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Se ti piace il rock devi avere almeno un album dei Troggs

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Perché mi chiedete?

Perché se ti piace il rock ti piacciono i Troggs. È così, è matematica, anzi amici miei: è biologia.

Lasciate perdere a piè pari le nozioni storiche, il fatto che fossero proto-punk dal 1964 o giù di lì, perché il punto fondamentale della questione è che i Troggs provocavano sotto tutti gli aspetti, e questo è rock.

Perché il rock è provocazione, ma nel senso più ampio del termine, ti porta al centro del ring e ti lancia addosso di tutto, dalla rabbia alla depressione, dalla riflessione sulla politica contemporanea al teatro, il rock ha questo potere incredibile di essere il mezzo musicale più democratico e potenzialmente anche quello più duttile per veicolare qualsivoglia messaggio.

Ma per svegliare il tuo interlocutore dal torpore brit pop devi provocarlo. Non necessariamente questo significa riff su riff fuzzati all’inverosimile, anche Sea Song di Robert Wyatt provoca qualcosa, e lo fa con prepotenza sebbene le sue note siano dolci e sembrano provenire dal profondo oceano dell’esistenza. Wyatt ti trascina con sé in quel gelido mondo con il suo intimo falsetto e le sue meravigliose immagini, ma la sua musica non è intellettualmente chiusa perchè non è assolutamente auto-referenziale, anzi: ti sta cercando, vuole che tu sia pienamente partecipe, e quindi ti spinge in mezzo al ring.

Questo discorso i Troggs non lo avevano capito, ma ce l’avevano nel sangue.

Quando parte Feels Like a Woman senti tutta l’energia di quella prepotenza, anche se non lo vedi sai che Reg Presley sta facendo qualche immonda smorfia, il suo canto ignorante poi è una ciliegina su una torta di per sé già deliziosa.

Wild Thing, I Don’t, Bass For My Birthday, I Can’t Control Myself, Black Bottom, Strange Movies, sono troppe le perle dei Troggs che non dovrebbero mancare in nessun scaffale o raccolta mp3 (o FLAC, se siete più raffinati di Presley), perché dopo il rockabilly infuocato di Jerry Lee Lewis e il garage degli albori dei Kingsmen e dei Wailers ci furono gli sguaiati e provocanti Troggs a buttare le basi per il rock che sarà.

Ty Segall – Goodbye Bread

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[Dopo un paio d’anni mi pento di parecchie cose in questa recensione, ma il bello di fare recensioni perché mi va sono anche queste uscite così entusiastiche, esagerate, prorompenti. Da qui ho cominciato ad aprirmi alla scena garage californiana, e adesso nel 2015 posso dire che è stata la protagonista di questo blog per un paio d’anni buoni. Quindi grazie Ty, non so bene di cosa, ma grazie.]

Ty Segall è californiano gente, cresciuto come solo in California crescono i veri uomini, pane, acqua e garage rock.

Quando ascolti Segall non sai bene da dove partire. Delle volte sembra appena uscito da una jam session con Iggy, delle altre invece con i Sonics, non è raro che mi rimembri a tratti anche i Seeds, i Troggs e i Crime.

La musica di Segall non vuole colpirvi il cervello, punta dritto dritto alle budella. I suoni distorti, il feedback, errori palesi e le sbavature, tutto fa parte della potenza espressiva di questo cazzone.

Per me è difficile fare un recensione di “Goodbye Bread“. In realtà la cosa è andata così: mi giravano le palle perché volevo recensire il Richard Hell dei tempi d’oro, però poi ho pensato che faccio troppe recensioni di vecchiardi, in seguito mi è venuto in mente che potrei fare una recensione sui Foxygen (che, per inciso, odio) e mentre mi lambiccavo con questi dilemmi iTunes, che se ne stava lì a buttare in sequenza casuale miliardi di ore di musica, mi spara a tutto volume California Commercial, proprio da “Goodbye Bread” di Ty Segall. È stata come un’illuminazione, una sorta di luce in fondo al tunnel. Non è il mio disco preferito del giovane californiano, però da qualche parte dovevo pur cominciare.

L’ambiente di Segall è quello underground pesante, uno dei tanti sconosciuti che infestano le radio streaming e i locali più infami con i loro brufoli e la loro scocciante gioventù. Paffuto e biondo, Segall a prima vista potrebbe anche apparire come un bravo ragazzino arrivato tardi al concerto dei Nirvana, ed invece è proprio un pazzo, anzi: è incazzato.

Molti amanti dell’indie sono rimasti sconvolti dall’implume Segall, riconoscendo sulle prime qualche accordo depresso-introspettivo si sono avvicinati, per poi ritrovarsi sommersi da pura rabbia rock. Ehi, niente contro l’indie, mi piacciono pure gli Underground Youth, però il garage è unico, anche per i personaggi tipo Segall.

Va bene, si ispira a gente come Iggy, come ai Black Sabbath e ai Black Flag, come pure alla psichedelia di Syd Barrett e dei White Witch e via dicendo, ma chi con un po’ di cervello non lo fa? Probabilmente lo fa anche Jeffrey Novak, non tanto bene però, ma Segall sembra attingere proprio dalla forza originaria che smuoveva tutti quei maledetti geni.

Sì, ok, forse, e dico forse, “Goodbye Bread” è il suo disco più moscio a tratti, però è quello che mi è capitato sotto mano adesso. È uscito nel 2011 sotto la grandissima Drag City, un’etichetta con le palle. Il sound appare più canzonato e “limitato” almeno in confronto ai lavori precedenti, un po’ come se durante le registrazioni qualcuno tenesse per le palle in prode Ty, ma in realtà non ci trovo niente di sconvolgente, anzi, anzi

Ty arriva a questo album dopo una serie infinita e incatalogabile di collaborazioni, di tutti i tipi e con con tutti i tipi più strani della scena californiana. La sua prima esperienza di rilievo è certamente con i The Traditional Fools (2008), un paio di 45 giri ed un album con i coglioni, ma un po’ dispersivo. Poi sembrava dovesse fare quasi il serio con Mikal Cronin, ed invece “Reverse Shark Attack” risulta essere uno degli album più fancazzisti e divertenti del 2009.

Inizia a collaborare con i Sic Alps nei ’10, si fa una bella cultura anche psichedelica, e si prepara mentalmente alla collaborazione con White Fence. Chi vi dice che “Hair” (2012) il disco di Segall con Fence sia roba da checche ci capisce sinceramente poco o pochissimo. Segall, come ben dimostra la sua discografia, non è solo Stooges, non è solo garage (e già sarebbe comunque tanto), ma principalmente è divertimento. Tira fuori due o tre dischi all’anno, che cazzo credete gliene freghi di come viene incasellato, o se delude i fan del “feedback a tutti i costi”? “Hair” vede collaborare due grandi e giovanissimi rocker, ma se Segall è il lato oscuro del rock, quello viscerale, quello puro, invece White Fence fa parte di quel rock psichedelico angosciante, ironico e disturbante. La loro passione per i sixties e i seventies si fa sentire tutta in “Hair“, con colpi di genio assoluti come in Time e Easy Rider, oppure in totali momenti di noia, eppure anche la merda di Fence e Segall è preferibile a una qualunque band della Jagjaguwar (a parte i primissimi Black Mountain).

Praticamente sto spendendo più parole per i dischi peggiori che per i migliori. Ma in realtà va bene, è quello che volevo sotto sotto.

Il crescente successo che investe Segall lo porta nel 2011 a fare una bella raccolta di singoli dal 2007 al 2011 ovviamente, un modo per farsi conoscere anche da noi europei, che in California a cercare i suoi dischi proprio questo weekend non possiamo andarci. E nemmeno nel prossimo.

Quello che ne viene fuori da quella stranissima valanga di singoli sono perle di saggezza che rischiavano di essere perse per strada. Roba garage-punk come Bullet Proof Nothing, rigurgiti barrettiani come in Fuzz Cat, rumorosissime hit come Ms. White. Sembra che Segall, un fottuto ragazzino (ma non lo erano forse anche i Sonics, i Count Five e gli Stooges?) per giunta californiano, abbia riscoperto il garage, e ce lo stia insegnando di nuovo.

Goodbye Bread

Dopo “Lemons” (2009) e “Melted” (2010), due dischi a tratti notevoli ma anche presuntuosi, esce il nostro “Goodbye Bread“. Obbligatoriamente, come ogni buon disco garage, va ascoltato ad un volume ESAGERATO, meglio senza cuffie.

L’album si apre con la title track e se vi sembra un pezzo “serio” provate ad ascoltarlo così.

Si passa alla sopracitata California Commercial, garage puro e semplice.

Seguono a fuoco Comfrontable Home, You Make The Sun Fry e I Can’t Feel It. C’è rumore, ma ci sono già tante idee che verranno sviluppate con Fence in “Hair“. Ascoltandole non si capisce proprio come Segall abbia tirato fuori due dischi al sangue come “Slaughterhouse” e “Twins” (entrambi dell’anno scorso), ed è infatti impossibile se non si conosce la discografia del ragazzo.

My Head Explodes mi fa bene al cervello, sento confluire più ossigeno quando la ascolto. Si comincia con un misto di indie e grunge, per poi scoppiarti in faccia a piena potenza: rumori assordanti e distorti, e c’è pure la chitarra spaziale alla Hawkwind!

Si spazia un po’ con The Floor, eclettica e modesta, moscia invece Where Your Head Goes, c’è un po’ di Barrett anche in I Am With You, per il finale c’è Fine, che non sa di un cazzo, probabilmente a Segall stava alquanto fatica scrivere ancora qualcosa di decente (tra ottomila collaborazioni e al ritmo di due dischi all’anno mi stupisco che non ci sia molta più merda).

In conclusione si può può benissimo dire che “Goodbye Bread non è un disco particolarmente rilevante nella discografia di Segall, ma da qualche parte bisogna pur cominciare no? Inoltre sono dell’avviso che anche quando caga Segall fa della musica molto più sincera e vera della maggior parte delle band che dicono di fare rock.

Segall non fa arte, non fa roba intelligente, non sta riscrivendo i capisaldi della musica, fa rock, fa garage. E lo fa bene, dannazione.

  • Pro: alcune idee sono stupefacenti nella loro semplicità, come in California Commercial, o come nel gustosissimo climax di My Head Explodes.
  • Contro: questo dipende voi: Segall cazzeggia per tutto il tempo, sbavature e ingenuità costellano tutto il disco dalla prima all’ultima traccia, se la cosa vi piace non è un difetto, se invece vi dà fastidio state lontani mille miglia da questo disco e in generale da Ty Segall.
  • Pezzo Consigliato: ho un fottuto debole per Goodbye Bread. Che ci posso fare?
  • Voto: 7/10