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I 6 dischi essenziali per capire il garage rock (più o meno)

Non è una guida esaustiva, non è neanche un’introduzione, è giusto un mettere l’accento su delle declinazioni del garage e delle sue potenzialità espresse nel corso dei decenni.

Sonics e Cramps: cos’è un capolavoro?

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Quando si parla di capolavoro nel rock?

Questa è una domanda che nessuno cerca mai di porvi, perché la sua scomodità è intrinseca nelle fragili fondamenta della storiografia rock, ancora priva di una visione storicizzata e di una estetica completamente codificata.

Naturalmente non troverete la risposta in questo blog (ma nemmeno in quello di Cilìa o di Guglielmi che al contrario di me sono gente che ne sa a pacchi), perchè chi vi vende questo genere di risposte è un dannato mentecatto.

Come si fa a storicizzare un genere musicale di cui l’inventore (non l’unico ma il più famoso), Chuck Berry, è ancora in vita?

Però è altrettanto vero che ci sono degli eventi che hanno cambiato radicalmente il modo di fare rock, o lo hanno influenzato o in certi casi lo hanno demolito. Bisognerebbe partire da questi eventi (album, live, festival, eventi politici, etc…) per capire quali sono state le tappe fondamentali del rock. Andrebbero però contestualizzati, perché per quanto l’influenza dei Bay City Rollers, dei Kiss o degli Slade sia innegabile la loro validità in campo musicale è quantomeno opinabile.

Captain Beefheart ha influenzato più generazioni e diversi generi rappresentati da band dal valore assoluto (Pere Ubu, Mule, Minutemen, Residents, devo continuare?), Syd Barrett è il padrino di tutta la scena garage californiana contemporanea, “Metal Machine Music” ci ha donato tra le altre cose i Sonic Youth, mentre i Led Zeppelin oggi ci lasciano in eredità schifezze come i Them Crooked Vultures, i ridondanti Dirty Streets e gli atroci The Answer. Anche queste cose vanno considerate.

Oggi mi piacerebbe valutare due album che per me sono entrambi dei capolavori assoluti ma per motivi diversi. Parlo di “Here Are The Sonics!!!” (1965) e “Songs the Lord Taught Us” (1980).

Quando nel 1965 uscì l’album d’esordio dei Sonics non c’è stato uno sconvolgimento nel rock, la gente non si è riversata nelle strade chiedendo a gran voce che venissero stampate più copie di quel monolite del rock di tutti i tempi, macché, i Sonics hanno vissuto nell’indifferenza più assoluta fino all’avvento dei primi revival garagisti.

La lezione di “Here Are The Sonics!!!” è arrivata in ritardo perché troppo avanti coi tempi. Sebbene siano più celebri Kingsmen e Wailers come band degli albori del garage rock, il casino immondo che scaturisce dalle casse quando metti sul piatto questo album non è comparabile a nessun album rock mai pubblicato.

La prima cosa che colpisce, dopo il wall of sound che fa sembrare i Troggs una band di christian rock, è la voce, anzi: le urla assatanate di Gerry Roslie, il cantante più seducente e potente che abbia mai sbraitato qualcosa al microfono, facendo arrossire McCartney e Lennon con i loro fievoli gemiti, rendendo anche uno sguaiato Steve Marriott poco più di un languido cantautore folk del Greenwich Village.

Il sound è irriverente all’inverosimile, quanto di più “rock” intenso nella sua forma più pura ci sia dato di immaginare. I pezzi sono quasi tutte cover, rese con una furia mai sentita prima, ma la libidine si scatena con i pezzi originali: The Witch ha un riff che da solo fa fuori intere discografie garage, Psycho è in controtendenza con qualsiasi regola musicale, lasciando la tensione e il ritmo sempre altissimi, e riuscendo comunque a far confluire litri di sangue alle zone pelviche per tutti i suoi 2 minuti e 17 secondi, Strychnine è un pezzo che basta ascoltarlo una volta per cogliere tutta la sua magnificenza e potenza, meraviglioso Roslie che urlando come un pazzo per tutto il pezzo alla fine si lascia andare ad un inno punk ante-litteram da pelle d’oca.

L’influenza di questo album è stata devastante, difficile immaginarsi il revival garage degli anni ’80 senza i Sonics, come è altrettanto improbabile parlare oggi di garage californiano senza prendere in considerazione “Here Are The Sonics!!!”, i suoi pezzi originali sono i più coverizzati assoluto insieme a Gloria dei Them. Prima di Stooges, di Velvet Underground, prima dei Ramones, prima di chiunque, i Sonics sono il rock.

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Passiamo ai Cramps di “Songs the Lord Taught Us”, un altro capolavoro sicuramente, forse meno influente e certamente meno “visionario” dell’esordio dei Sonics.

I Cramps mi mettono sempre un po’ in difficoltà, perché soggettivamente mi fanno impazzire, i loro album li ascolto sempre dalla prima all’ultima traccia mantenendo un hype al limite del lisergico, ma oggettivamente si può dire che quell’album del 1980 è un capolavoro per il rock? In fondo cosa ha lasciato se non una breve moda (lo psychobilly o voodoobilly o come cazzo vi pare) ormai morta e sepolta?

Credo che l’immensità dei Cramps si riduca alla straordinaria potenza espressiva, dato che le loro capacità tecniche sono tutt’altro che immense hanno ripiegato su qualcos’altro. Come si può evincere dal titolo i Cramps si rifanno agli insegnamenti del primo rock, il mitico rockabilly, alle sue scalmanate feste alcoliche, al sesso e alla furia live che funge alla completa catarsi tra pubblico e musicista (o sciamano a questo punto).

I Cramps amano l’esagerazione, la teatralità raffazzonata di Screaming Lord Sutch, i riverberi alla chitarra stile surf rock, le distorsioni e i ritmi tribali, senza la presenza di un basso la sezione ritmica si fa meno corposa ma accentua la su aura “sciamanica”.

Se i Pere Ubu per spiegare l’alienazione devono rifarsi ad una retorica letteraria e teatrale non indifferenze (coadiuvata da un sound e da una esecuzione quasi del tutto originale) i Cramps invece zombizzano Elvis (Fever) e i reietti (Garbage Man), mentre gli Alley Cats volevano fuggire da questo mondo che li imprigionava i Cramps lo demoliscono con una satira nera e una visione decisamente grottesca e gotica. La crisi d’identità dell’uomo nell’età industriale non era motivo di riflessioni filosofiche (new wave) o di depressione (il punk e il post-punk di stampo gotico), bisogna invece ballare sulle macerie di questa corrotta società finché il sangue caldo ci scorre nelle vene.

La loro cover di Strychnine dei Sonics disvela l’abisso tra gli anni ’60 e i prossimi ’80, alla rabbia si sostituisce il grottesco, alle urla potenti di Roslie si sostituiscono i rantoli e i gridolini isterici di Lux Interior, alla chitarra devastante di Larry Parypa i Cramps preferiscono le note scarne di Poison Ivy Rorschach, al ritmo infernale di Bob Bennett alle pelli c’è li compatto (e volutamente sconnesso) ritmo tribale di Nick Knox.

Una proposta unica, una visione assolutamente alternativa del rock negli ultimi ’70 e i primi ’80, i Cramps di “Songs the Lord Taught Us” sono un rigurgito di rock autentico inimitabile.

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Ma la nostra riflessione non finisce qui, la prossima volta vorrei soffermarmi su due album diametralmente opposti, ovvero “The Velvet Underground & Nico” (1967) e “Larks’ Tongues in Aspic” (1973), ma stavolta cercheremo di capire perché il primo è un capolavoro universale mentre il secondo lo è solo di composizione (attirandomi così le critiche più aspre che abbiano mai assalito un blog rock).

The Black Keys – Rubber Factory

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Prima di recensire questo disco vanno fatte delle premesse:

  1. i Black Keys mi piacevano (assai), ma ora sono tra le peggiori band a giro (e vi spiegherò perché);
  2. tutto quello che hanno fatto i Black Keys lo avevano già fatto i Sonics e i Music Machine, tranne che per “Attack & Release” per cui va fatto un discorso diverso (e vi spiegherò anche questo);
  3. Coca-cola e Pepsi non sono veramente diverse per gusto o colore, ma lo sono concettualmente (sì, c’entra, e vi spiegherò perché).

Da questi tre punti, che sono le premesse necessarie per continuare questa recensione, ricaviamo i quattro passaggi fondamentali per Una Buona Recensione: 1) la storia della band; 2) la musica a cui fa riferimento; 3) la recensione del disco; 4) le conclusioni del caso.

1) La band, formata soltanto da Daniel Auerbach (cantante e chitarra) e Patrick Carney (il batterista), si ritrova nel 2001 a cazzeggiare assieme senza troppe pretese, quando nel 2002 fanno uscire “The Big Come Up”, il loro primo disco, e diventa subito un successo. Non si sa bene se sia culo o cos’altro, ma il garage-rock-blues di questi ragazzacci funziona.

Nel 2003 con “Thickfrekness” sembrano aggiustare ancora un po’ il tiro, misurandosi con un rock piuttosto hard nella filosofia del low-fi. Il secondo disco è davvero un passo avanti. Sebbene mi piaccia consigliarli entrambi a chi mi chiede “ehi, ma chi sono ‘sti Black Keys?” devo dire che Thicky ha una marcia in più. Più rumoroso, più casinista, più garage.

Continua il successo per la band, anche se molti critici nostrani sembra che credano fermamente che prima di “Attack & Release” non li cagasse nessuno (perché non se li cagavano loro). Invece già col secondo album, prodotto dall’ottima etichetta Fat Possum Records (che annovera nomi come quelli di Iggy Pop, Andrew Bird, i Caveman, i Dinosaur Jr. e altri) i plausi dalla critica americana non sono pochi, e i loro pezzi si sentono ovunque, dalle radio ai cinema.

Arriva nel 2004 “Rubber Factory”, un lavoro egregio a mio avviso (e il mio disco preferito dei Keys), ma ne parleremo meglio dopo.

Con “Magic Potion”, disco uscito nel 2006, comincia il declino. Il sound si addolcisce, il rock sembra un tantino stantio, non voglio dire che non sia rock, dico solo che è un rock svogliato, inutile fine a se stesso, senza energia! 

Intanto iniziano ad essere prodotti dalla Nonesuch Records (etichetta della Warner), e già nel 2008 accoglieranno anche la Danger Mouse. Il sound cambia, e parecchio.

Attack & Release” esce proprio nel 2008, l’arrivo della Danger Mouse si fa sentire, e il disco è quasi certamente il miglior lavoro della band, o quasi.

Il lato A risulta una bomba di psichedelia e rock d’annata, c’è l’elegiaca All Your Ever Wanted (un finale tra i più belli), godurioso il riff di I Got Mine che ricorda le cose migliori di Rubber, ma con un sound pulito e sofisticato (per quanto possa essere sofisticato un disco dei Black Keys), bella anche Psychotic Girl, insomma, un disco abbastanza cazzuto. Ma già nel lato B le cose si calmano. Sebbene pezzi come Se He Won’t Break siano cento volte meglio di qualsiasi cosa passi per MTV e affini c’è una certa artificialità nell’esecuzione. Insomma: non è la solita solfa, abbiamo lasciato il garage dei Sonics per andare a cercare lidi più complessi e raffinati.

Il sesto disco arriva nel 2010, è “Brothers”, questo è l’album che porterà i Keys ad essere conosciuti in tutto il mondo, ed è un delusioni totale.

Arrivato al negozio non mi siedo neanche per ascoltare, lo compro, speranzoso di sentirmi ancora qualche bel riff cazzuto e momenti di delirio, ed invece mi ritrovo preso in giro come poche volte nella mia vita! Cazzo gente, “Brothers” è una fregatura bella e buona! Un disco piatto, noioso, ripetitivo oltre misura! Non salto sulla sedia su nessun riff (che poi sono rumori indistinti), non c’è mai un cambio di velocità che si faccia notare, mai un’idea, assomiglia esageratamente a “Keep It Hid” (2009) il disco solista di Auerbach che altrettante perplessità mi lasciò a suo tempo. Che pena.

La solfa non cambia, anzi, peggiora, con “El Camino” (2011), un disco che suona come un affronto al rock duro e puro delle origini, il simbolo di una band venduta a MTV e ai colossi della musica.

Non solo il titolo riporta alla mente idee malsane come “Bananas” (perché chiamare un album come una macchina? Insomma, il titolo di un album è la sua presentazione, cosa dovevo aspettarmi da “El Camino”, una serie di sample di Chevrolet che sterzano a tutto fuoco?) ma oltretutto diventa il loro maggiore successo!

All’interno c’è di tutto per il campionario delle ovvietà e della noia, mi limito a segnalare i due pezzi migliori, se così si posso definire. Gold On The Ceiling viaggia abbastanza bene, il riff ti entra in testa come l’organo elettrico, ma non è che sia chissà che pezzo. Little Black Submarines sembra un tentativo di migliorarsi nella composizione, peccato che poi non lo sia, sembra un rock brutto, ignorante (che razza di aggettivi sono? Boh, è quello che mi è venuto in mente).

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2) I Black Keys, musicalmente parlando, partono con i Sonics, partono col garage. Sebbene nelle loro zone ci si ricordi perlopiù dei Devo, i Keys sotto sotto sono un po’ dei californiani in trasferta a Detroit. Dopo gli inizi rudi che band come i Von Bondies o gli Stripes hanno appena assaggiato, al contrario proprio del più famoso duo rock  si sono venduti alla grande, addolcendosi schifosamente, ipoteticamente pronti per suonare negli Hard Rock Café accanto a Rihanna.

Ora basta cazzeggiare, recensiamo.

3) “Rubber Factory” mi eccita.
Ma non come la caffeina.
Ecco, avete capito.

Quando ho udito le prime note di When The Lights Go Out intuì che questo era un disco per me. Lento, blues, garage, questo pezzo ferma il tempo attorno a me, con pochi accordi raggiunge l’anima (o le palle, fate voi) e mi stuzzica nel profondo.

Poi avviene. Rubber parte a razzo, senza esclusione di colpi mi assesta sul groppone riff assassini come quello di 10 A.M. Automatic, robette come Just Couldn’t Tie Me Down e All Hands Against His Own non passano inosservate ai tuoi vicini.

Da qui in poi potrei tranquillamente citarvi ogni pezzo leggendo il retro del cd, questa roba scotta amici miei! Girl Is On My Mind è un pezzo energico, cattivo, ma la perla del disco per me è la cover di Grown So Ugly, la quale col cazzo che è presa dall’originale di Robert Pete Williams, ma asseconda quella geniale e irripetibile versione del grandissimo Captain Beefheart, direttamente da “Safe as Milk” (1967). Già solo questo vale il prezzo del disco.

Ma non è finita qui.

4) Le conclusioni non sono niente di trascendentale: la Coca-cola è arrivata prima della Pepsi.

Forse questo non vi dice niente, ma se la Coca sono i Sonics e la Pepsi i Black Keys, allora il discorso cambia. Perché se la Coca non avesse avuto gli esperti di marketing che la pubblicizzavano a suo tempo, oggi non se la filerebbe nessuno. Ma uno zoccolo duro di intenditori continuerà a preferire la Coca alla Pepsi. Perchè mai, direte voi, solo per una stupida questione su chi ci è arrivato prima? No, è perché c’è una differenza concettuale di fondo: la Coca ha già detto tutto mentre la Pepsi ripete a pappagallo! 

Non solo: quello che la Coca ha detto lo ha detto quando nessuno era pronto ad ascoltarla, quando il mercato voleva la limonata (melodie country-rock orecchiabili), prima che l’invasione delle multinazionali (la British Invasion) distruggesse quello che fin lì era stato conquistato! La Pepsi non ha solo una differenza di tipo cronologica, è concettualmente un abominio! Vuole sopperire alla Coca travestendosi come tale, ma deviando l’ardore rivoluzionario degli albori per vendere di più! Questa è la tragedia dietro i Black Keys!

Detto questo “Rubber Factory” è un bel disco, anzi: è l’ultimo disco con le palle dei Keys, perché sebbene abbiano preso il sound dai Sonics l’hanno fatto con passione e personalità (le tinte blues sono loro, tanto per intenderci), mentre con “Brothers” e “El Camino” hanno fatto cassa sul loro nome per storpiare la Grande Lezione del garage delle origini, lasciando il rumore ma togliendo l’anima.

  • Pro: il loro capolavoro, un buon disco garage-rock in tinta blues.
  • Contro: fa rabbia pensare che si siano sputtanati in questo modo, perché il disco non ha proprio alcun difetto.
  • Pezzo Consigliato: bellissima la loro versione di Grown So Ugly, un bel tributo al mitico Beefheart.
  • Voto: 7/10