Come se ci fosse ancora qualcos’altro da dire su questo album.
Come se un cojone qualsiasi dello sterminato oceano degli opinionisti del web, potesse aggiungere qualcosa alla già lunghissima serie di elogi e stroncature che segnano questo monolite del rock.
Il tempo ha dato ragione ai Black Sabbath ma non per i motivi che la band vorrebbe.
Il primo album omonimo è più che un seme è un parassita. Per quanto i fan lo adorino (ma adorano anche “Mob Rules” e i dischi solisti di Ozzy, quindi sono esenti da qualsiasi giudizio razionale) quell’esordio fa proprio cagare. Due o tre riff convincenti, poca sostanza e mal suonata, testi da brivido. Ma cosa cambia da “Black Sabbath” a “Paranoid”?
I Black Sabbath sono una delle band più ridicole della storia, e forse anche per questo tra le più grandi di ogni tempo. Vestiti come dei satanisti texani, facce di impareggiabile bruttezza, tecnica musicale quantomeno raffazzonata, non sperimentano, non destrutturano, non fanno un cazzo se non, banalmente, infilare riffoni della Madonna uno dietro l’altro, con una tenacia che sfiora la demenza. Eppure…
Se in “Black Sabbath” erano fin troppo parodici, in “Paranoid” riescono a cogliere in modo assolutamente originale la paranoia della Guerra Fredda e della Morte in generale esorcizzandola a suon di riff e testi ben lontani dalle litanie hippie dalle quali si discostavano polemicamente.
Più che il successo di vendite è l’aspetto seminale dell’album che stupisce ed intriga.
Per il metal questo e “Master Of Reality” sono una fonte inesauribile di ispirazione, oggi insieme a Hawkwind e Blue Cheer i Black Sabbath sono tra le band di riferimento per tantissimi gruppi neonati.
Al contrario del power pop che tanto deve ai Beatles o all’hard rock di stampo zeppeliniano il metal (non cercato ma trovato) dei Sabbath sforna nuove leve del rock underground (ma si può ancora dire underground? Sembra una parola bannata da qualunque rivista di musica) incredibilmente ispirate e mai retoriche al contrario del power pop che vive di riff ed esecuzione, o dell’hard rock che a parte due o tre band ristagna nella masturbazione.
Giusto per citare qualche band “sabbathiana” (rimanendo negli ultimi 5 anni): Fuzz, Shooting Guns, Zig Zags, Harsh Toke, Sungrazer, The Machine, Golden Void, Kadavar, Earthless, Electric Citizen, Black Mountain e si potrebbe continuare ancora fino allo sfinimento.
Al contrario del solito power pop o dell’hard rock la vena sabbathiana è in costante evoluzione, passando dal doom all’ambient alla psichedelia, tocca persino il punk!
Che dire dell’album in sé, il riff d’apertura di War Pigs scandisce lo spazio con una inesorabilità gotica di straordinaria capacità espressiva, si presta alla ripetizione infinita come alla modulazione e alla progressione. Naturalmente non è nella diretta volontà dei componenti della band questa “apertura”, ma è ciò che avviene.
L’attacco di Paranoid è devastante e immortale. Potrebbe benissimo aprire un album degli Zig Zags e non sembrerebbe comunque anacronistica. Iron Man è come War Pigs e ovviamente Hand of Doom (eppure i riff sono talmente ispirati da donargli dignità pari), poi c’è Planet Caravan col suo andamento tetro e spettrale, mentre Electric Funeral è il momento più alto, quello dove l’apocalissi elettrica giunge alla sua forma estetica definitiva.
Al contrario del primo album i Black Sabbath non sembrano più parodie di una specie di gothic band con reminiscenze romantiche (e un pessimo poeta ai testi), qui le improbabili immagini di devastazione diventano reali, sostenute da una musica terrorizzante e potentissima.
Un album universale, un capolavoro.
Ah, dopo “Master of Reality” gli album dei Sabbath si alterneranno tra l’indecente e l’inascoltabile. So bene che molti di voi non saranno assolutamente d’accordo, ma avremo modo di parlare in un’altra recensione, promesso.