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Chook Race – Around the House

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Etichetta: Tenth Court
Paese: Australia
Pubblicazione: 2 Settembre 2016

Ogni tanto mi va un po’ di pop. Ma con gusto.
Tutto quel pop con attitudine punk che dai The Gerbils arriva ai R.E.M.. Per attitudine punk non intendo rutto libero e birra scadente, né GG Allin, ma quel nichilismo adolescenziale dei Ramones che distorce il mondo in una enorme gara verso la felicità che tu, sì sì proprio TU, hai perso in partenza. Quello.

Per un punk così non c’è bisogno sempre di fare un gran casino, lo si può anche sussurrare ad un microfono mentre fuori nevica, svelando che sotto tutta quella furia c’è un mucchio di fragilità da nascondere.

In questo blog abbiamo parlato più o meno approfonditamente di Free cake for every creature, The Stevens, Quarterbacks, All Dogs, Baby Mollusk e forse di altri che ora non ricordo, tutte band accumunate da un modo di raccontare l’adolescenza con calma e riff alla The Bats, magari senza la forza prorompente della storica band neozelandese, ma armati di un po’ di pericolosissima timidezza.

Stavolta siamo sulle sponde australiane, e immagino che chiunque possegga la leggendaria raccolta “Do the Pop!” sappia bene che quando si parla di garage pop si parla all’80% di Australia. Nel 2013 era uscito “A History Of Hygiene” dei The Stevens, quasi un concept sull’adolescenza che gira attorno a tutti i problemi senza colpirne in pieno nemmeno uno, ma lasciando un senso di reale sconforto e confusione, tutte e due sensazioni decisamente adolescenziali, probabilmente una delle migliori espressioni del genere degli ultimi anni, anche se non mi aveva entusiasmato. Stavolta invece con “Around The House”, dei Chook Race, veniamo strattonati per una manica del pigiama, ci danno in mano una piccola lanterna elettrica e ci infiliamo con loro sotto le coperte, entriamo in quel circolo vizioso di «work, eat, sleep, repeat» tipico di un certo indie australiano, una dimensione dove l’età adulta sembra non arrivare mai.

Dopo un 7” pollici ancora ancorato ad un garage rumoroso nel 2012, i Chook Race rilasciano il loro primo album su Bandcamp nel 2015, finalmente definiti nella forma e nella sostanza. L’unico chiarissimo difetto di “About Time” è che tutto quello che viene abilmente descritto nelle liriche raramente è seguito da un garage pop orecchiabile, si sentono le potenzialità e l’album scorre bene, ma poche volte riesce a comunicare con urgenza quella fragilità di cui parlavamo poco fa.

Di queste potenzialità però se ne accorge la Tenth Court, piccola etichetta indipendente australiana, e così “Around the House” può uscire questo Settembre con una produzione più accorta, e persino una distribuzione internazionale grazie alla Trouble In Mind Records.
Deliziosa perla pop questo secondo lavoro dei Chook Race è diventato uno dei miei leitmotiv da mettere in auto durante le giornate più grigie, dove anche la separazione tra asfalto e cielo non è così definita.

La dolcezza sconfortante di Pink & Grey, dove le due voci di Robert Scott e Kaye Woodward si mescolano senza calore, gli scudi così effimeri di Eggshells, il riconoscere i nostri limiti in At Your Door o nella intima Sorry, si può ben dire che stavolta non è solo un lavoro di liriche, perché viene tutto accompagnato da delle progressioni di accordi davvero degne dei The Bats. Provate a sentire la veemenza quasi punk di una Pictures of You, calmierata da un suono spalmato nel brevissimo ritornello, sensazioni condensate su un vetro di una piccola cameretta in una casa in periferia.

Non c’è dubbio che tra le 10 tracce di “Around the House” abbiamo un vincitore dal punto di vista dell’equilibrio tra riff-liriche-adolescenza, perché Hard to Clean spacca i culi con la gentilezza del cantato sommesso (lei tremendamente simile a Katie Bennett dei Free cake for every creature), l’andamento quasi da punk anthem, ma sempre sotto le coperte. Segnalo anche Lost the Ghost, che sfoggia un riff garage pop anni ’80 che levati. 

Non so se è una mia perversione ma mi piace QUESTO garage pop, non quello di band come i Wyatt Blair e i vari compagni di merenda al Burgerama Music Festival, troppo disimpegnato e ironico senza essere auto-ironico. Forse non è nemmeno un caso che riprendo in mano questi dischi quando inizia a far davvero freddo, alla fine è quasi una reazione psicologica, necessità di affrontare i miei/nostri circle jerk mentali senza urlarli ai quattro venti, ma guardandoli condensare il respiro su un vetro che dà sull’inverno.

D’Angelo And The Vanguard, russian.girls, Gangbang Gordon, The Stevens, Total Control

INTERNETHATE

Le recensioni di oggi sono davvero particolari per questo blog, r’n’b, hip pop, pop sofisticato, tutta roba che di solito non prendo in esame per due motivi:

  • non mi interessano,
  • notoriamente non ci capisco una emerita mazza, ed è meglio star zitti quando non sai un signor cazzo dell’argomento.

Però, dato che sono un grandissimo cojone, voglio anch’io metter bocca su faccende che non mi riguardano. In fondo è a questo che serve internet, no?

Scherzi a parte (mamma che ridere) questi sono album che ho aquistato, che ho ascoltato parecchio e sui quali c’è qualcosa da dire (o da inveire, dipende) sennò col cacchio che mi mettevo a scrivere un post nella mia unica mattinata libera.

Eeeee via con le danze!

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angeloD’Angelo And The Vanguard – Black Messiah (2014)

[So bene che con questa recensione mi butterò addosso tanta di quella merda che da domani assomiglierò clamorosamente al demone-merda di Dogma, ma vabbè, succede.]

Esattamente come con i Goat l’opinione pubblica si è fatta sentire, tutti i critici nostrani ed internazionali si sono piegati a novanta per un nuovo album assolutamente inutile, “Black Messiah”. Ma è mai possibile che nel 2015 io debba sentirmi dire da riviste che si professano rock che un album di r’n’b una tacca sopra il riesumato Prince, oltretutto versione raffinata del r’n’b made in MTV, sia un fottuto capolavoro? Anche perché visto il plauso incondizionato di critici piuttosto “importanti” (tra cui l’uomo a cui piacciono gli Who ma “Tommy” gli fa cagare) io l’ho comprato subito, senza fiatare. Da perfetto idiota.

Tutta colpa di quei impasticcati dei Daft Punk e il loro dannato ritorno al funky, genere troppo spesso legato alla merda per eccellenza, la disco music, come nel caso dei due francesi, mentre i cari D’Angelo And The Vanguard (tornati dopo vent’anni con tanto di canale Vevo su YouTube!) sporcano il funk di r’n’b e reminiscenze Funkadelic, inutilmente pompate ed esasperate da testi politically incorrect, collocandosi così lontani dai balletti imbarazzanti con Pharrell, ma non per questo vanno adulati a-prescindere.

Che poi, come con i Goat, a me mica fanno cagare al 100%, il groove assassino di 1000 Deaths per esempio è indiscutibile, ci sono dei musicisti che venderebbero l’anima a Sly Stone per suonare così, però che cazzo c’è da dire su un album del genere? Ha un bel tiro, ha un bel groove, fine. E questo basterebbe a decretarlo a capolavoro?

Belle anche le liriche, ma nulla per cui strapparsi i capelli.

Dopo una settimana di ascolto ho messo sul piatto “Maggot Brain” dei Funkadelic, e credetemi: mi sono sentito una persona migliore.

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10723566_472216169585570_1463938047_nrussian.girls – Old Stories (2014)

A rieccoci con la Lady Boy Records, etichetta islandese che ci ha già donati i Pink Street Boys. Stavolta con russian.girls la questione è piuttosto diversa, siamo davvero lontanissimi dal garage incasinato dei PSB e in generale da qualunque cosa suonata con una chitarra elettrica.

Questa strana creatura nasce dalla contorta mente di Guðlaugur Halldór Einarsson (impronunciabile membro dei Captain Fufanu, band elettronica sperimentale), una sorta di folle artista ambient autore di questo questo criptico “Old Stories”.

Il primo impatto con questo “Old Stories” è stato abbastanza… difficile (l’ho essenzialmente odiato) ma nel tempo mi sono reso conto che spesso tornavo all’ovile islandese per riascoltarmi certi passaggi, per riappropriarmi di certe sfumature. Era come se davanti a me si stagliassero colori e linee del tutto casuali, e non riuscissi a capire il senso di quegli schizzi informali. Ma allontanandomi progressivamente (con la mente) mi sono reso conto che il tutto faceva parte di un quadro troppo grande per risultare chiaro al primo colpo d’occhio.

“Old Stories” è praticamente la Psichedelia Occulta Islandese, un viaggio nelle trame esoteriche e criptiche delle loro discoteche e nella loro alienante modernità. E giuro di non essere ubriaco mentre sto scrivendo (il che fra l’altro è una novità).

Non so bene come categorizzare questo album, principalmente perché sono estremamente ignorante sul frangente ambient avant-garde e via dicendo, però roba come Snake Bloker (ovvero un’incubo cubista dei Tortoise) mi intriga per la sua lontananza dal mondo e dal mio modo di pensare (anche la musica).

Un’esperienza che consiglio a chi ha già dimestichezza col genere, altrimenti statene bene alla larga.

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a3621126830_10Gangbang Gordon – Culturally Irrevelerent [EP] (2014)

Della BUFU Records riparleremo sicuramente, e probabilmente proprio per Gangbang Gordon.

Dadaista, irriverente, sconclusionato, senza dover riprendere la de-strutturazione portata avanti dai maestri come Captain Beefheart o dai perfidi Pussy Galore, questo genio da Wakefield riesce a suo modo a de-costruire il garage moderno, con una leggerezza a tratti addirittura pop (Live At The ABC).

Fa tutto lui, chitarra, voce, batteria, drum machine, dj set, tutto in una maniera sfrontata e disorganica. Non so bene come riesca a distruggere le basi della melodia riuscendo comunque ad essere melodico. I ritmi “beefheartiani” di Passed In My MCAS Exam mescolati agli interventi new wave della chitarra non sembrano infatti lontani dall’immediatezza del garage pop di Jay Reatard, o dalle melodie perfette di Alex Chilton, il che, se permettete, è piuttosto notevole.

L’hip hop sgangherato di Orgullo de Rappers, il disorientamento ritmico, timbrico e armonico di Las Days of Work, praticamente tutto in questo album porta stupore e riflessione, ma senza la premessa di una presa per i fondelli della contemporaneità.

Infatti la cosa bella di Gangbang Gordon è che riesce ad ideare la sua musica a tratti nonsense guardandosi attorno e descrivendo quello che vede, con cura ma senza nemmeno pensarci troppo sopra, risultando molto più realistico e coerente di quanto possa sembrare ad un primo impatto.

L’angoscia e la confusione di Miss Cheevas credo chiarisca piuttosto bene le potenzialità espressive di questo sconosciuto one-man-show dal Massachusetts, uno degli EP più belli che ho ascoltato nell’anno appena passato.

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a2192467939_2The Stevens – A History Of Hygiene (2013)

Senza alcun dubbio il miglior album rock-pop del decennio, e per tanto non mi piace.

Detto questo questo, il viaggio composto da ben ventiquattro canzoni nell’adolescenza e nell’immaginario di inizi anni’90 di “A History Of Hygiene” è davvero ben costruito e perfettamente equilibrato, a tratti risulta persino evocativo.

Questi australiani ci sanno fare, le note malinconiche la fanno perlopiù da padrona, ma riescono quasi sempre a suscitare una nostalgia di tempi mai vissuti (The Long Vacation, Trail Of Debt, Legend In My Living Room, True Tales Of Half Time, o la elegiaca Come Outside e altre).

La cosa che mi convince di meno però è la ripetitività del sound e delle composizioni, che sì, possono anche cambiare ferocemente mood, ma senza mai riuscire a provocare un bel niente, né coi testi né con le idee musicali.

Ci sono anche delle influenze evidenti, come in Scared Of The Men che li avvicina a tratti agli Smiths, o un pizzico di Syd Barrett in pezzi come Blind In One Ear. Ci sono note più riflessive e interessanti dal punto di vista compositivo come Time Share Community Hall, insomma bisogna ammettere che del soft rock a tinte pop questo album riesce a condensare quasi tutto, ma senza mai svariare più di tanto.

Ecco però la cosa che mi convince di più: raramente ci si annoia. Il che potrebbe suonarvi strano, dato che vi ho appena detto che è un album essenzialmente con poche idee e rimescolate all’infinito, ma paradossalmente alla fine del lungo percorso ci si sente un po’ soli, anche perché i The Stevens, volenti o no, ti trascinano nei loro ricordi, nei loro angoli bui o luminosi, anche se sempre con troppa educazione e distacco per i miei gusti.

Chi ama questo album indica Hindsight come il pezzo di punta, ma a me le nenie alla Morrissey mi scassano abbastanza i coglioni (scusa Marta!) e gli preferisco di gran lunga l’angosciosa e “beatlesiana” Time Share Community Hall.

A mio avviso ben più interessanti dei tanto acclamati Pink Mountaintops di Stephen McBean.

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a2301055101_2Total Control – Typical System (2014)

Ci avevano lasciato i Total Control nel 2011 con lo stupefacente “Henge Beat” prodotto dalla Iron Lung Records di Seattle, un misto di Thee Oh Sees e Ultravox davvero azzardato, ma in linea con la nascente scena new post-punk californiana ora capitana dai Corners.

Parliamo un attimo di “Henge Beat”. Se la compattezza del synth in The Hammer sembra uscita dritta dritta da un album degli Human League, l’anthem garage di One More Tonight lasciava prospettare grandi fuochi d’artificio alla Ty Segall, una sorta di Ausmuteants più garage e meno synth, in pratica era un album riuscito a metà, dove non si capiva dove cacchio volevano andare a parare questi australiani! La cosa più bella è che TRE ANNI non sono serviti a schiarire le idee.

Non so se è un bene, ma il dialogo tra new wave e garage rock si fa ancora più denso in “Typical System”. Vi faccio un esempio con la seconda traccia, Expensive Dog, dove l’iniziale martellamento garage rock si perde a metà in una variazione new wave, per poi riprendere il ritmo forsennato alla Oblivians e infine ricadere in un incubo synth. Purtroppo questo dinamismo nella composizione non si ripeterà per tutto l’album, ma nei tratti in cui compare è evidente che le due passioni della band si stanno fondendo più armonicamente.

In effetti, a forza di riascoltare questo “Typical System” credo che un passo avanti i Total Control lo abbiano fatto, basta godersi il nichilismo esistenziale nelle liriche, o la distaccata ma potente Flesh War. Non me la sento di dire che siamo ai livelli dei Nun, anche perché in sole nove tracce non sempre l’estetica new wave risulta sufficiente a tenere botta.

Systematic Fuck ha degli interventi di chitarra sul finale che me lo rizzano, ma il resto del pezzo è del tutto fine a se stesso, noioso, ridondante. Liberal Party è semplicemente imbarazzante mentre The Ferryman è evidentemente un riempitivo, un riempitivo in un album di sole nove tracce!

Sebbene sia stato fatto un passo avanti importante (anche i 7 minuti densi di ottimo garage psych di Black Spring lo dimostranochiaramente) ancora il dialogo tra new wave, post punk e garage rock sembra raffazzonato, barcamenandosi tra grandissimi spunti e inutili variazioni sul tema.

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