Archivi tag: The Rolling Stones

The Brian Jonestown Massacre – The Future Is Your Past

Etichetta: A
Paese: USA
Anno: 2023

Eccovi qualche link per ascoltarvi l’album suddetto:
SPOTIFY: https://open.spotify.com/album/2gSCrwFLHcT0OhMgdMy0Qc
APPLE MUSIC: https://music.apple.com/it/album/the-future-is-your-past/1655736209

La più grande rock band di tutti i tempi

Perché quando si parla della più grande rock band di tutti i tempi spesso stiamo parlando dei Beatles? Se dovessi rispondere a freddo a questa domanda, e non riesco ad immaginarmi nessun motivo per cui dovrei farlo, risponderei con l’incredibile successo planetario della band, la “beatlesmania”, un tale culto che pochissimi artisti della storia della musica possono vantare, personalità del calibro di Elvis, Michael Jackson, Madonna, Jay-Z, Frank Sinatra, Whitney Houston, Kanye West, e chiunque abbia dominato per anni le varie classifiche di Billboard e sia stato determinante per la cultura pop per di più di una generazione. Ma i Beatles possiedono, almeno nell’immaginario collettivo, una marcia in più in confronto agli artisti che ho appena elencato, ma perché? Erano forse più bravi tecnicamente? Possedevano più estro, più creatività? Hanno saputo gestire meglio la propria immagine negli anni? 

Ovviamente è una questione di lana caprina, già solo decretare una band come “la più grande” è un esercizio adolescenziale, senza nessuno scopo critico. Però quest’aura di leggenda attorno ai Fab Four non produce solamente compilation a palate e biopic di bassa qualità, ma anche una peculiare distorsione di un periodo storico complesso per la musica rock, una vera e propria rinascita salutata però come un’assoluta novità.

I Beatles compaiono sulla scena quando della musica rock ormai non restavano che le ceneri. Il rock and roll anni ’50 era morto in un’incidente aereo, c’erano giusto Elvis e Roy Orbison a tenere botta in classifica, il primo fra l’altro con grande difficoltà a raggiungere le vette che fino al ’62 gli appartenevano di diritto. I generi che vanno forte in radio sono il musical e le colonne sonore per film (proprio tra il ’60 e il ’64 queste avranno una grandissima influenza sulla musica pop inglese). Sotto questo primo strato che oggi definiremmo come il “mainstream”, comparivano in classifica i dischi jazz di Charles Mingus, John Coltrane, Thelonious Monk e Dexter Gordon. Ancora oggi la tra le voci ritenute più iconiche di quel periodo c’era Sam Cooke, artista vicino ai movimenti per i diritti civili dei neri, probabilmente ucciso a soli 33 anni, uno scandalo assurdo che rimane a tutt’oggi insoluto e politicamente rilevante, così come la sua influenza sulla musica soul e il rithmin ’n’ blues. Parlando di artisti seminali un album piuttosto significativo di quella stagione fu l’esplosivo “Live at Apollo” del mai abbastanza compianto James Brown, mentre dal Greenwich Village di New York si alzavano i venti del folk di protesta, una brezza fredda immortalata dalla celebre foto di Suze Rotolo per la cover di “The Freewheelin’ Bob Dylan”.

E il rock? Non potevano certamente solo esserci Elvis e Roy Orbison, giusto? Per quanto Elvis ancora c’avesse un bel pelvis e Orbison ci abbia regalato a posteriori alcuni momenti indimenticabili nella filmografia di David Lynch, ciò non toglie che sia un po’ pochino anche per un genere che era dato per morto dal 1959.

In verità buona parte della produzione rock di quegli anni era fuori dalle classifiche, in un luogo che oggi definiremmo “underground”. A parte le band che derivavano il proprio sound da Buddy Holly e i suoi Crickets o dai complessi vocali alla The Clovers o in stile The Ronettes (il cui spazio sonoro diventava sempre più saturo a causa di un certo Phil Spector), e a parte i vari Lightnin’ Hopkins e John Lee Hooker alla ricerca di una rinascita della scena blues dei fifties sempre più improntata al R&B (Boom Boom è del 1962), l’urgenza espressiva della gioventù irruente di quegli anni si sfogava nel rock strumentale. La comparsa del rock strumentale avvenne in concomitanza con la cultura surf giovanile statunitense, e difatti gran parte della produzione rock tra il ’60 e il ’64 (l’anno di “Meet The Beatles!”) viene spesso criminalmente sintetizzata nella sola espressione «surf rock». Fu questo in realtà un periodo di grandissima sperimentazione e contaminazione dei linguaggi, come tutti i passaggi generazionali che si rispettino, in cui l’abbandono delle forme corali portò ad un approfondimento degli aspetti elettrici ed elettronici della musica rock. Virtuosismo e avanzamento tecnologico andavano di pari passo, tra i gruppi che riuscirono a scalare le classifiche attraverso questo curioso binomio vale la pena ricordare lo scontro fino all’ultima hit tra Ventures, Shadows, Dick Dale, Trashmen, Challengers, Pyramids e Surfaris.

Il rock strumentale e tutto ciò che gli gravitava attorno, nasceva come un genere esclusivamente indirizzato per gli adolescenti, con un piglio molto indipendente e di forte rottura con i valori rappresentati da Bill Haley e i suoi Comets quando suonavano Rock Around the Clock nel leggendario “Blackboard Jungle” di Richard Brooks, regalandogli un successo inaspettato. Non era un rock inclusivo certamente, si erano persa la centralità delle ballad zuccherine in favore della demenza, del ludibrio, della satira sprezzante, spesso le canzoni culminavano in assoli eccessivi oppure in assurde digressioni elettroniche d’avanguardia, tutti elementi che rendevano questa musica difficile da vendere fuori dalla sua bolla, ma l’enorme successo che ebbe nella controcultura americana fece sì che tutti i generi strumentali conoscessero una fortuna notevole in un lasso di tempo piuttosto breve. L’apice commerciale arrivò nel 1962, l’anno di Telstar dei The Tornados, il primo vero successo britannico nella patria del rock and roll, prova concreta del fatto che l’estetica strumentale avrebbe potuto facilmente emanciparsi dalla cultura surf, se ne avesse avuto il tempo. Ma non è così che prosegue la nostra storia, giusto?

It’s time to meet the Beatles

È certo possibile godere dei fiori nella loro forma colorata e nella loro delicata fragranza senza conoscere nulla delle piante sul piano della teoria. Ma chi si propone di comprendere il fiorire delle piante è tenuto a scoprire le interazioni tra suolo, aria, acqua e luce solare che condizionano lo sviluppo delle piante.
[John Dewey, Arte come esperienza, p. 32]

I Beatles si affacciarono sulla scena assieme ad un’ondata di gruppi (non solo inglesi!) che rivendicavano il valore della gloriosa musica di Little Richards e Chuck Berry, pretendendone tutti i benefit, sesso e droga compresi. Da quella massa di gruppi, molti dei quali non duravano il tempo di un singolo, spiccarono fuori diversi complessi, non tutti francamente memorabili, tra cui Jay and the Americans, Gerry and The Pacemakers, i Kinks, gli Small Faces, i Them, gli Hollies, gli Who, i Move, i Dave Clark Five, Billy J. Kramer, i Rolling Stones, le Shangri-Las, i Seekers, Monkees, Herman’s Hermits, Guess Who e via discorrendo, eppure la percezione contemporanea ci porta a pensare che per diverso tempo il mercato fu essenzialmente diviso tra Beach Boys e Beatles. Questo, come il finzionale scontro tra Beatles e Rolling Stones, è il risultato di una deformazione storica difficile da mettere da parte, perché senza quella lente si perdono comunque tantissime informazioni su un periodo decisamente cruciale, informazioni di carattere sociale e antropologico. Di tutti gli articoli polemici e delle colonne sui giornali più autorevoli, delle infinte discussioni sulle prime fanzine, degli scontri ideologici tra DJ e la ferocia della nuova critica rock – più consapevole di se stessa ma anche più polarizzata di adesso, oggi non ci resta nulla se non l’eco di una sola campana. Certamente questo è dovuto alle precise e avveniristiche mosse di marketing che sostennero le band del «nuovo rock» (per citare il buon Riccardo Bertoncelli), ognuna in competizione con l’altra per la trovata più sensazionale o la hit più provocante, una gara estenuante che ad oggi siamo sicuri di poter dire che abbiano stravinto i manager dei Beatles.

Così come è accaduto poi per il soft rock, per il prog, per l’heavy metal, per l’hip pop eccetera, quando un genere esplode il mercato si satura immediatamente di paccottiglia, ogni volta di più grazie alla massificazione degli strumenti necessari per fruire privatamente della musica. Oggi con Tidal, Spotify, Apple Music e Deezer, c’è una tale sovrabbondanza di gruppi e di artisti da far girare la testa, e il mercato insegue quelli di maggior successo modellando anche il resto della proposta musicale su di essi, mentre su Bandcamp o Tik Tok si formano micro-scene che influenzano le nuove generazioni. Gli anni ’60 sono stati i primi a subire una vera e propria industrializzazione di tutta la filiale musicale, tanto che era difficile notare delle reali differenze tra i singoli in cima alle classifiche di quegli anni, non solo nell’estetica musicale ma perfino in quella delle copertine, dell’abbigliamento e nelle liriche! La critica non ha saputo costruire ancora oggi una narrazione che abbia avuto un qualche impatto (popolare) sulla complessità di quel periodo, e ciò che permane nell’immaginario collettivo non sono solo i prodotti di maggior successo, ma una cronologia degli eventi abbastanza sballata.

Ma in questa notevole ondata di nuovi gruppi fatti principalmente di adolescenti brufolosi ed inconsapevolmente rivoluzionari, che cosa suonavano esattamente i Beatles? Perché c’era una bella differenza tra il complesso che faceva faville nei locali di Amburgo e quello di “Love me do”. Il cambio di stile repentino della band non era anch’esso una novità, non è che i Beatles furono scelti tra le altre complessi perché avessero qualcosa di diverso (questa è una narrazione agiografica a posteriori tipica di tutte le biografie di successo), ma perché avevano il giusto mix per sfondare nel mercato crescente della musica melodica strappacuori, loro assieme ad un altro centinaio di adolescenti messi al macello delle major, tutti conditi da promesse di successi imperituri. Da un punto di vista strettamente storico-musicologico dovremmo dire che i Beatles erano in tutto e per tutto un complesso di musica beat. In fondo tra il ’63 e il ’66 sui giornali si scriveva proprio del «beat inglese» e del suo “acerrimo nemico” il «surf americano». Il motivo per cui sono sempre molto restio a categorizzare le band è che poi le etichette hanno un significato storico-contestuale statico, mentre la musica muta in continuazione, così come la sua percezione nell’ascoltatore, sopratutto ad oggi con i mezzi di registrazione ed ascolto a nostra disposizione. La percezione del passato musicale cambia pelle continuamente attraverso film, serie TV, teatro, performance art e le sue forme ibride in streaming, senza dimenticarci dei videogiochi, la forma d’intrattenimento più rilevante degli ultimi 5 anni, e tutti questi elementi fanno sì che il significato della musica cambi costantemente, di generazione in generazione (pensate solo all’impatto enorme nell’immaginario contemporaneo che hanno avuto film come “It Follows” o serie tipo “Strangers Things” nel riscrivere i canoni estetici degli anni ’80, portando anche ad un revival di alcune sue caratteristiche, ma fondamentalmente diverse dalle matrici originali).

Oggi categorizziamo le band inglesi dei primi anni sessanta nel calderone della British Invasion, una sorta di asso piglia tutto per i critici rock. Poi abbiamo le sottocategorie, per cui alcune band finiscono nel merseybeat, altre nel pop, altre ancora nel pop-rock, talune nel blues-rock, poi nel proto-prog e persino nel proto-punk! Per amor di critica se c’è una definizione che calza a pennello per i Beatles è certamente “pop”, non solo per il loro essere “popular” per usare un eufemismo, ma anche per l’influenza sul soft-rock e sul power-pop, per il loro essere “al di sopra” delle singole sottocategorie grazie a quella gigantesca popolarità che aveva tutti i contorni del culto.

Non è quindi solo il rock ad aver cambiato faccia, ma dal 1964 tutta la musica pop subì una profonda trasformazione in ogni campo, dalla produzione alla distribuzione, passando per la radiofonia, i festival, il declino del formato a 45 giri per quello a 33 assieme ad altre questioni, e ciò accadeva per inseguire il successo del nuovo rock. Il cambiamento però non è cominciato con l’avvento delle band sopra citate. Bob Dylan è stato uno dei primi artisti ad aver spostato l’attenzione verso il formato dell’album a discapito del singolo di successo, mostrando che anche la musica pop poteva battersela con la classica e il jazz, e sebbene tanti lo avessero preceduto (mi viene in mente il bellissimo “After School Session” di Chuck Berry), fu comunque suo l’impatto che cambiò le sorti del rock futuro. Il formato a 33 giri era infatti notoriamente quello per la musica “seria”, un tipo di classificazione nata in seno alle grandi case discografiche degli anni ‘40. Ma l’esplosione del secondo rock e della British Invasion accelerarono in modo irrefrenabile il processo di cambiamento in corso, uccidendo di fatto il rock strumentale e mettendo ai margini delle classifiche buona parte della musica classica e jazz, proponendosi attraverso personalità di spicco tipo Dylan, come una musica altrettanto autorevole ed impegnata delle altre. Ma perché i Beatles sono considerati i veri portabandiera di questo periodo traumatico, fortemente divisivo e polarizzante? Perché non gli Stones di Brian Jones o i Beach Boys di Brian Wilson? Perché non magari i Kinks, con la loro influenza sull’hard rock e i loro testi sempre così acuti, perché non gli Who con le loro live infiammanti che mettevano in soggezione chiunque altro?

Tra leggenda e percezione

What were your first impressions of the Beatles?
That they were the worst musicians in the world. They were no-playing motherfuckers. Paul was the worst bass player I ever heard. And Ringo? Don’t even talk about it.
[Quincy Jones rispondendo a David Marchese per “Volture”, 2018]

Sui Beatles è stato scritto tutto e il contrario di tutto, e anche a causa di questo c’è una percezione molto confusa del loro contributo alla storia della musica pop. Si sono spese una quantità infinita di pagine su Tomorrow Never Knows, sull’incredibile voglia degli studi di Abbey Road di mettere in crisi il formato canzone attraverso accorgimenti ingegneristici davvero innovativi per la musica popolare, ma la stessa attenzione non c’è stata quando l’anno prima gli Who pubblicarono con grande fatica Anyway, Anyhow, Anywhere, che possedendo un assurdo assolo in feedback fu considerato dai produttori come un errore di registrazione o qualcosa del genere. Perfino a livello di ingegneria sonora quanta attenzione alla stereofonia dei Beatles e quanta poca a quella degli Shadows negli anni di The Rise And Fall Of Flingel Bunt. Com’è possibile tutt’oggi considerare i Beatles come premonitori della scena punk quando ad Andover c’erano i Troggs? Ha già molto più senso mettere i Beatles nella categoria di quelle band che avranno un certo influsso sulla psichedelia, ma la loro importanza non è stata fondamentale per la nascita del genere, quanto per l’affermazione mondiale di questo.

Ci si sofferma sempre sull’influenza britannica per lo sviluppo del garage rock americano ma poco si è scritto e analizzato allo stesso modo dei gruppi nati negli States come alternativa ai melodici merseybeat, come i Monks o i Fugs. I Sonics sono mille volte più famosi oggi di quando erano giovani e metà del loro repertorio lo si trova fisso nella scaletta di buona parte dei gruppi garage contemporanei. Gli inglesi prediletti da Lester Bangs erano i Troggs, inutilmente buttati nel calderone proto-punk per poi essere comunque messi da parte dalla letteratura critica. Senza contare tutta quella sperimentazione che era già avvenuta negli anni ’50, dimenticata per così tanto tempo che ad oggi è quasi impossibile trovare libri o persino video su YouTube riguardanti quel periodo del rock. Più si scava più appare chiaro che non c’è una sopravvalutazione del fenomeno specifico dei Beatles, quanto in generale dell’impatto della British Invasion sulla scena rock, descritto come unicamente positivo ed egemonizzate (e certamente per le major dell’epoca lo è stato eccome). Di gruppi che suonavano garage ce ne erano ben prima dell’avvento degli inglesi, e anche incredibilmente seminali come i Kingsmen. Fra l’altro tra le due più famose cover di Money (That’s What I Want) di Barrett Strong, quella dei Kingsmen a fine carriera (1966) dimostra la differenza d’approccio tra un rock più trascinante e che oggi molti critici definirebbero proto-punk, ad uno più curato e abbellito (la cover dei Beatles è del ’63) per un pubblico più raffinato, dove in primo piano ci sono gli intrecci vocali invece dell’assolo di Mike Mitchell, e dove agli Abbey Road viene sovrainciso con precisione un ostinato pianoforte per i Kingsmen c’è l’organo di J.C. Rieck, che sporca non poco la riuscita finale del prodotto. Non sto parlando di qualità, ma di approccio, non esiste un approccio giusto o uno sbagliato, ma l’idea storica che l’approccio corretto e rivoluzionario fosse quello delle band inglesi à la Beatles è ancora piuttosto radicato.

Se la realtà quindi era complessa e stratificata, la percezione invece appariva chiarissima e raccontava una storia molto appassionate: quattro giovani dalla brillante Liverpool che scalavano le classifiche con un rock di buon gusto, adatto anche alle mamme, agli zii e ai papà, per nulla banale e sempre accompagnato da una costante ricerca di autorevolezza musicale con l’uso di grandi studi di registrazione e orchestrazioni di alto livello (le idee di George Martin hanno imposto diversi canoni per la musica pop fino ad oggi). Peccato che i quattro fossero invece la rappresentazione plastica del giovane proletario inglese, più interessato alle donne e al successo che al buon gusto, eppure l’opera di rielaborazione pubblica fu totalizzante, tra film e riviste dedicate i quattro erano stati trasformati in perfetti pretendenti dell’alta borghesia . La stessa operazione, solo all’inverso, fu applicata ai benestanti Rolling Stones, che passarono alla storia per quelli sregolati e vicini “alla gente” (come avrebbe dovuto confermare tardivamente il singolo di Street Fighting Man, che invece risultò talmente ambiguo da essere praticamente apolitico, un po’ come la Revolution dei Beatles parlava di rivoluzione ma senza scontri, magari a palle di neve o lanciando dei bacini in direzione dei “cattivi”). La narrazione delle grandi etichette possedeva comunque dei limiti espressivi oltre i quali non si poteva andare, la carriera solista di John Lennon si muoverà proprio contro quella direzione, anche se con una buona dose di utopismo che l’ha sempre caratterizzato. 

Ovviamente il modo con cui noi facciamo esperienza di ogni fenomeno storico è in realtà una deformazione, a volte è una compressione in cui tanti eventi finiscono tutti appaiati in un periodo percepito come breve anche se non lo è stato, delle altre è una visione ideologica legata a degli aspetti culturali contemporanei che cambiano la nostra analisi di certi avvenimenti mettendoli sotto una nuova luce, ma ciò che mi interessa analizzare qui è un fenomeno di costume. Quando parliamo di “grunge” parliamo di Nirvana, ma non succede la stessa cosa con l’hard rock o con l’hip pop. Questo perché l’impatto dei Nirvana è stato culturalmente più efficace e trasversale, superando di gran lunga la qualità della loro produzione musicale. Dire che i Nirvana «siano stati il grunge» è più comunemente accettato che dire che i Genesis «siano stati il prog», piuttosto che i King Crimson o i Van der Graaf Generator. Eppure non si può di certo dire che il ruolo dei King Crimson nel prog sia stato meno influente ed importante di quello dei Nirvana nel grunge. Per cui la questione non è più musicale, ma di costume e società.

Il peccato del successo

Ripeti la stessa cosa per un certo tempo, e diventa gusto. Se invece interrompi la tua produzione artistica dopo aver creato una cosa, essa diventa una cosa in sé e tale rimane. Ma se si ripete un certo numero di volte, diventa un gusto.
[Marcel Duchamp, intervista di James J. Sweeney, Scritti, p. 157]

Sembra praticamente impossibile analizzare l’opera dei Beatles senza lasciarsi prendere dall’agiografia o dalla demolizione ideologica. La prima viene naturale, siamo tutti cresciuti con i Beatles, e il 99% dei musicisti che negli anni ’60 hanno deciso di mettere sù una band lo hanno fatto perché hanno ascoltato una canzone dei Beatles alla radio (anche se poi hanno preso strade diverse, come nel caso dei Byrds o dei già citati King Crimson), questi bias sono difficili da eludere perché la musica, molto più delle altre forme d’espressione umana, è pura emozione, grazie alla sua astrattezza. In neurobiologia infatti la musica è considerata come una tipologia artificiale di stimolazione della varie emozioni umane in un ambiente controllato, questa tramite i suoi idiomi (per usare un termine caro a Leonard Bernstein) è capace di evocare sentimenti che noi traduciamo spesso in narrazioni, con un inizio, uno svolgimento e una fine. Questo piacere artificiale può essere “allenato” tramite lo studio e l’ascolto reiterato, che fortificano certi collegamenti neurali che diventano il nostro punto di riferimento, il nostro gusto per certi versi. La sovraesposizione dei Beatles li ha resi la pietra di paragone per tutto quello che ne ha seguito, ovvio che chi era cresciuto con gli Everly Brothers o i Crickets non gli parevano un granché, infatti all’inizio la band fu presa come una commercialata per il fiorente mercato femminile, e furono anche sponsorizzati in quest’ottica, ma per questo suo nuovo pubblico i Beatles furono l’inizio di una nuova esperienza, quella della musica americana di consumo, esperienza centrale nel mercato internazionale ancora oggi (queste distorsioni esistono anche nello studio accademico della musica, la centralizzazione del pensiero occidentale non è una verità storica ma una percezione della nostra civiltà).

Nei primi anni ’60 le maggiori riviste con i loro critici di punta colpirono durissimo i Beatles, rimanendo storicamente sconfitti dalle vendite sempre più impressionanti della band – una storia che continua a ripetersi, pensate solo a Queen, Green Day, Led Zeppelin, Linkin Park, Black Sabbath, Nickleback e via discorrendo. Ma ciò che veniva criticato alla band non erano solo le gimmick (tipo il taglio di capelli coordinato), ma sopratutto la qualità dell’esecuzione. In una stroncatura del New York Times del 1964 c’era scritto: «La qualità vocale dei Beatles può essere descritta come un’incoerente suono rauco, a mala pena adatto per comunicare i loro testi schematici.» In generale, almeno ai tempi della loro prima tournée statunitense, erano considerati da molti esperti del settore come l’anti-musica, una vera e propria banalizzazione a favore di un abbassamento della soglia di comprensione dell’ascoltatore. Eppure in poco tempo questa sensazione cambiò radicalmente, e i plausi per la band si fecero sempre più numerosi e autorevoli, e mentre il fronte antagonista cominciava ad indebolirsi nelle colonne dei giornali tradizionali, tantissimi nuovi critici si affacciarono sulla scena proprio per amore dei Beatles e misero le basi per il nuovo giornalismo musicale, da una parte le fanzine pop, dall’altra le prime riviste musicali strettamente rock.

Poco prima scrivevo che l’altro approccio problematico all’opera beatlesiana è quello ideologico. Il primo vero e irrisolto peccato della band fu, come spesso accade, quello del successo. La musica dei Beatles piaceva, tantissimo, e prima di “Rubber Soul” il 99% del pubblico tipico della band era composto effettivamente da ragazzine in delirio ormonale. Quante volte ancora oggi il gruppo che esce dall’anonimato e conosce finalmente il successo internazionale viene tacciato di tradimento dai suoi fan storici? Questo aspetto l’antropologia lo spiega con scientifica crudeltà, siamo animali sociali che vivono in società gerarchiche, e la conoscenza ha un suo ruolo nelle gerarchie delle nostre tribù. Una volta che una conoscenza non è più esclusiva perde il suo effetto persuasivo sul resto del gruppo, diventa popolare, quindi inutile. Oltre a questo ci sono anche le prese di posizione aprioristiche sempre dettate da logiche ideologiche. Una critica che ha come riferimento valoriale l’icasticità espressiva vedrà nei Beatles un gruppo formato a tavolino costruito per fare soldi con le pubblicità e i film di seconda categoria. Una critica improntata sugli aspetti più avanguardisti invece noterà la derivazione dei Beatles in tutti gli aspetti melodici, e sosterrà l’inutilità della loro ricerca laddove perlopiù dovuta a degli studi di registrazione esclusivi (e anche quando frutto dei quattro, comunque in ritardo su altri artisti meno conosciuti dal grande pubblico). Come vedete però l’approccio non è mai immediato, esperienziale, ma filtrato dal fatto che i Beatles siano a loro malgrado portatori di concetti e significati che offuscano il prodotto musicale di per sé

Personalmente non credo che nessuno si offenda nel dire che i Beatles siano stati la più grande rock band di tutti i tempi, anche perché è un’affermazione talmente assurda da non avere alcun significato. Così come lo sarebbe sostituendo i Beatles con qualsiasi altro artista o band presa singolarmente. Non c’è un modo oggettivo per decretare l’artista “migliore”, chiunque proponga questo tipo di pensiero lo sta facendo attraverso una precisa idea di estetica o di classificazione, che è quindi opinabile alla radice. Il “migliore” è quello che ha più album venduti? Il “migliore” è quello che ha sperimentato di più? Il “migliore” è quello che ha provocato più? Perfino a livello tecnico non c’è unanimità tra gli esperti su quanto i Beatles fossero bravi o scarsi, articoli come l’intervista di Quincy Jones a Vulture stonano gravemente con altri esperti in materia. E questo non perché non ci sia modo di capire se quella particolare soluzione di Ringo Starr sia dovuta ad un’idea straordinaria o ai suoi limiti tecnici, ma perché tutto dipende dalla prospettiva con cui si vuole capire la musica della band. Non sono pochi i video su YouTube in cui ci viene spiegato che il motivo per cui la musica dei Beatles fosse così straordinaria dipendesse esclusivamente da Ringo, piuttosto che soporifere analisi su chi tra Paul e Joh fosse il miglior songwriter, oppure di come le influenze indiane abbiano cambiato l’approccio artistico e spirituale di George Harrison. Tutto questo spesso a discapito della musica stessa, così l’apparente scomposta apertura di Drive My Car o l’inaspettato feedback in I Feel Fine diventano aneddoti senza alcun peso critico, futili medaglie al valore senza contesto, elementi di una storia che ha un senso solo nella prospettiva biografica. 

Questa infinita discussione sulla qualità di ogni membro della band è figlia di una precisa e spietata campagna di marketing che con i Beatles toccò il suo apice, ma che a ben vedere seguirà ogni nuovo fenomeno musicale dopo gli anni ’60. Fu George Harrison alla fine degli anni ‘80 ad asserire che i veri due “quinti” Beatles non fossero né George Martin né Brian Epstein, ma bensì i due loro manager e p.r. Derek Taylor e Neil Aspinall, il secondo già amico di Pete Best prima ancora che i quattro partissero per Amburgo. Buona parte delle liti più feroci erano dipese dalla relazione tra McCartney e Lennon con i loro manager, i Beatles come prodotto erano la sintesi di ben più che quattro teste. Non era forse dell’ottimo marketing le durissime critiche ricevute dalla band durante i primi tour internazionali, perlopiù contro il loro atteggiamento di indifferenza nei confronti dell’isteria di massa che provocavano? Non era forse marketing l’attenzione asfissiante sulle parole di Lennon su Gesù, o l’odio irrazionale verso Yoko Ono? Probabilmente è vero che il loro storico incontro con Dylan cambiò radicalmente le dinamiche nel gruppo, ma non intaccò in alcun modo quelle del marketing attorno a loro, che tra film dimenticabili e riviste ufficiali (come il leggendario “Beatles Monthly”) hanno posto le basi per il mercato odierno delle star del pop mondiale. 

Si può dire qualcosa di oggettivo, please?

Now, the point I want to make is that such oddities as this are not just tricks or show-off devices. In terms of pop music’s basic English, so to speak, they are real inventions.
[Leonard Bernstein durante il suo “Inside Pop: The Rock Revolution”, parlando di Good Day Sunshine dei Beatles, 1967]

Ma quindi si può dire qualcosa di oggettivo sui Beatles? Forse, ma mi chiedo quale possa essere il valore critico di una serie di parametri oggettivi, quindi di per sé non qualitativi. Si potrebbe dire, per esempio, che fanno parte di quel movimento di ripresa del rock melodico, che poi ha cavalcato l’esplosione della psichedelia (che in UK fu propedeutica per la scena progressive), il quale assieme a Move, Kinks, Animals, i primissimi Rolling Stones, Monkees e Beach Boys rappresentarono il meglio del pop melodico tra il 1963 e il 1969. Sicuramente gli intrecci più raffinati e complessi mettono Beach Boys, Beatles e Kinks in una sorta di podio virtuale in cui il “migliore” dipende esclusivamente dal gusto, ma questo podio avrebbe senso se la melodia fosse l’esclusivo metro di giudizio della qualità di una canzone. Sempre continuando con gli esempi, in confronto a Rolling Stones, Who e Small Faces, i Beatles hanno messo in maggiore evidenza le influenze canore degli anni cinquanta invece di quelle blues dal Mississippi, e quando i Beatles approcciarono l’idea del concept album calibrarono la forma anche per gli altri, sebbene gli ottimi esempi antecedenti. Eppure non sarebbe del tutto vero nemmeno questo, in fondo artisti come i Pretty Things, Frank Zappa e gli Who sperimentarono in modo molto diverso da quello dei Fab Four (e la band di Dick Taylor, Phil May e Wally Waller lo fecero persino negli studi dei Beatles!). Un particolare plauso va fatto agli Who (e alla infinita presunzione di Townsend), facendo seguire a “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band” (giugno, 1967) un brillante “The Who Sell Out” (dicembre, 1967), folle caleidoscopio di jingle pubblicitari e singoli da classifica, un lavoro molto concettuale e di peculiare riflessione socio-politica, per poi replicare due anni dopo con “Tommy”, che mescolava echi wagneriani (ben diversi dal “muro di suono” spectoriano) al blues-rock. 

Si potrebbe dire, sempre secondo una prospettiva oggettiva, che in comune con i Kinks i Beatles avevano il fatto che erano più forti con i singoli che con gli album. So di dire qualcosa di molto controverso per i fan, però cercate di seguirmi: nel “White Album”, considerato da tanti appassionati ed esperti del settore come uno dei capolavori della band, ci sono pezzi di ingiustificabile bruttezza come Ob-La-Di, Ob-La-Da e Don’t Pass Me By, e io capisco che While My Guitar Gently Weep faccia piangere tutta la famiglia quando la strimpella Eric Clapton, ma sono canzoni che non hanno il peso di una Helter Skelter (e forse neanche di una brutta ballad di Barry Manilow) e che dunque inficiano in modo irreparabile sulla qualità complessiva di un’opera. In generale i veri capolavori dei Beatles sono le raccolte (per gli insulti, le minacce e le denunce tramite avvocato scrivete pure a: genericamentegiuseppe@gmail.com), e non è un caso se l’album più venduto della storia della band sia del 2000, ovvero “1”, una compilation di tutti i singoli che toccarono la prima posizione in UK e negli USA tra il ’62 e il ’70. Con questo non sto dicendo che gli album dei Beatles non siano pieni di canzoni valide e di successo, in particolare dopo il ’64, ovvero quando Lennon e McCartney presero le redini del progetto e le canzoni acquisirono anche maggior consapevolezza nelle liriche e si spinsero delle volte con coraggio nel panorama a loro contemporaneo, ma che come capitava spessissimo negli anni ’60, gli album erano zeppi di riempitivi. Il caso più eclatante forse è quello dei The Move, passati in poco tempo dal pop, alla psichedelia al prog riuscendo a mala pena ad azzeccare un primo album e poi un paio di canzoni al massimo per disco, pur restando ben aggrappati alle vette delle classifiche per un po’ di tempo.

Sarebbe interessante adesso fiondarsi nel riascolto della discografia beatlesiana, e c’è davvero il rischio che questo articolino insignificante diventi uno di quei orribili post-valanga alla Not o alla Noesy, ma per fortuna si è fatto tardi e ho fame. Aggiungo solo qualche mio sghiribizzo, ovvero che l’album più influente per la sua generazione rimane quello del Sergente, il più importante per la band probabilmente “Rubber Soul”, il più eclettico il Bianco, il più solido a distanza di anni “Abbey Road”, il più divertente il “Magical Mystery Tour”, gran parte delle cose uscite prima del ’64 sono piuttosto imbarazzanti e “Revolver” è uno degli album più sopravvalutati della storia della plastica, ma su ognuno di essi si è detto tanto, troppo, e della mia personale opinione probabilmente non gliene frega niente a nessuno. Un altro problema che però secondo me deriva da questo culto, prima adolescenziale e poi agiografico, è stato quello di elevare la band a questa sorta di monolite intoccabile e inafferrabile, come se i loro giri di chitarra fossero tutt’altra cosa da quelli di Hank Marvin, Link Wray o Pete Townsend, o la loro sezione ritmica più rivoluzionaria ed complessa di qualsiasi altra band, James Brown, Who e Soft Machine compresi (la stessa cosa accade in tutti i paesi, in Italia abbiamo l’esempio di Lucio Battisti). Avrebbero meritato la stessa attenzione dei Beatles i Kinks, per dire, che hanno fatto del songwriting di altissimo livello sfornando classici a non finire. Sarebbe bello leggere approfondimenti sui Beach Boys che non ci rompessero l’anima con “SMiLE” ma si avventurassero nella discografia tarda della band. Senza dubbio ci vorrebbero più analisi sugli Small Faces, magari accompagnate da una bella biografia fatta con i contro-così-detti e criticamente valida, e sarebbero assai graditi degli studi più tecnici anche sugli Who e sul rock strumentale di inizi anni ’60 prima del cambio di paradigma inglese, oppure qualche pubblicazione sul sottobosco fatto di Remains, Shadows, Troggs, Kim Fowley, Music Machine, Seeds, Godz e via dicendo – e con questo non sto assumendo che non esista niente di tutto questo, ma che è tutto ingiustamente sproporzionato nei confronti della letteratura beatlesiana. 

Non è la prima volta nella storia della musica che si assegna a dei musicisti troppa importanza per quel che hanno realmente espresso, sia in senso positivo che negativo. Platone era terrorizzato dall’avvento del modo lidio che secondo lui avrebbe portato al decadimento dei valori della sua generazione, un po’ come oggi tanti sostengono che la trap sia il fondo della bottiglia della musica pop derivativa dal novecento, una sorta di punto di non ritorno. Si pensa che la psichedelia nel rock sia nata per una band, massimo due, così il metal o il prog, ho già scritto di come se qualcuno dal balcone grida: «Grunge!» qualcun altro risponderà con: «Nirvana!», la semplificazione invece di venire in aiuto per orientarsi nel complesso panorama musicale diventa troppo spesso metro di giudizio definitivo attraverso l’abuso di classifiche, liste e similia. Figure ottocentesche come Beethoven hanno più agiografie che biografie, alimentando un mito che purtroppo oscura la sua produzione musicale preferendo l’aneddoto all’ascolto consapevole, forse è una dinamica inevitabile, che non può essere arginata né dalla critica né dai fruitori. 

Che i Beatles siano stati immensi o piccolissimi non è più un compito del critico da valutare, perché la loro influenza ha superato di gran lunga la qualità delle loro composizioni, rendendo questi quattro ragazzi scapestrati delle icone al di sopra delle aspettative di chiunque, il simbolo di una generazione, l’inizio di qualcosa che in realtà c’era già ma era stato troppo frettolosamente dimenticato. 

Conclusioni

La Qualità non serve per decorare soggetti e oggetti come i festoni di un albero di Natale. Dev’essere la loro fonte, la pigna da cui spunta l’albero.
[R.M.Pirsig, Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, p. 283]

Siamo figli della percezione dei nostri genitori, e sembra che la critica non riesca a colmare questo gap. Probabilmente però la colpa è anche della critica stessa, la produzione di “storie” della musica rock è limitata, e gran parte delle uscite nazionali ed internazionali sono di bassa qualità complessiva, la maggior parte per esempio salta a piè pari gli anni ’50 partendo proprio dalla British Invasion come punto d’inizio ideale! In risposta a questa tendenza esistono diverse riviste o forum su internet che invece ribaltano la situazione, facendo passare gruppi come i Godz o i Troggs come molto più influenti di quanto fossero effettivamente stati, tacciando la musica inglese di essere al massimo una discreta digressione di quella americana, il che è un’assurdità. E anche in questo post coesistono diversi bias, perché non si è parlato della musica indiana degli anni ’60, dell’esplosione garage in Giappone, Nuova Zelanda e Australia, del beat italiano dei Corvi, della musica elettronica tedesca che tanto doveva a quella sperimentale americana dei gruppi di rock strumentale, delle influenze del Tropicalismo, ecc. ecc. Viviamo in tempi in cui la semplificazione non è più una scusa accettabile, la possibilità di raccogliere materiale è stata incredibilmente facilitata, e così anche l’occasione di studiare testi e saggi da ogni parte del mondo. La critica rock dovrebbe cominciare a lasciar stare gli epigoni di Lester Bangs, oppure l’approccio dialettico-marxista di Simon Reynolds, o l’analisi per compartimenti stagni (ovvero nazionali) alla Simon Frith, bisognerebbe prendere di petto questa Storia e sviscerarne tutti gli aspetti, compresi quelli apocrifi, come le pubblicità radiofoniche dei dischi, la storia dei formati di riproduzione, le questioni culturali sospese e quelle risolte, gli aspetti antropologici e i nuovi approcci neuroestetici. Lo diceva anche Goffredo Fofi in una recente intervista a Fanpage che non ha più senso di esistere il critico iper-specializzato, bisogna pretendere una critica più aperta alle contaminazioni. Più che chiederci se i Beatles sono stati la più grande rock band di tutti i tempi, bisognerebbe chiederci che senso ha una critica che si pone questo genere di domande.

The Rolling Stones – Between The Buttons

The Rolling Stones
Etichetta: Decca 
Paese: Regno Unito
Pubblicazione: 1967

Everything is going in the wrong direction.
The doctor wants to give me more injections.
Giving me shots for a thousand rare infections
And I don’t know if he’ll let me go

Me ne accorsi un anno fa più o meno, che già faceva freddo. Subito dopo essermi sparato “Between The Buttons” metto sù “Sticky Fingers” e già dal riff di Brown Sugar mi rendo conto che manca qualcosa. Mi metto a giocare con l’equalizzatore per un po’, eppure già arrivato ai dolci solchi di Wild Horses quella strana sensazione continua. Manca qualcosa. Forse è il surround. Magari è la manopola che regola i toni alti che si è allentata di nuovo. Io non sono un tipo da ballad, e sebbene Wild Horses sia costruita a regola d’arte per farti venire il magone, come la sequenza del cappottino rosso in Schindler List, mi lascia comunque indifferente. Quella volta però c’era qualcosa di nuovo, quella fastidiosa sensazione di vuoto, come se il suono fosse troppo pulito, modellato su insensibile plastica. Così mi venne un’idea.

Metto sù “Beggar Banquet” da Stray Cats Blues. Ascolto attento. La prima cosa che penso, lo giuro su Frank Zappa, è: cazzo come ci stanno bene quel cazzo di mellotron e il piano. Ci sono più Velvet Underground qui che nell’ultimo dei Parquet Courts. Che poi si dice sempre Heroin, ma io ci sento I’m Waiting For The Man invece. Opinioni. Che arrangiamento, che densità sonora. Cambio, metto Bitch da Sticky. Bel riff eh, però basta insomma. Sì, c’è più tiro del solito ok, suona più “rock” in un certo senso, concluso lo storico e controverso contratto con Decca gli Stones suonano più cattivi, più tirati e ovviamente più volgari, però l’ambiente sonoro è piatto, tirato a lucido e con le cazzo di chitarre davanti a tutto il resto (inoltre Mick Jones è come il cheddar, mi risulta sempre più indigesto con l’avanzare dell’età).

Di nuovo cambio, stavolta tocca a Please Go Home da Between. Non mi era mai piaciuta tanto. Non mi basta più tenere il tempo con il piede. La chitarra a destra stile Bo Diddley vibra finché non diventa un miraggio desertico alla Link Wray, la batteria a sinistra martella ipnoticamente, persino la voce si perde a tratti, il contesto sonoro è impreziosito da Wyman e dall’oscillatore suonato da Brian Jones. Brian Jones. Che idiota. In “Sticky Fingers” non c’è Jones. Who’s Been Sleeping Here sta scorrendo sul piatto e io mi rendo conto di quanto Jones oltre ad aver chiaramente dato un importante contributo alla band come fine musicista, ne era invece il principale interprete dell’ambiente sonoro, un paziente costruttore di oscillazioni, temi impercettibili eppure fondamentali per il concetto, vibrazioni febbrili, rifiniture tutt’altro che masturbatorie. Brian Jones stava agli Stones come Blixa Bargeld a Nick Cave.

Dite quello che vi pare ma anche se Jones non appare, il suo spettro si aggira ancora in Gimme Shelter, nella cura maniacale di quella atmosfera vertiginosa che caratterizza l’apertura di “Let It Bleed”. Lo si sente ancor di più con l’ascolto in successione di “Sticky Fingers” e “Exile On Main Street”. Ho sempre considerato Exile come una sorta di compendio della grandezza degli Stones, eppure mentre All Down the Line scorre piacevolmente di sottofondo lo sento ancora, quel vuoto. 

“Between The Buttons” è decisamente il capolavoro dei Rolling Stones, ad oggi riesco a vederlo molto più chiaramente, e lo dico sebbene sia consapevole che sia stato in pratica il loro unico grande flop durante il periodo d’oro del rock inglese. Ovviamente continuo a considerare “Aftermath” uno degli album fondamentali per comprendere il rock, ma in Between esiste una coerenza di fondo inedita per la band, oltre che una cura al dettaglio che non svilisce la forza dei singoli pezzi.

Ora non voglio fare le distinzioni alla cazzo: arte o non-arte, perché il rock è sopratutto intrattenimento e non roba da sedie di velluto da ascoltare sorseggiando un cocktail (urgh!), poi è chiaro che chi scrive preferisca Klaus Schulz ai Chicago o “Metal Machine Music” a qualunque album dei Farfuglio (/Foo Fighters), ma nemmeno sono abituato a negare i fatti: quando leggo le righe di passione di Klosterman per i Mötley Crüe non posso non amarli un po’ anche io proprio perché quintessenza della cazzoneria e dello show a stelle e strisce.

Ora: non so che volessi dire con questa cosa dei Mötley Crüe, non ci capisco più niente fedeli seguaci, ma quello che so (oltre al fatto che come al solito non correggerò questo post, perché non ho il tempo nemmeno per guardarmi allo specchio da mesi) è che sì: “Aftermath” è imprescindibile, “Beggars Banquet” è molto più catchy (Dear Doctor mi esalta ogni volta che l’ascolto, come ha fatto un gruppo con questa sensibilità a scrivere cose come Too Tough resterà per sempre un mistero), ma il vero gioiello di questa leggendaria band resta quell’esperienza pop-rumoristica-lisergica di “Between The Buttons”.

Non diciamo psichedelia per favore, che col Texas e gli Acid Test i Rolling Stones c’entrano come i cavoli all’apericena (oppure si usa? che cazzo è un’apericena?), non diciamo progressive che facciamo ridere perfino quelli di Rockit. Between è il lavoro più inglese della band londinese per eccellenza, peculiare proprio per la sua forte connotazione nazionale, uno sguardo disincantato verso il passato che deflagra definitivamente tra She Smiled Sweetly e Cool, Calm & Collected. Jagger non fa più i versacci, Richards non è quasi mai in primo piano, stavolta protagonista impercettibile un cromatismo che a parer mio si magna tutto Sgt. Pepper, grazie allo sforzo profuso dalla mente perfezionista di Brian Jones.

Saturo come nessun altro album degli Stones, a parte forse “Their Satanic Majesties” che per me è quasi tutto pattume (ma che oggi vive una stagione di rivalutazione ingiustificata e francamente ridicola), composto nel momento più fertile della storia della musica rock, quel 1967 che vide al massimo splendore pesi massimi come Small Faces, Red Crayola, Lovin’ Spoonful, Kaleidoscope, Godz e Fugs, Electric Prunes, Doors, Deviants, Byrds, la blues band di Butterfield, Pink Floyd, Moby Grape, Love, Leonard Cohen, Velvet Underground, un 1967 che gli Stones riescono a segnare con un’opera molto più complessa di quanto possa sembrare dopo un paio di ascolti, o nel mio caso anni. Posso dire a mia parziale discolpa di non essere mai stato il primo della classe, se buttate un occhio alle vostre spalle io ero quello che all’ultimo banco disegnava le avventure di Conan il Barbaro con i pennarelli Carioca.

Ora non è che Sticky e Exile siano da buttare, proprio qualche giorno fa (settimane? mesi? anni?) elogiavo il dialogo omoerotico tra Richard e Mick Taylor in Can’t You Hear Me Knocking, ma alla luce della densità maniacale di Between, che badate bene non è il solito barocchismo dimostrativo delle avanguardistiche tecniche di produzione tipicamente inglese, ma bensì consapevole costruzione di strati sonori che veicolano un (TRIGGER WARNING) messaggio, non posso che lanciarli giù dal balcone, cercando di prendere in testa il condomino con la passione per i Nazareth. 

L’avessero scritta nel 1971 Who’s Been Sleeping Here assomiglierebbe probabilmente ad una ballad qualsiasi, senza quel meraviglioso ingolfarsi della batteria nel mezzo, e avrebbe un Richard in primo piano, magari acustico, a coprire qualsiasi mancanza compositiva. She Smiled Sweetly sembra uscita fuori da qualche musica per parata, Jagger accompagnato da un organo da chiesetta di periferia, col pianoforte che compare a destra per sottolineare la struggente melodia, senza eccessi di patetismi o dramma, dannatamente inglese. Il pop storto di Connection possiede uno spleen formidabile considerando che dura un minuto e mezzo senza grandi cambiamenti, e dove l’urgenza delle parole si sposa perfettamente col basso percussivo di Wyman. Yesterday’s Papers è forse l’unico pezzo che non mi ha mai convinto del tutto, con le solite infiltrazioni classiche che caratterizzano il pop inglese del Merseybeat, che disprezzo con tutto il cuore perché fini a se stesse, arzigogoli che impreziosiscono una scrittura che però esprime un sacco di banalità. Ma subito dopo il lavoro del solito Wyman al piano elettrico in My Obsession fa passare ogni paura. Senza Jones questi preziosi passaggi si perderanno per sempre dietro il primato del riffone spacca-caviglie. Miss Amanda Jones vede alla destra Wyman e Richards, alla sinistra Jones e Ian Stewart al piano, un rock n’ roll col piglio del miglior Jerry Lee Lewis ma arrangiato deliziosamente.

I più attenti di voi si saranno già accorti da un po’ che parlo della versione inglese dell’album e non di quella USA, sinceramente non me ne frega molto a quale versione siete più affezionati, sono entrambe il capolavoro degli Stones per me, sebbene qualche purista sicuramente rabbrividirà a cotanta affermazione.

Bruciate le vostre copie di “Some Girl” e “Undercover” eretici, Cristo di è fermato a “Between The Buttons”.

Podcast – Gli album peggiori delle band migliori

Sì, ok il titolo fa schifo ai cani, ma il podcast è interessante a bestia. Ci stanno Television, White Stripes, Velvet Underground, Rolling Stones, insomma roba che scotta gente! Sparatevelo nelle orecchie e serbatelo per un po’ tra il cerume, perché la prossima settimana non andiamo in onda (di solito è ogni martedì alle 21:30 su Radiovaldarno).

«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»

The Rolling Stones – Tattoo You

Rolling Stones

“Tatto You” non è stato semplicemente un fottuto disco di rock and roll, è stato l’ultimo album rock degno di questo nome. Da allora si è vista tanta roba, ma il rock classico finisce nel 1981 con questa bellezza (o cagata assoluta, dipende dai gusti). [aggiunta 08/11/14: sì, ho scritto una puttanata micidiale, però ogni tanto ci vuole, almeno per ricordarci che il genepì a colazione non fa bene]

In “Tattoo You” non ci sono capolavori come Street Fighting Man, non c’è Paint It Black, non c’è la bellissima Stray Cat Blues, c’è solo un ritorno ad un sound più puro, più semplice, più blues e a volte semplicemente molto Rolling Stones.

Se vi dicono che i Rolling Stones hanno fatto la loro fortuna sulle spalle dei grandi del blues, passando senza ritegno da Robert Johnson a Muddy Waters, beh, hanno ragione da vendere, ma questi ragazzi bianchi hanno preso quanto c’era di importante in quelle note ispirate da Dio (anche se Lester Bangs direbbe «da Satana») e l’hanno portato da noi lasciando che potessimo cibarcene.

Il blues (sopratutto nella sua accezione rock) è una musica che parla alle budella, non alla testa. È inutile che vi infangate con roba tipo John Zorn o Nico, a che vi serve se prima non avete assaporato quella musica da cui tutto, volente o nolente, proviene.

Se credete di parlare di roba “alta” concedendovi un chiacchierata su Led Zeppelin, Deep Purple o Rolling Stones siete proprio fuori strada. Non era di certo musica per i palati fini quella, non è fatta per riflettere troppo, quel momento di psichedelia di Whole Lotta Love che poi esplode nelle mani di Bonham che ci fa tornare nella realtà non serve per poter concentrarci meglio verso le derive esistenzialiste di Céline, e di certo la suadente progressione di As The Sun Still Burns Away dei Ten Years After non è concepita per una serata accompagnata da una gara di sonetti improvvisati tra amici.

Quello che facevano tanto tempo fa i Rolling Stones era mettere lì un paio di note una dietro l’altra e farti balzare dalla sedia come un pischello. Tutto tranne che la miglior band rock di sempre, anche se sono sempre restio nel dare delle classifiche, chi vi fa credere che esiste un metro di giudizio oggettivo nella musica rock probabilmente è un flippato che crede che pure le feci di Frank Zappa su un piatto suonino divinamente.

Tattoo You

Ovviamente registrato sotto la Rolling Stones Records, il disco è un mix perverso di pezzi tirati a caso tra jam session e registrazioni di altri album, il tutto ben confezionato da esperti di marketing e da un grandissimo copertinista come Peter Corriston.
Non c’è molto da dire su questo album, perché và ascoltato senza pretese e senza alcuna guida, lasciandosi trasportare.

Start Me Up fu un grande successo pure come 45 giri, le radio in tutto il mondo l’hanno mandata per anni, e ancora oggi il suo riff fa la sua porca figura. Una vitalità così in un disco rock raramente si ripresenterà.

Con Hang Fire si capisce subito che i Rolling Stones volano basso, che gliene frega a loro? Non percepite come hanno ormai appreso quello che serve? Come non si può almeno rimanere basiti dalla facilità con cui gli Stones ormai padroneggiano questo linguaggio musicale? Al di là dei meriti, sappiamo bene tutti che i Rolling Stones non valgono una gamba di band come gli Who o i Soft Machine, ma non stiamo parlando di roba così, parliamo di qualcosa in basso, ma non per questo meno apprezzabile.

Slave per me è meglio di un orgasmo. Sei minuti e mezzo in cui la linea di basso e la batteria vanno avanti imperterriti, Richards ogni tanto lo perdiamo per strada, Jagger insieme a Pete Townsend (che ci fa non lo so) si fa capo corista di un gospel scarno, senza profondità, senza poesia, al sassofono Theodore Walter “Sonny” Rollins mi fa sognare, seguo le note fino all’ultimo, e mentre il fruscio del vinile prende il loro posto sono ancora estasiato.

Little T & A è il pezzo più bello disco, semplice, rock, Keith Richards canta una folle cavalcata rock and roll che nel 1981 sta per diventare, di punto in bianco, tragicamente anacronistica (pezzo che la fa la sua porca figura anche in Argo, l’ultimo film di Affleck).

Conferma il trend, in chiave molto più nera, Black Limousine,  un tripudio di scontatezze certamente, ma in grande stile. Una goduria per uno schifoso masticatore di blues.

Neighbours è stato un pezzo abbastanza fortunato degli Stones, il che non è poco considerano la loro sterminata produzione di singoli di successo. Si torna ad un sound più moderno, un sound che caratterizza i Rolling Stones nel periodo di passaggio tra i ’70 e gli ’80.

“Stu” si fa sentire con quel soffice tocco d’organo di Worried About You, Jagger si lascia andare completamente e tocca tutte le sue corde, dall’incantatore di Angie al ruggito di Satisfaction.

Tops è l’ennesimo pezzo effimero e perfetto, incastonato in un disco che suona da solo, una volta preso il via i Rolling Stones sono andati dritto per dritto. I cori, fra l’altro, mi ricordano qualcosa dei bravi MGMT.

Heaven ripropone invece quelle atmosfere pseudo-psichedeliche che secondo me non hanno mai trovato motivo di esistere nella discografia dei Rolling Stones.

No Use In Crying riporta sui binari giusti la discussione. Dopo un minuto e mezzo Jagger trasforma questa semplicissima linea melodica in uno dei pezzi più ispirati della lunga carriera di questa band.

Il disco si conclude con Waiting On A Friend, uno sguardo verso questi ottanta che sono arrivati, e nei quali i Rolling Stones resteranno poco più che delle macchiette di loro stessi, come è in fondo tutt’ora.

Per me questo è il disco che segna il passaggio, il rock dei cosiddetti dinosauri è finito, non resta che qualche rimasuglio qua e là in queste tracce del 1981.

  • Pro: blues-rock d’annata, l’ultimo disco dei Rolling Stones (ascoltabile).
  • Contro: per i miei gusti troppe ballate, e Heaven non sa davvero di niente, ma proprio di nulla assoluto. Lato A tre volte più interessante del lato B.
  • Pezzo Consigliato: Little T & A è una chicca, rock and roll vecchia maniera, spensierato e senza pretese.
  • Voto: 6/10