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Blues Magoos – Psychedelic Lollipop

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I Blues Magoos sono uno dei gruppi (nel bene e nel male) imprescindibili nella storia del rock.

Intanto il loro sound, quell’acid-blues in tinta psichedelica, stupisce ancora oggi per la sua straordinaria maturità (e “commerciabilità”). Se consideriamo band precedenti come gli Electric Prunes o i Chocolate Watchband (che fino al ’67 non pubblicheranno niente) già in “Psychedelic Lollipop”, album d’esordio dei Blues Magoos targato 1966, c’è così tanta consapevolezza psichedelica (concentrata in pochi minuti) da incantare.

Meno estremi dei 13th Floor Elevators, sicuramente meno politici dei Country Joe and the Fish, i Blues erano il risultato della fusione che stava avendo atto a New York, in particolare nel quartiere beat per eccellenza: il Greenwich Village.

Se da una parte c’era il sound garage graffiante e rivoluzionario dei Sonics, dei Kingsmen e altre band giovanili, il Greenwich a metà degli anni ’60 era concentrato a seguire le dispute politiche a suon di mazzate folk tra Phil Ochs, Bob Dylan e Joan Baez. Queste due tendenze opposte trovarono una specie di compromesso nel folk-rock che sorgeva nella grande San Francisco, futura sede delle serate allucinogene che in seguito conquisteranno l’America.

Ecco dunque i Blues Magoos, una band che nasce in un ambiente molto lontano da quello psichedelico californiano, ma che saprà trarre dagli input che li circondava il primo vero successo dell’era psichedelica.

Il fatto che i Magoos siano, per quanto mi riguarda, così fondamentali per comprendere la storia del rock sta proprio nel sound di “Psychedelic Lollipop”, un’avanguardia che senza essere sperimentale ebbe un successo incredibile per l’epoca, e che di fatto aprì le porte alle centinaia di band psichedeliche che sopraggiungessero da lì a pochi mesi.

Se i 13th Floor Elevators sono stati rivalutati a posteriori ovvero quando il primo movimento psichedelico si spense (per evolversi in altro), i Blues Magoos ebbero un effetto immediato che scosse il mondo del rock come pochi altri.

Un errore piuttosto comune è quello di categorizzare la band sull’onda garage, il che a mio avviso è impreciso. Certamente i Blues derivano ANCHE dal garage, ma è quella magica combinazione che scaturisce dal contesto musicale multiforme del Greenwich Village che identifica il loro rock, il quale farà da base a band come Jefferson Airplane e Grateful Dead. Inutile cercargli una targhetta identificativa del cazzo tipo: folk-psychedelic-blues-garage-rock, sarebbe solo uno dei tanti modi per rendere ancora più ridicola la critica rock di quanto già è.

Se c’è una critica reale da muovere verso i Blues, ed è una macchia indelebile, è quella sui contenuti, praticamente inesistenti, che per fortuna verrà presto smacchiata dal resto del movimento psichedelico. È importante leggere con alto tasso critico questa band, perché se la psichedelia viene sdoganata musicalmente con “Psychedelic Lollipop” lo stesso non si può dire per l’aspetto culturale, che si farà breccia con una certa difficoltà nell’America puritana e che esploderà definitivamente grazie ad altre band.

Sempre su questi termini c’è anche da valutare l’immagine dei Blues Magoos, costruita artificialmente con una astuta operazione di marketing, che una volta esaurita la sua carica iniziale soccomberà inevitabilmente nei confronti di chi oltre l’immagine aveva anche dei contenuti.

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L’album si apre con la splendida (We Ain’t Got) Nothin’ Yet, l’allucinato organo elettrico suonato da Ralph Scala ricorda i momenti felici dei Question Mark & The Mysterians, ma siamo già qualche passo avanti nella composizione. Uno dei pezzi garage più pregiati dell’epoca, premiato con un simpatico plagio da parte dei Deep Purple.

Segue una ballad, uno di quei momenti in cui di solito dormo, Love Seems Doomed (ovviamente classica citazione subliminale di “LSD”) ha però alcuni interventi elettronici che impreziosiscono l’ambiente sonoro.

Visto che di blues questi ragazzi ne masticavano non poteva mancare una cover del grande John D. Loudermilk, la sua famosa e ritmica Tobacco Road parte con un blues infernale per poi trasformarsi in una corsa blues-rock, ed infine esplodere in una cacofonia psichedelica che assale l’ascoltatore del 1966 come una bomba atomica esplosa dritta dritta nel cervello. Pochissimi avevano ascoltato ed apprezzato i Red Crayola, forse anche meno i The 13th Floor Elevators, ma a tanti si aprirono le porte della psichedelia grazie ai quattro minuti e mezzo di Tobacco Road.

Ecco il Greenwich Village con la cover di Queen Of My Night di David Blue. Un basso suadente, una voce da juke-box e l’organo allucinato di Scala completano una hit dal sapore antico.

Il lato A si conclude con una grandissima cover: I’ll Go Crazy, del maestro James Brown, che in mano a questi ragazzini diventa un pezzo garage sporco e sudicio alla The Music Machine, piccolo colpo di genio da poco più di un minuto.

Si riprende l’ascolto con un’altra cover, Gotta Get Away anticipa per certi versi il sound dei primi Small Faces, garage ancora una volta, filtrato dal blues e dalla vena beat (intuibile dal testo) del Greenwich. Grandissimo pezzo.

Portentosa Sometimes I Think About, un lento blues strutturato come i migliori pezzi blues rock che in pochi anni verranno allungati nelle live per delle ore, un prototipo questa Sometimes impreziosita dai soliti interventi all’organo di Scala.

One By One si rifà ad una tradizione brit-pop da singoli alla radio, poca roba.

Si torna al blues con Worried Life Blues, bell’attacco con l’organo e la chitarra che fraseggiano sul morbido blues di Big Maceo Merriweather. Ogni tanto il ritmo viene spezzato da delle sferzate garage che durano troppo poco per essere apprezzate a pieno.

Si conclude il giro con She’s Coming Home, un ultima cover non più blues, un veloce pezzo garage rock che però suona un po’ studiato, ma comunque di pregio.

“Psychedelic Lollipop”, se escludiamo il titolo, ha dato poco tecnicamente alla psichedelia, ma è stato l’album che l’ha sdoganata dal suo piccolo giro facendola diventare il principale fenomeno culturale della seconda metà degli anni ’60.

Per il resto i Blues Magoos non riusciranno più a piazzare un colpo come questo, abbastanza credibile il secondo album “Electric Comic Book” (1967) ignobili i successivi.

  • Pro: un album che ha fatto la storia.
  • Contro: se escludiamo due o tre pezzi potete benissimo viverci senza.
  • Pezzo consigliato: la straordinaria cover di Tobacco Road.
  • Voto: 7/10

The Monks – Black Monk Time

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Primo: la band che prenderemo in considerazione in questa recensione spacca i culi con potenti dosi di rock, quindi dovete ascoltare questo dannato disco.

Secondo: sono in vacanza, quindi sono in uno stato di scazzo assolutamente giustificato, la recensione verrà di merda, potete dunque saltarla a piè pari e scendere dal vostro spacciatore di dischi di fiducia e comprare questo fottutissimo album.

Cominciamo.

Qual’è il ritmo dell’estate?
Non so il vostro ma il mio qua a Villagrazia di Carini, in provincia di Palermo, viaggia costantemente su fastidiose emissioni di musica latino-americana, Lunapop, Donna Summer e Muse sparati a palla dal carretto dei gelati. Preferirei un concerto dei Sonata Artica a tutto questo.

Detto ciò grazie agli straordinari ritrovati tecnologici contemporanei (le musicassette) riesco a sopravvivere quel tanto che basta per scrivere cagate sul computer e per leggere roba come “Lila” di Pirsig e “Please Kill Me” della premiata ditta McNeil-McCain. Inoltre il costante rompersi dello stereo fortifica la mia dolce ulcera.

Naturalmente sono al mare, ma la brezza marina non aiuta molto, non almeno quando, verso le due e mezzo del mattino, trasporta in camera mia assieme alla sua frizzante arietta anche le serate di karaoke a qualche isolato da qui.

Ci sono anche i vicini, ma a quelli cerco di contrattaccare. Ogni qual volta il mio gentile vicino tenta di inquinare il mio spazio vitale con oscenità sonore che vanno dai sempre verdi Backstreet Boys a Vasco Rossi io rispondo a mio modo, e quale modo migliore se non un album come “Black Monk Time”?

Se sapete già chi sono i Monks mi avrete mandato a cagare sù per giù alla seconda riga di questa sconclusionata recensione, ma se non li conoscete sappiate che vi siete persi (finora) una delle band più assurde e geniali dell’intera storia del rock & roll.

Intanto contestualizziamo (quindi mi stappo una birra), siamo nella prima metà degli anni ’60, i Monks credo comincino a suonare assieme intorno al ’64, e se i giovani virgulti dell’epoca ascoltavano i Beach Boys con i loro coretti che anticipavano i Village People e i cori ecclesiastici nella zona di Rignano sull’Arno, altri un po’ più furbi (come i Monks) ascoltavano le folli distorsioni del vero surf rock di Dick Dale (mentore di Hendrix), avevano in casa “The Standells In Person At Pjs” e si masturbavano al ritmo dei Vagrants e dei mitici Sonics (punk ante-litteram). Bei tempi in effetti.

Comunque questi cinque militari (!) americani di stanza a Francoforte avevano un’avversione per una band in particolare: i Beatles. Il che, molto stranamente, non gli è avvalsa la prima posizione in tutte le classifiche di Scaruffi.

I loro ritmi scanzonati [parlo dei Beatles], le loro canzoncine d’amore alternate a qualche sporadica considerazione sulla realtà al di fuori della loro gabbia dorata (che arriverà dopo “Rubber Soul”) facevano incazzare i Monks come Richard Benson davanti ad un pollaio. Così decisero, per motivi che non intendo sondare, di vestirsi da monaci (con tanto di chierica) e di provocare le masse con riff che facevano tremare le palle a tutti i vari Kings, Yardbirds e cazzi e mazzi.

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Il sound che i Monks concepiranno è oggi oggetto di discussione tra i critici di DeBaser o di Onda Rock, i quali adorano come nessuno i discorsi intorno al nulla o sull’effimero.

Sicuramente troverete persone che vi diranno che i Monks anticipano il punk, il che è giusto parzialmente ma se consideriamo band come Sonics o i Troggs, i quali sono molto più proto-punk dei quattro frati americani, allora forse è meglio semplificare le cose e inserirli nel miglior garage rock di sempre (hanno qualche affinità per esempio con i Music Machine, se non fosse per il banjo elettrico!).

Qualche pazzo addirittura li inserisce tra i fondatori dei kraut rock, e io proprio non capisco. Se in I’m Waiting For The Man dei Velvet è più che mai doveroso parlare davvero di punk sia come sound che come testi e concetto, nei Monks il sound, per quanto ritmato e deciso, è comunque legato al garage ed è ben distante dai ritmi serrati del kraut che erano funzionali a negare concettualmente un certo tipo di rock (consapevolezza che manca ai monaci del garage). Quindi ci sta di ascoltarli e sentire quasi una predizione dei Neu! o dei Faust, ma se nel caso dei Velvet, come nei Sonics e nei Troggs, la volontà di essere punk esiste ben prima che il concetto possa essere espresso, nei Monks c’è solo una voglia di avversione ai Beatles e company che si vuole esprimere con il vero rock, il garage per l’appunto.

I Monks non solo ti aggrediscono con un rock davvero pesante e irriverente per il 1966 (data di pubblicazione del loro unico album, “Black Monk Time”) ma oltretutto non si risparmiano neanche nelle liriche. E qui siamo lontani dal sesso frenato dei Sonics o dei Troggs, siamo lontani dai riferimenti alla droga di inni come Here Come the Nice degli Small Faces (che è dell’anno successivo, ma ricordiamoci che sono in vacanza e sto cazzeggiando allegramente, ok?), in “Black Monk Time” si parla di politica, e in particolare di guerra.

Solo un’altra band, ancor più leggendaria dei Monks, aveva usato toni così diretti (e anche indiretti, siamo comunque nel ’66) nel parlare di guerra negli USA: i Fugs.

Se tutto ciò non vi basta ascoltatevi i riff veloci e sporchi di Higgle-Dy-Piggle-Dy (con un organo allucinato alla Brian Auger), innamoratevi di uno dei capolavori del rock: Complication, lasciatevi stupire dal banjo elettrico di Shut Up.

Volete zittire il vicino al mare che mette a tutto volume i suoi balli di gruppo latino americani (che poi ballerà la sera stessa con i parenti over 50) con un po’ di sano rock? Beh, dato che con “Metal Machine Music” vi becchereste una bella denuncia per inquinamento acustico, allora potete tranquillamente virare verso i Monks.

  • Pro: semplice e incazzato rock. Vi pare davvero poco???
  • Contro: boh.
  • Pezzo consigliato: Complication.
  • Voto: 7,5/10

The Black Keys – Rubber Factory

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Prima di recensire questo disco vanno fatte delle premesse:

  1. i Black Keys mi piacevano (assai), ma ora sono tra le peggiori band a giro (e vi spiegherò perché);
  2. tutto quello che hanno fatto i Black Keys lo avevano già fatto i Sonics e i Music Machine, tranne che per “Attack & Release” per cui va fatto un discorso diverso (e vi spiegherò anche questo);
  3. Coca-cola e Pepsi non sono veramente diverse per gusto o colore, ma lo sono concettualmente (sì, c’entra, e vi spiegherò perché).

Da questi tre punti, che sono le premesse necessarie per continuare questa recensione, ricaviamo i quattro passaggi fondamentali per Una Buona Recensione: 1) la storia della band; 2) la musica a cui fa riferimento; 3) la recensione del disco; 4) le conclusioni del caso.

1) La band, formata soltanto da Daniel Auerbach (cantante e chitarra) e Patrick Carney (il batterista), si ritrova nel 2001 a cazzeggiare assieme senza troppe pretese, quando nel 2002 fanno uscire “The Big Come Up”, il loro primo disco, e diventa subito un successo. Non si sa bene se sia culo o cos’altro, ma il garage-rock-blues di questi ragazzacci funziona.

Nel 2003 con “Thickfrekness” sembrano aggiustare ancora un po’ il tiro, misurandosi con un rock piuttosto hard nella filosofia del low-fi. Il secondo disco è davvero un passo avanti. Sebbene mi piaccia consigliarli entrambi a chi mi chiede “ehi, ma chi sono ‘sti Black Keys?” devo dire che Thicky ha una marcia in più. Più rumoroso, più casinista, più garage.

Continua il successo per la band, anche se molti critici nostrani sembra che credano fermamente che prima di “Attack & Release” non li cagasse nessuno (perché non se li cagavano loro). Invece già col secondo album, prodotto dall’ottima etichetta Fat Possum Records (che annovera nomi come quelli di Iggy Pop, Andrew Bird, i Caveman, i Dinosaur Jr. e altri) i plausi dalla critica americana non sono pochi, e i loro pezzi si sentono ovunque, dalle radio ai cinema.

Arriva nel 2004 “Rubber Factory”, un lavoro egregio a mio avviso (e il mio disco preferito dei Keys), ma ne parleremo meglio dopo.

Con “Magic Potion”, disco uscito nel 2006, comincia il declino. Il sound si addolcisce, il rock sembra un tantino stantio, non voglio dire che non sia rock, dico solo che è un rock svogliato, inutile fine a se stesso, senza energia! 

Intanto iniziano ad essere prodotti dalla Nonesuch Records (etichetta della Warner), e già nel 2008 accoglieranno anche la Danger Mouse. Il sound cambia, e parecchio.

Attack & Release” esce proprio nel 2008, l’arrivo della Danger Mouse si fa sentire, e il disco è quasi certamente il miglior lavoro della band, o quasi.

Il lato A risulta una bomba di psichedelia e rock d’annata, c’è l’elegiaca All Your Ever Wanted (un finale tra i più belli), godurioso il riff di I Got Mine che ricorda le cose migliori di Rubber, ma con un sound pulito e sofisticato (per quanto possa essere sofisticato un disco dei Black Keys), bella anche Psychotic Girl, insomma, un disco abbastanza cazzuto. Ma già nel lato B le cose si calmano. Sebbene pezzi come Se He Won’t Break siano cento volte meglio di qualsiasi cosa passi per MTV e affini c’è una certa artificialità nell’esecuzione. Insomma: non è la solita solfa, abbiamo lasciato il garage dei Sonics per andare a cercare lidi più complessi e raffinati.

Il sesto disco arriva nel 2010, è “Brothers”, questo è l’album che porterà i Keys ad essere conosciuti in tutto il mondo, ed è un delusioni totale.

Arrivato al negozio non mi siedo neanche per ascoltare, lo compro, speranzoso di sentirmi ancora qualche bel riff cazzuto e momenti di delirio, ed invece mi ritrovo preso in giro come poche volte nella mia vita! Cazzo gente, “Brothers” è una fregatura bella e buona! Un disco piatto, noioso, ripetitivo oltre misura! Non salto sulla sedia su nessun riff (che poi sono rumori indistinti), non c’è mai un cambio di velocità che si faccia notare, mai un’idea, assomiglia esageratamente a “Keep It Hid” (2009) il disco solista di Auerbach che altrettante perplessità mi lasciò a suo tempo. Che pena.

La solfa non cambia, anzi, peggiora, con “El Camino” (2011), un disco che suona come un affronto al rock duro e puro delle origini, il simbolo di una band venduta a MTV e ai colossi della musica.

Non solo il titolo riporta alla mente idee malsane come “Bananas” (perché chiamare un album come una macchina? Insomma, il titolo di un album è la sua presentazione, cosa dovevo aspettarmi da “El Camino”, una serie di sample di Chevrolet che sterzano a tutto fuoco?) ma oltretutto diventa il loro maggiore successo!

All’interno c’è di tutto per il campionario delle ovvietà e della noia, mi limito a segnalare i due pezzi migliori, se così si posso definire. Gold On The Ceiling viaggia abbastanza bene, il riff ti entra in testa come l’organo elettrico, ma non è che sia chissà che pezzo. Little Black Submarines sembra un tentativo di migliorarsi nella composizione, peccato che poi non lo sia, sembra un rock brutto, ignorante (che razza di aggettivi sono? Boh, è quello che mi è venuto in mente).

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2) I Black Keys, musicalmente parlando, partono con i Sonics, partono col garage. Sebbene nelle loro zone ci si ricordi perlopiù dei Devo, i Keys sotto sotto sono un po’ dei californiani in trasferta a Detroit. Dopo gli inizi rudi che band come i Von Bondies o gli Stripes hanno appena assaggiato, al contrario proprio del più famoso duo rock  si sono venduti alla grande, addolcendosi schifosamente, ipoteticamente pronti per suonare negli Hard Rock Café accanto a Rihanna.

Ora basta cazzeggiare, recensiamo.

3) “Rubber Factory” mi eccita.
Ma non come la caffeina.
Ecco, avete capito.

Quando ho udito le prime note di When The Lights Go Out intuì che questo era un disco per me. Lento, blues, garage, questo pezzo ferma il tempo attorno a me, con pochi accordi raggiunge l’anima (o le palle, fate voi) e mi stuzzica nel profondo.

Poi avviene. Rubber parte a razzo, senza esclusione di colpi mi assesta sul groppone riff assassini come quello di 10 A.M. Automatic, robette come Just Couldn’t Tie Me Down e All Hands Against His Own non passano inosservate ai tuoi vicini.

Da qui in poi potrei tranquillamente citarvi ogni pezzo leggendo il retro del cd, questa roba scotta amici miei! Girl Is On My Mind è un pezzo energico, cattivo, ma la perla del disco per me è la cover di Grown So Ugly, la quale col cazzo che è presa dall’originale di Robert Pete Williams, ma asseconda quella geniale e irripetibile versione del grandissimo Captain Beefheart, direttamente da “Safe as Milk” (1967). Già solo questo vale il prezzo del disco.

Ma non è finita qui.

4) Le conclusioni non sono niente di trascendentale: la Coca-cola è arrivata prima della Pepsi.

Forse questo non vi dice niente, ma se la Coca sono i Sonics e la Pepsi i Black Keys, allora il discorso cambia. Perché se la Coca non avesse avuto gli esperti di marketing che la pubblicizzavano a suo tempo, oggi non se la filerebbe nessuno. Ma uno zoccolo duro di intenditori continuerà a preferire la Coca alla Pepsi. Perchè mai, direte voi, solo per una stupida questione su chi ci è arrivato prima? No, è perché c’è una differenza concettuale di fondo: la Coca ha già detto tutto mentre la Pepsi ripete a pappagallo! 

Non solo: quello che la Coca ha detto lo ha detto quando nessuno era pronto ad ascoltarla, quando il mercato voleva la limonata (melodie country-rock orecchiabili), prima che l’invasione delle multinazionali (la British Invasion) distruggesse quello che fin lì era stato conquistato! La Pepsi non ha solo una differenza di tipo cronologica, è concettualmente un abominio! Vuole sopperire alla Coca travestendosi come tale, ma deviando l’ardore rivoluzionario degli albori per vendere di più! Questa è la tragedia dietro i Black Keys!

Detto questo “Rubber Factory” è un bel disco, anzi: è l’ultimo disco con le palle dei Keys, perché sebbene abbiano preso il sound dai Sonics l’hanno fatto con passione e personalità (le tinte blues sono loro, tanto per intenderci), mentre con “Brothers” e “El Camino” hanno fatto cassa sul loro nome per storpiare la Grande Lezione del garage delle origini, lasciando il rumore ma togliendo l’anima.

  • Pro: il loro capolavoro, un buon disco garage-rock in tinta blues.
  • Contro: fa rabbia pensare che si siano sputtanati in questo modo, perché il disco non ha proprio alcun difetto.
  • Pezzo Consigliato: bellissima la loro versione di Grown So Ugly, un bel tributo al mitico Beefheart.
  • Voto: 7/10