Ground, I’m Finding It Harder To Be A Gentleman, Aluminum, la garage-punk Fell In Love With A Girl, il rock minimale di Expecting) si aggiunge poco a quanto già detto negli album precedenti, e se adesso si comincia a scrivere canzoni più “complesse” si perde l’immediatezza di una Astro, o la potenza di The Big Three Killed My Baby. Si intuisce già questo comunque ottimo album che la propensione di White verso il pop e una canzone più appetibile alla MTV potrebbe prendere il sopravvento sul garage scomposto e minimale di questi anni.

Divertente la parentesi sessuale-minimale di Little Room, dolcissime le note di We’re Going To Be Friends, ma la perla è This Protector, Jack al piano che duetta con Meg praticamente in presa diretta su quell’otto piste che finora ha accompagnato il duo di Detroit, con errori e voci del tutto lontane dallo standard “di plastica” alla MTV.

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