
[Ok, perché un post di cinema su un blog di musica? Perché il blog è mio e non ho firmato niente per tenerlo coerente a se stesso. Il post l’ho scritto qualche mese fa durante una febbrile serata fatta di tisane calde e commenti su Facebook. Buona lettura.]
Che poi cosa diavolo vuol dire “cinecomics”? Perché non vuol dire assolutamente “film ispirato da un fumetto” ma “film ispirato da un comic book”. La differenza, anche se può non sembrare, è fondamentale, in quanto questo neologismo tutto italiano nasce dalla categorizzazione nostrana dell’arte sequenziale, che giustamente vede il manga come mezzo del Sol Levante, bande dessinée quello franco-belga e tra gli altri il comics americano.
Questo negli USA non accade, perché per loro è tutto “comics”, parola che però nasce solo per definire le prime strisce umoristiche apparse nei giornali tra la prima e la seconda metà dell’Ottocento.
Per cui quando parliamo o sentiamo parlare di cinecomics sappiamo di per certo che si parla di trasposizioni cinematografiche prese dai comics americani e punto. Il cinema americano legato ai suoi beniamini cartacei risale almeno agli anni ’40, con risultati scabrosi e indegni di uscire anche solo per l’Home Video. Persino il talento indiscusso di Wes Craven fu messo a dura prova nella trasposizione di uno dei capolavori della Vertigo (straordinaria etichetta della californiana DC Comics), lo Swamp Thing disegnato da uno degli assi del fumetto horror statunitense di tutti i tempi: Berni Wrightson. Dobbiamo quindi aspettare fino al 1989 prima di confrontarci con pellicole degne di questo nome, a parte la breve parentesi col Superman di Richard Donner, film fondamentale per il genere ma che appartiene ad un altra epoca cinematografica.
Quando Tim Burton legittimò i supereroi
La Polygram Filmed Entertainment fu una casa di produzione che riuscì a ritagliarsi un posto di merito tra le major del cinema inglese, almeno prima di essere acquisita dalla Universal Pictures, credo intorno al ’96, e con cui comunque già collaborava dagli anni ’80. Prima del Batman (1989) di Burton lo studio si era fatto notare con pellicole di prim’ordine, come An American Werewolf in London (1981) di John Landis e il folgorante successo di Flashdance (1983) di Adrian Lyne. L’idea di produrre un film su Batman c’era da decenni, e i vari copioni come i diritti per produrlo, passavano di mano in mano senza speranza. Ogni volta veniva fatto qualche annuncio in cui si calcava la mano su quello che avrebbe dovuto essere un “ritorno alle origini dark del personaggio” dopo l’esperienza in technicolor piuttosto lisergica della TV. Tra i più papabili agli inizi degli anni ‘80 c’erano i giovani registi che si stavano facendo le ossa con l’horror, come Joe Dante e Sam Raimi, ma quando finalmente il progetto prese corpo e si passò ai fatti la scelta cadde sul regista che aveva incassato il miglior successo commerciale della stagione: Tim Burton.
Fresco dei plausi e degli elogi della critica per il suo delirante, divertente e inquietante Beetlejuice (1988) Burton si ritrova per le mani una patata bollente che nel corso della travagliata produzione verrà a costare più del doppio di quanto la Polygram avrebbe voluto. Eppure sebbene la trama non rispecchiasse il canone fumettistico al massimo e Michael Keaton restava basso un metro e un tappo come in Beetlejuice, il film fu un successo strepitoso ed è tutt’ora uno dei pochi veri capolavori del genere.
Burton è un regista visionario nel senso stretto della parola, abile costruttore di mondi fatati e al tempo stesso orrorifici, feroce nel suo sguardo (psico)analitico verso i sui personaggi, sempre incapaci di esprimere a pieno i loro tormenti e la loro follia – follia come risposta sana ad un mondo insano e violento. Batman difatti è un pazzo, una personalità bipolare che di notte picchia selvaggiamente i criminali e di giorno vive come un playboy, senza però trovare il coraggio per concedersi pienamente all’amore. Come una sorta di sfogo freudiano la pulsione violenta di Batman diventa anche sessuale al limite del BDSM (questo elemento viene esplicitato nel secondo capitolo durante la sua morbosa relazione con Catwoman, una Michelle Pfeiffer tutta in pelle!), mentre Bruce Wayne sembra costantemente impedito a lasciarsi andare alla libido, bloccato dal trauma della morte di suoi genitori e attanagliato da una irrisolvibile sindrome dell’abbandono.
La città di Gotham resta la più bella visivamente finora espressa al cinema, segnata dalla passione del regista di Burbank per il cinema tedesco espressionista e quello della Hammer (come un certo Guillermo del Toro, per dire). Gotham sembra affilata e pericolosa ovunque la si guardi, una New York distopica e ancora più gotica, però capace di vivere attraverso il calore delle persone, laboriosa e virtuosa nell’accezione della sua classe proletaria, eppure egoista e immorale nella sua classe dirigente. Prima di rivedere nei cinecomics classi sociali così disagiate dovremo aspettare il primo Spider-Man di Raimi, per poi perderle nelle nuove pellicole Marvel e DC, lasciando i temi “da strada” alle serie TV.
La regia di Burton riesce ad alternare un registro grottesco ad uno gotico senza rendere le parti romantiche stucchevoli o fine a se stesse. Keaton e Nicholson restituiscono perfettamente il dualismo che il regista vede in bene e male, entrambi i personaggi hanno vissuto traumi irreparabili e sono chiaramente danneggiati nella psiche, ma Batman ha deciso di far sì che nessun altro a Gotham dovesse soffrire a causa di una ingiustizia, mentre il Joker crede fortemente che la paura e la violenza siano intrinseche della natura umana, e che tutto si limiti su da quale lato della scacchiera si voglia giocare. Nel secondo capitolo del 1992 Burton apre il film con la più bella sequenza fin qui mai vista in un cinecomics, come un Citizen Kane al contrario la tragica nascita del Pinguino scorre davanti a noi mentre scompare ancora neonato sotto un ponte, l’ennesimo personaggio abbandonato a sé stesso da una società superficiale e meschina. Parallelamente alla sua nemesi anche il Pinguino trova conforto nella solitudine di una grotta. Mai il male ha avuto un volto più pietoso.
Espressione di una cinema americano che riscopre le sue radici europee e le mescola col cinema di consumo che gli ha donato una mitologia gotica oggi imprescindibile quanto vituperata dal cinema contemporaneo, Batman di Tim Burton dimostra come anche partendo da prodotti di massa si possa fare del cinema di grande livello e profondità.
I comics americani e l’arte sequenziale
Will Eisner da giovane faceva il pubblicista. Un giorno gli venne chiesto di disegnare un libretto di istruzioni per delle grosse macchine agricole destinate a dei campi in Sudamerica. Dato che i lavoratori del luogo non sapevano leggere, tantomeno l’inglese poi, Eisner propose un vero e proprio fumetto senza balloon, dove mostrava il funzionamento delle macchine per filo e per segno, ed alla fine metteva in contrapposizione due contadini: il primo aveva seguito il metodo tradizionale e stringeva in mano un mazzo di carote normali, il secondo invece usando la macchina agricola ghermiva un mazzo di carote gigantesche. Questo breve fumetto fu spedito, e per un po’ di tempo Eisner non ne seppe più nulla.
Qualche mese dopo la multinazionale agricola lo richiamò su tutte le furie perché i contadini si rifiutavano categoricamente di utilizzare le costosissime macchine che erano state spedite in massa per il Sudamerica. Curioso di questo fatto Eisner si mise ad indagare, finché non scoprì con suo enorme stupore, da cosa nasceva la giusta indignazione dei lavoratori locali. Nel finale del suo fumetto il lavoratore teneva sì un mazzo di enormi carote, ma era rappresentato in un mezzo busto, per cui i contadini si rifiutavano di lavorare con una macchina che li avrebbe privati per sempre delle gambe.
Questa storiella me la raccontò Paul Karasik, un tempo studente proprio di personalità come Eisner e Art Spiegelman, e oggi considerato uno dei massimi esperti di arte sequenziale in tutto il mondo. L’aneddoto Karasik lo usa sempre con i suoi studenti per spiegargli quanto sia importante la facilità di fruizione nei comics. Questo perché negli USA la differenza tra i prodotti seriali e le le altre forme di pubblicazione è molto sentita. È normale infatti considerare un numero di Superman come un prodotto seriale commerciale, legato perlopiù ad una lettura leggera e d’intrattenimento e quindi che necessita di una forte leggibilità, mentre se esce una graphic novel dello stesso personaggio, firmata da autori al di fuori del circuito mainstream, allora il target si alza qualitativamente, e anche la forma può diventare più complessa e quindi potenzialmente più espressiva.
I maggiori artisti americani raramente hanno toccato le sponde del comics commerciale, spartito da Marvel, DC, Image e Dark Horse, preferendo forme di espressione più complesse e sofisticate, che non necessitassero di scendere a compromessi artistici. Robert Crumb, Jim Woodring, Art Spiegelman, Rick Griffin, Bob Montana, Charles Burns e decine di altri autori fondamentali hanno riscritto le regole estetiche dell’arte sequenziale, tenendosi però ben alla larga dal fumetto commerciale di consumo. Altri autori hanno accettato il compromesso alzando però la posta in gioco e mettendo a rischio i fragili equilibri interni alla serialità creando opere indimenticabili, autori come Mike Mignola, Neil Gaiman, Bill Sienkiewicz, Alan Moore, Jim Starlin, Peter David, Grant Morrison, Jim Steranko e tanti altri.
Resta di fatto che nella produzione seriale americana il meglio lo si trova (quasi) sempre nelle graphic novel, e quasi mai all’interno delle testate delle maggiori case editrici, che propendono di più verso una sostanziale fruibilità, un pubblico ampio ed eterogeneo, e un rapporto tra narrazione e disegno il più leggibile possibile.
I compromessi della serializzazione
Risulta ovviamente impossibile proporre al cinema lavori fumettistici di grande pregio, proprio perché al contrario del comics seriale, gli autori più importanti sono anche quelli che sperimentano in maniera più profonda le possibilità tecniche del fumetto. Trasportare il lavoro su Lovecraft di Alberto Breccia al cinema è impraticabile, perché la sua dimensione artistica si esautora completamente in quelle pagine che rasentano l’astrazione. Esattamente lo stesso problema lo abbiamo con le trasposizioni dai romanzi: risulta semplice trascrivere un romanzo che punta principalmente sulla sua componente narrativa, anche se dovrai tagliare delle cose e tradurre certi linguaggi tipici della letteratura con altri che sono propri del cinema, ma come porti al cinema Morte a Credito di Céline o il Il Pasto Nudo di Burroughs? Chiaramente lì entrano in gioco gli autori maggiori, quelli che comprendono che un’opera letteraria non la puoi trasporre 1:1 al cinema perché ne svilisci i motivi che la rendono effettivamente un’opera d’arte, ed ecco che entra in campo l’interpretazione. Cronenberg nel 1991 si è cimentato nel romanzo più lisergico di Burroughs, riuscendo a stabilire un contatto con l’opera originale senza seguirla pedissequamente, ma traducendola secondo la propria sensibilità artistica.
Il blockbuster però è un cinema tutto diverso, che punta principalmente all’incasso e al piacere a mamme, zie e papà. Se fai un film che deve incassare mezzo miliardo è normale che i compromessi artistici pesino tonnellate. Per carità, esistono nella storia del cinema diversi esempi di opere pensate per il grande pubblico che si sono poi rivelate funzionali al rinnovare la grammatica del cinema, ma diciamo pure che non è la regola.
Il fatto che un film sia pensato principalmente per intrattenere non dovrebbe inficiare sulla qualità del giudizio finale. Esempio lampate di quanto appena detto il meraviglioso Rogue One: A Star Wars Story (2016) di Gareth Edwards, che secondo molti critici vetusti non potrà essere considerato un capolavoro del cinema di guerra solo perché fa parte di un franchise. Eppure Edwards ha ricostruito l’immaginario collettivo del genere, riportandolo sulle sponde dei romanzi di Heinlein, Vance e Fredric Brown, là dove nasceva la science-fiction moderna, dirigendo un film che supera di gran lunga tutte le pellicole fin qui prodotte sotto il roboante nome di Star Wars. Pur seguendo la necessità di dialogare con gli altri film, e di scendere quindi a compromessi con un universo espanso di narrazioni parallele e perpendicolari, Edwards propone una storia di sconfitti e di eroi tutt’altro che senza macchia, contornata da una lovestory che è tutta in potenza ma viene cancellata dalla forza prorompente della guerra. Il regista sconfessa quindi i canoni della narrazione classica del blockbuster, per il montaggio preferisce un ritmo lento ad uno frenetico, gestisce le scene di massa ritrovando il gusto per una visione ambientale che non è una semplice arena dove mettere dei personaggi a combattere, ma un ambiente che narra già da solo tutta la crudeltà dei conflitti tra esseri umani. Proprio come per registi come John Ford, Michael Cimino e Neill Blomkamp, anche per Edwards il landscape ha una funzione corale all’interno del dispositivo narrativo cinematografico, che non si limita all’utilizzo di campi lunghi o lunghissimi per mostrare una banale epica romantica (come accade troppo spesso negli ultimi film di Nolan), ma porta con sé ulteriori riflessioni che impreziosiscono il prodotto finale.
Tutto questo nei cinecomics contemporanei si fatica a vedere, perché le logiche della serializzazione tipiche del fumetto statunitense stanno prendendo il sopravvento sulla sostanza. Andrebbe affrontata anche la questione legata alla scelta dei registi, che forse più avanti cercherò di trattare.
La serializzazione porta con sé una montagna di limiti espressivi che prima erano endemici della TV, ora tramite i Marvel Studios sono diventati parte integrante del nuovo linguaggio cinematografico.
Il racconto dilatato: la TV e Aristotele
Nella parte finale della Poetica di Aristotele, quella più pallosa fra l’altro, troviamo però uno spunto particolarmente importante per il ragionamento che seguirà:
<< […] Lo storico e il poeta non differiscono tra loro per il fatto di esprimersi in versi o prosa – si potrebbero mettere in versi le storie di Erodoto, e in versi come in prosa resterebbero comunque storia -, ma differiscono in quanto uno dice le cose accadute e l’altro quelle che potrebbero accadere. Per questo motivo la poesia è più filosofica e più seria della storia, perché la poesia si occupa piuttosto dell’universale, mentre la storia racconta i particolari.[…] >>
(1451b da 1451b a 7, da “Aristotele Poetica”, traduzione ed introduzione di Guido Paduano).
Per poesia Aristotele intende il teatro, e per lui il teatro (ovvero il racconto non-dilatato) si occupa dell’universale mentre la storia (il racconto dilatato) del particolare. Questo è un discorso validissimo ancora oggi, in particolare nel rapporto tra cinema e TV.
Sempre di più su internet si leggono post che inneggiano allo streaming come futuro contenitore dei prodotti di qualità, in particolare per le serie TV (che ormai sono sempre meno “TV” e più PC, smartphone e pad vari). La serie viene considerata superiore al cinema, producendo così un corto circuito grammaticale difficile da riparare se non si comincia subito a metterci le mani.
Le serie TV e il cinema hanno come unico punto di contatto il fatto che racontano delle storie tramite sequenze in movimento registrate con una cinepresa o surrogati vari. Basta. Per il resto hanno una storia, delle esigenze e una estetica completamente diverse e che non possono dialogare se non casi eccezionali. Che si possano produrre serie TV dagli esiti artistici non è qui messo in dubbio, ma bisogna sottolineare che l’ascesa di un mezzo non debba necessariamente uccidere l’altro. Il cinema su PC non ha alcun senso, se ne ridimensiona in negativo tutta la sua portata, l’esperienza della sala è necessaria per una piena comprensione del prodotto. In più la settima arte punta all’universale tramite una compressione, la TV invece ama spulciare ogni particolare, e sopravvive grazie alla costanza degli spettatori e all’utilizzo di escamotage che servono a riaccendere l’attenzione degli stessi, come l’uso smodato di cliffhanger che verso la stagione 6 o 7 trasformano anche il prodotto più interessante in una soap opera alla Sentieri (la progressione di Sons of Anarchy di Kurt Sutter questo lo insegna bene).
A parte opere inimitabili come Berlin Alexanderplatz (Rainer Werner Fassbinder) Twin Peaks (David Lynch e Mark Frost) e The Kingdome (Lars von Trier e Morten Arnfred) raramente la serializzazione è riuscita a produrre opere che ne sconvolgessero la grammatica e al tempo stesso avessero qualcosa da dire. Ci sono andati molto vicino (negli States): Miami Vice, The Wire, Arrested Development, True Detective, BoJack Horseman, Lost, The OA, 24, OZ, Breaking Bad e poche altre (vorrei ricordarne almeno due italiane: Il segno del comando di Daniele D’Anza e Le avventure di Pinocchio di Luigi Comencini). Questo perché la cosa più importante in TV, oltre ovviamente l’audience, è la narrazione e non la forma, la quale deve essere coinvolgente e lasciare sempre col fiato sospeso il fruitore.
Questo pensiero applicato al cinema non poteva che portare ancora più a ribasso il già ingrato compito dei blockbuster di unire intrattenimento e urgenza artistica senza far annoiare nessuno in sala.
Iron Man di Jon Favreau esce nel 2008, dando effettivamente inizio alla serializzazione cinematografica. I Marvel Studio nascono dallo staff dei loro stessi studi di animazione, e sotto la direzione di Kevin Feige dal 2005 cominciano a riacquisire i diritti cinematografici che la Casa delle Idee aveva negli svenduto a cani e porci. Nel 2005 i comics vendono sempre meno, e Feige era sicuro che dei film che seguissero il più aggressivo fanservice avrebbero rialzato le quotazioni cartacee della casa newyorkese. Questo non è mai avvenuto, anzi, siamo ancora lontani dai numeri che DC e Marvel facevano nei loro anni d’oro, ma entrambi si sono resi conto di quanto più remunerativo sia il mondo della settima arte piuttosto che quello dell’arte sequenziale.
Sdoganando personaggi che facevano parte di un immaginario molto ristretto di lettori, rendendoli appetibili alle famiglie di tutto il globo, la Marvel ha letteralmente inventando un nuovo modo di produrre cinema, che sebbene i meccanismi della serializzazione, resta il più delle volte cinema e non qualcosa di ibrido, ma svelando al contempo tutti i problemi e i compromessi dietro l’elaborazione di una saga di blockbuster.
Serializzazione e libertà creativa
Iron Man non è un brutto film, ma di certo il prodotto di Favreau risulta a distanza di anni molto inferiore a quello di Burton, Raimi e Del Toro, tre registi che avevano diretto film sui supereroi poco prima della rivoluzione Marvel. Questo perché la regia di Favreau nel suo essere perfetta nei tempi e nella progressione, risulta quasi sempre insofferente quando vuole giocare su più piani di lettura, e conia di fatto un modo di dirigere questo genere commerciale che vuole essere talmente perfetto narrativamente da rivelarsi dannatamente limitante in senso espressivo.
Ma nella sua fase più critica, ovvero durante la produzione delle fondamenta di quello che ad oggi è noto come “Marvel Cinematic Universe” (MCU), la dirigenza degli studios prende una serie di decisioni particolarmente coraggiose nel mercato americano, ovvero lanciarsi su registi di nicchia.
Premettiamo subito una cosa: normalmente ad Hollywood si preferiscono registi sconosciuti, costano poco e fanno quello che gli si dice senza fiatare, al tempo stesso li si prediligono mestieranti e non autori perché sono meno rognosi in fase di produzione. Scegliere Kenneth Branagh per dirigere Thor, uscito nel 2011, fu una scelta che recise prima ancora che potesse nascere il parallelismo tra le classiche major hollywoodiane e la Marvel. Prendere autori di comprovata indipendenza autoriale e metterli alle redini di blockbuster multi-milionari è stato per decenni l’incubo di tutte le major statunitensi, le tante batoste subite tra i ’70 e gli ’80 avevano portato le dirigenze a preferire dei manichini a dei registi, producendo negli anni ’90 e primi 2000 immondezzai indescrivibili che comunque incassavano i milioni di dollari.
Dopo una serie di film di consumo diretti e interpretati spesso con il cambio automatico, regalando easter egg ai pochi fan dei fumetti, e spingendo parecchio sulla fruibilità con titoli come il secondo Thor (2013) e un Iron Man 3 (2013), che rispecchiano fedelmente i dettami di Favreau in quanto concentrazione degli sforzi creativi nel carisma dei personaggi a discapito delle miriadi di possibilità espressive del mezzo cinematografico, ecco che la Marvel cambia di nuove le carte in tavola e presenta una vera e propria piccola rivoluzione: Guardians of the Galaxy (2014).
Se nei film precedenti la scrittura era limitata dalle necessità seriali, il lavoro di James Gunn invece trasuda una libertà artistica raramente vista prima in pellicole così costose. Gunn viene da una delle più importanti scuole di cinema al mondo, la Troma di Lloyd Kaufman e Michael Herz. La Troma è una delle realtà più corrosive e originali del cinema americano; fortemente ispirata dal cinema orientale e dal fumetto undeground statunitense, la casa di produzione di Kaufman ha prodotto un quantitativo inverosimile di film a budget zero o quasi, costruendo una narrazione che nella sua forma precede di gran lunga la serializzazione Marvel, grazie ai suoi The Toxic Avenger o Sgt. Kabukiman N.Y.P.D., descrivendo un universo parallelo al nostro che ne è la sua parodia più spietata. Gunn in quella fucina di disadattati e barboni ha imparato come si scrive, come si produce, come si dirige un horror, un noir, un musical e un porno nello stesso momento, come si distribuisce e come si pubblicizza una pellicola. Il tutto senza essere mai stato pagato un centesimo, com’è d’uso alla Troma.
Con Slighter del 2006 Gunn aveva dimostrato di saper contaminare i generi come pochissimi registi della sua generazione, incastrando Cronenberg, Dante e Carpenter in una narrazione più demenziale e pericolosa del primo (e rimpianto dal sottoscritto) Peter Jackson. In Guardians Gunn in realtà ripropone tutta la sua pericolosità mascherandola abilmente da film per famiglie.
Nei due volumi di Guardians il tema principale non è il carisma dei personaggi, né la storyline espansa nell’universo Marvel, non lo è nemmeno l’intreccio della trama stessa, semplice quella del primo e parodistica quella del secondo, il regista di St. Luis si sofferma invece nel descrivere i giovani d’oggi e il ruolo della famiglia nella società contemporanea. Non sono i classici “orfani Disney” questi Guardiani, ma bensì figli che hanno ripudiato o perso molto violentemente la loro famiglia e le loro origini geografiche, che vivono conflittualmente la propria personalità modellata sui loro traumi. Presentati come stereotipi (l’eroe scemo e donnaiolo ma sempre decisivo nell’azione, il tipo tutto muscoli e niente cervello, la donna assassina ma dal cuore d’oro, etc.) i protagonisti di Gunn sono invece personaggi straordinariamente complessi e sfaccettati, che si insultano a vicenda in continuazione per poi capire, con estrema fatica e sacrificio, quanto invece siano importanti gli uni per gli altri.
Gunn inoltre riporta l’ambiente a vivere e a partecipare attivamente nella narrazione, le astronavi sono piene di ammennicoli che grazie ad una attenta e curata regia riconosciamo sempre, e lo aiutano a descrivere le personalità latenti dei personaggi senza ricorrere a dialoghi troppo esplicativi. Delizioso anche il suo abbandonarsi delle volte in citazionismi altissimi (come nel Vol.2 dove riprende pari pari la celebre scena dell’aereo di North By Northwest di Hitchcock), senza disdegnare comunque una demenzialità caustica e intelligente.
La regia ruba talvolta qualcosa a Joss Whedon nelle scene di gruppo, e sicuramente c’è un tentativo di far incontrare Spielberg e Lucas con Kaufman e Walter Hill, ma la cosa strabiliante è che per Gunn l’azione non è il motore primo del film. Nel Vol.1 la battaglia finale è interrotta da un demenziale balletto di Starlord, nel Vol.2 la prima sequenza contro l’alieno gigante è in secondo piano in confronto alla danza infantile di Baby Groot, mentre durante il conflitto finale la scena di massa è visibile solo da un piccolo foro, mentre in primo piano troviamo Rocket Racoon che spiega a Groot come azionare una bomba a tempo. Se Vol.1 è la parodia di Star Wars (e al contempo un film più convincente di quello di J.J. Abrams), Vol.2 prende in giro tutta la filmografia americana legata al rapporto padre-figlio e in generale quell’ondata di ottimismo di plastica che permeò il cinema commerciale reaganiano degli anni ‘80.
I suoi due film Marvel si possono inoltre leggere come un atto d’accusa verso le generazioni precedenti, che ci hanno lasciato un mondo senza speranze (le recenti dichiarazioni di Hawking sul riscaldamento globale sono apocalittiche) e senza valori o ideologie in cui riconoscerci, clandestini nel nostro stesso pianeta, costretti a solcare senza meta l’universo per fuggire dai ricordi e dalle promesse del passato.
La DC e la questione del “dark”
Storica casa editrice californiana, la DC detiene probabilmente il primato in termini qualitativi nella serializzazione a fumetti. Sopratutto grazie a i comics usciti per Vertigo, la DC ha sempre mostrato un lato più maturo e adulto in confronto alla Marvel, ruolo che ha permesso alle due case di dividersi il pubblico: più adolescenziale quello Marvel, più maturo quello DC. Nel tentativo però di trasportare questa filosofia sul grande schermo la DC si è comportata inspiegabilmente come una major qualsiasi (questo perché dipendente dalla Warner Bros.), accaparrandosi registi buoni al massimo per il fanservice e producendo lavori raffazzonati e delle volte persino imbarazzanti oggettivamente.
Ora mi dilungherò sul dualismo Marvel/DC, ma ci tengo subito a precisare che questo contrasto non ha luogo né senso. Si giudicano le pellicole e non i produttori, se un film della Paramount fa schifo non vuole dire che fa schifo tutto il catalogo, e questo vale anche per Marvel e DC (Warner). Ci sono piuttosto delle differenze sostanziali per quanto riguarda la scelta dei registi.
Laddove la Marvel ha fallito nel suo riproporre una ricetta scaldata (Ant-Man, Age of Ultron, Spider-Man: Homecoming) oppure si è attestata su livelli di mediocrità, che in base ai gusti può essere sufficiente o insufficiente, ma di certo non rilevante (Iron Man 2, Civil War) la DC ha semplicemente proposto dei lavori al livello delle peggiori produzioni hollywoodiane contemporanee, in stile Dracula: Untold (2014), I, Frankenstein (2014) e il Teenage Mutant Ninja Turtles (2014) di Liebesman.
Ovviamente intendo tutti quei film che fanno parte del DC Extended Universe (DCEU), ovvero da L’uomo d’acciaio (2013) in poi, escludendo i film di Donner, Burton, Schumacher, Singer, Nolan e via dicendo.
Il nodo della questione sta probabilmente nella scelta di Zack Snyder e David Ayer alla regia dei primi film che preludiano al filone DC nel mondo della serializzazione cinematografica. Se nel cartaceo la DC ha legato i suoi prodotti più pregiati a nomi come per esempio Alan Moore e Garth Ennis, autori fondamentali del fumetto non solo americano, nel suo esordio cinematografico ha messo sotto contratto registi dai lavori precedenti anonimi (Ayer) oppure pessimi (Snyder).
Il fatto che oggi ci sia una folta schiera di sostenitori su internet del lavoro di Snyder non significa niente se non confermare che il pubblico mediamente di cinema non ci capisce nulla, ma va bene così e ci mancherebbe altro! Se il cinema servisse solo per proiettare film di Béla Tarr, Sokurov e Antonioni vivremmo in un pianeta pieno di sale vuote dove proiettano film a tempo perso. Sono proprio autori come Zack Snyder, Michael Bay e David Yates a portare le masse al cinema e ad espanderne l’influenza, producendo degli introiti senza i quali molti piccoli (e grandissimi) autori non camperebbero, un po’ come i film di Natale da noi (con le dovute proporzioni in termini di budget). Detto ciò il cinema ha comunque una sua grammatica, che può anche essere rotta tramite sforzi creativi particolari, ma non è di certo questo il caso di questo genere di registi (o “shooter” come vengono spesso chiamati in senso dispregiativo), i quali il più delle volte la ignorano per poi deturparla.
Considerato uno dei registi pubblicitari più bravi della sua generazione, Zack Snyder sfrutta il cinema esattamente come se fosse un lungo spot pubblicitario, galvanizzandone al massimo gli elementi estetici ma compromettendone sia il linguaggio (i suoi primi film sono pieni di errori tecnici snervanti) che la forma (mai così virile e testosteronica). Conosce bene i cinecomics Snyder, infatti prima de L’uomo d’acciaio ne aveva diretti ben due: 300 (2006) tratto dal lavoro omonimo di Frank Miller, e Watchmen (2009) dalla celebre graphic novel di Moore e Gibbons. In entrambi i casi Snyder denuncia una peculiare incapacità di comprensione dell’opera originale e di reinterpretazione.
Fondamentale per il discorso intrapreso è analizzare brevemente Watchmen, spesso citato come capolavoro del genere dalle folle adoranti del regista di Green Bay. Partiamo dall’opera originale. Ciò che rende i 12 albi di Watchmen un capolavoro dell’arte sequenziale non è la storia, altrimenti Moore avrebbe scritto un romanzo o una fiction per la BBC, ma bensì il complesso dialogo tra diverse forme di narrazione. Moore cannibalizza Eisner, il cinema noir e le prime strisce americane, si ispira direttamente al cinema horror di serie B (Roger Corman) e alla radio e TV delle fasce notturne, ruba alla letteratura ucronica e alla fantascienza anni ’50, non disdegna la violenza (dimenticata) dei primi comics americani, corredando ogni albo di inserti giornalistici e documenti vari, tutti elementi essenziali per contestualizzare una realtà che non era mai stata percepita tale, nemmeno quando l’Uomo Ragno si arrampicava sull’Empire State Building nei fumetti firmati da Conway. Questa idea della narrazione espansa risale ai romanzi di Victor Hugo, dove la descrizione minuziosa serviva per veicolare sensazioni che connotavano sia il contesto sia i personaggi che lo vivevano, tecnica che ha trovato la sua dimensione ideale nella prima science-fiction – basti pensare ai paragrafi di economica presenti nel fondamentale L’orrenda Invasione (1952) di John Wyndham, asettici in sé, ma utili per farci addentrare nella psicologia di un quotidiano simile ma non del tutto al nostro. Come si può trasportare un bagaglio del genere nel cinema? Non si può, infatti il cinema utilizza linguaggi diversi, espande la propria narrazione tramite altri espedienti. Questo però Snyder non l’ha ancora capito.
Cercando di ricalcare l’opera vignetta per vignetta, e quindi togliendo a piè pari tutta la narrazione espansa, e senza voler interpretare nulla lasciando che la storia si svolga da sola, Snyder esautora Watchmen di tutti i suoi elementi costituitivi, rendendolo uno scheletro senza corpo, una storiella sulla Guerra Fredda con un finale imbarazzante – a onor del vero anche quello della miniserie originale è sempre stato molto criticato, Moore fu sconfessato da Lein Wein che riconobbe il finale copiato dalla puntata “The Architects of Fear” di The Outer Limits, ma all’autore inglese continua a non fregargli niente di ciò che pensano gli altri del suo lavoro. A Snyder invece importa eccome di quello che pensa il pubblico, offrendogli quindi esattamente quello che voleva: una riproduzione 1:1 del fumetto con un nuovo finale meno irrealistico.
Cinematograficamente Watchmen è un minestrone di fotografia allucinata, personaggi abbozzati, scene al ralenti assolutamente ingiustificate, montaggio pubblicitario e altre amenità. I titoli di testa presentano in maniera esaustiva tutti i problemi della pellicola. Sebbene il montaggio su The Times They Are-a-Changin’ di Bob Dylan stacchi i tempi giusti, le scene che si susseguono sono confuse e cinematograficamente inerti, proprio come un manifesto pubblicitario. In questo modo anche il resto del film continua ad esprimere una sorta di espressività in potenza, uccisa dalla piattezza della fotografia del solito Larry Fong. Il regista riesce persino a contraddire più volte il discorso originale del fumetto, come per esempio trasformando la cruda e meravigliosa sequenza del “salvataggio” di Rorschach, da parte del Gufo e Laurie Juspeczyk, in una scena da buddy movie in cui i due protagonisti sembrano possedere effettivamente una super-forza, quando invece nel fumetto erano sì presi da una trance violenta (che li lasciava senza fiato), ma più semplicemente si facevano spazio nell’anarchia della prigione in preda alla rivolta, talvolta evitando lo scontro. Snyder insomma rifiuta l’umanità dei personaggi e decide di renderli super e catchy, e laddove avrebbe dovuto interpretare semplifica brutalmente rendendo persino Watchmen un blockbuster estivo adatto a tutta la famiglia.
Un vero peccato, considerando l’opera di partenza, che non si sia voluto fare uno sforzo per decrittare le pagine di Moore e Gibbons in modo originale (cosa che sicuramente sarebbe riuscita a Terry Gilliam, uno dei registi più visionari della storia del cinema, che si beccò persino qualche spregio da parte di Snyder, ai posteri l’ardua sentenza sulle conoscenze cinematografiche di questo “regista”). Il suo incredibile seguito comunque non deve lasciare stupiti, il film gioca in maniera sistematica con i desideri dei fan e di chi si aspettava un bel thriller ucronico in maschera, tirando il freno a mano verso qualsiasi possibilità di sperimentazione e reinterpretazione Snyder si assicura una soave fruibilità, fastidiosa solamente per un pubblico più esigente.
Sebbene mancasse dunque di profondità e coraggio il film era parecchio “dark” per gli standard hollywoodiani (che ricordiamolo: sono sempre tarati per mamme, zie e papà), ed ecco che la DC, preoccupata che il successo delle pellicole Marvel potesse togliergli una fetta di mercato che era ben più sostanziosa di quella cartacea, decide di prendersi il regista che meglio rappresenta il fanservice nella sua forma più bieca e pop. Una scelta che stanno rimpiangendo dal punto di vista critico, e che molto probabilmente rimpiangeranno anche con il nuovo film in uscita, anche perché è altamente improbabile che Snyder abbia imparato a girare un film come si deve dopo sette pellicole indecenti. Anche se è sicuro che io vada comunque al cinema a vederlo, sia perché sono un eterno ottimista (ci sono cineasti che per me hanno azzeccato solo un film, ma lo hanno fatto alla grande), sia perché la critica stavolta è più divisa che in passato (prima era solo un corale «merdre!» ora invece ci sono quelli che dicono «vabbè, sì dai, è carino»), sia perché è davvero difficile che un film con Batman e Superman possa davvero annoiarmi se ci vado a cuor leggero, sapendo che non vado a vedermi la prima del nuovo spettacolo di Antonio Latella o di Milo Rau, ma un grande evento stile wrestling americano.
Purtroppo ad oggi c’è davvero chi crede che film come Watchmen e Batman v Superman: Dawn of the Justice (2016) siano capolavori visivi contemporanei (alla faccia di esteti come Ridley Scott, Nicolas Winding Refn, Ben Whitley, Matteo Garrone, Hou Hsiao-Hsien, Takeshi Kitano, Xavier Dolan, etc.), dimostrando come effettivamente quelle critiche rivolte dalla stampa underground negli anni ’90 verso il cinema hollywoodiano, tacciato di impoverire lo sguardo dello spettatore per farlo abituare anche alle cose più imbarazzanti (vedi i vari Bad Boys che avevano sostituito i vecchi Streets of Fire e Escape from New York), erano affermazioni più che fondate.
Ma se il discorso di Snyder fosse una rivoluzione estetica?
No, non lo è perché:
- La sua non è un’estetica originale, anzi, non è proprio un’estetica, perché non trova mai una sua armonia ma al massimo esplode visivamente senza una direzione artistica. Già: come nelle pubblicità.
- Un esempio di piccola rivoluzione estetica l’abbiamo vista nei cinecomics (!) con il primo Sin City (2005) diretto magistralmente da Robert Rodriguez, regista texano dal talento altalenante, ma che nei suoi momenti migliori ha espresso del grande cinema d’intrattenimento. Del suo Sin City possiamo trovare degli echi nel Watchmen di Snyder, sopratutto in alcuni tagli prettamente fumettistici, ma Rodriguez ha avuto il coraggio di portare questa scelta fino in fondo, rendendo il confine tra pellicola e disegno molto labile, con un risultato visivo sorprendente e mai asfissiante. In un primo momento sembra copiare l’opera di riferimento senza particolari indugi, quando invece aguzzando lo sguardo ci si accorge della dilatazione visiva, quasi delirante, che viene apportata in ogni scena. Laddove il disegno di Miller è scarno e di pochi particolari, Rodriguez costruisce davanti ai nostri increduli occhi una città che pulsa peccato da ogni angolo, riempiendola amorevolmente di particolari mai fini a se stessi. Sembra quasi di rivivere la Gotham di Burton senza però la sua carica grottesca, con il gusto urbano del noir francese e la violenza tipica dei lavori migliori di Rodriguez (El mariachi, Desperado, From Dusk Till Dawn) .
- L’estetica nel cinema è diegetica per definizione, quella di Snyder invece la si subisce e basta.
Ma la Marvel caga solo oro?
Il continuo shitstorm contro la DC è visto da molti utenti dei social network come una forma di complotto Disney contro i film “maturi” della DC, i quali, sempre secondo questi opinionisti del web, vorrebbero alzare l’asticella artistica dei cinecomics.
Diciamo subito le cose per come stanno. Dal 2008 ad oggi di film usciti all’interno degli universi narrativi espansi dei due colossi americani che possono annoverare il titolo di capolavoro, forse ce n’è uno, ma sarà la storia a confermarlo, non i critici che scrivono oggi le loro recensioni. Il resto è perlopiù robaccia o film discreti, che si chiamino Wonder Woman o Homecoming poco importa. Non si giudica un film dal produttore o dal distributore, sarebbe come se partissi prevenuto su un film perché prodotto dalla Universal invece che dalla Paramount, ma questo genere di dinamiche gli americani le conoscono bene e le sfruttano per aizzare il pubblico.
La Marvel, da vecchia volpona, ha costruito ad arte un ambiente che la favorisce nella maggior parte delle discussioni online, grazie alla sua presenza massiccia sui social fin dal primo Iron Man. Ora possono anche permettersi di fare i complimenti ai film DC, come se fossero dei fratelloni benevoli. Il pubblico poi ama polarizzarsi, perché è naturalmente portato a fidelizzarsi ai marchi. Esattamente come c’è chi compra Apple per la narrazione espansa che la società californiana ci propina da anni, in cui viene detto che acquistando “Apple” si accede automaticamente ad una precisa filosofia del quotidiano. Questo vale per qualsiasi oggetto sia “di moda”. Crearsi dei nemici poi rafforza la fidelizzazione, rendendola irrazionale e viscerale. Infatti quando esce un film su Thor non è più “un film su Thor” ma “un film della Marvel”, annientando di fatto qualsiasi pretesa autoriale sul prodotto ancora prima di averlo effettivamente visto. Un meccanismo perfetto, che deresponsabilizza gli autori e appiattisce tutta l’offerta.
Io sono un ragazzo che è cresciuto anche a suon di fumetti, sono stato un grande appassionato della fantascienza argentina e francese, dei manga più sperimentali e malati, dei grandi autori italiani del Corriere dei Ragazzi, ma sopratutto fino al 2014 ho comprato centinaia di comics americani. Dallo sconosciuto Breed, strepitosa serie di Jim Starlin apparsa sulla sfortunata Bravura, fino ai più blasonati Captain America, Fantastic Four, Batman, Sandman e via dicendo. Ho un garage molto grande che strabocca di numeri di Iron Man firmati da Bob Layton e Hulk di Peter David e Dale Keown. Alla luce di questa passione, che si è dovuta momentaneamente prendere una pausa perché il portafoglio languiva e langue tutt’ora, quando vado al cinema per vedermi un Valerian come un Superman ci vado con la voglia di riprovare quelle emozioni, che da bambino mi facevano smaniare talmente tanto da presentarmi alle 6 del mattino edicola per acquistare il numero successivo della mia serie preferita. E di solito mi riesce.
Anche se Civil War non è un buon film, mi sono divertito a vederlo, perché so che sto andando a vedere una sonora cazzata. Non mi aspetto che Justice League sia un capolavoro o un film “impegnato”, ‘fanculo, voglio scazzottate e drammi esagerati come nei fumetti! Se poi devo valutare criticamente quello che ho visto il discorso è diverso. Gusto e critica possono anche andare in disaccordo, godo di più ad ascoltarmi un album dei Dots invece che uno dei King Crimson, ma non è che reputi i Dots un gruppo più importante e influente della band di Robert Fripp. La gente si è lamentata perché Thor: Ragnarok (2017) non è epico o dark, come se il fumetto di Kirby lo fosse sempre. In casa Marvel lo spazio per allentare la tensione lo si trovava costantemente, i disegni erano schizzati come anche i colori e rendevano certe avventure troppo assurde per essere plausibili, ma poi sopratutto si invoca in continuazione la libertà d’espressione per i registi e poi uno si lamenta se Taika Waititi, regista di What We Do in the Shadows (2014) e di Hunt for the Wilderpeople (2016), due fra le più squilibrate e geniali commedie degli ultimi 10 anni, fa una commedia? E cosa avrebbe dovuto dirigere, un noir in bianco e nero?
Va detta anche un’altra cosa in difesa di Ragnarok, il film più vituperato su internet da chi è abituato a trovare del cinema in Transformers e Jumanji (1995). Perfetto nelle sue premesse e ovviamente del tutto futile dal punto di vista artistico (come se fosse una novità poi), Ragnarok è un film in cui le scene d’azione sono girate da uno che i crismi del cinema li conosce, e sebbene il regista neozelandese non ne avesse mai girate prima ha dimostrato un grande ordine nel montaggio e nella prossemica. Pensate alla scena iniziale, dove Thor smartella tutti i demoni sulle note dei Led Zeppelin (scelta commerciale, ma azzeccata nel contesto), ci sono molti rimandi alla battaglia che preludia al finale di Dracula: Untold, con tanto di sequenza concentrata sull’arma dell’eroe. Laddove Gary Shore l’ha girata come se fossimo dentro un frullatore, Waititi è riuscito ad uscirne con una pulizia visiva impeccabile. I personaggi del suo film ridicolizzano la prosopopea dei primi lavori su Thor (senza sminuire il lavoro di Branagh), e ne escono fuori rafforzati e più complessi. Liberatorio il finale, anche stavolta decisamente politico (ma Waititi ci ha abituati a queste sferzate già in Hunt for the Wilderpeople). Chiaramente il film non esce fuori dai binari dei sintagmi narrativi lineari discontinui del blablabla, ma il chissenefrega in questi casi sale a livelli stratosferici. Definire una merda un film che una volta ogni tanto mantiene i giusti rapporti tra dinamismo e rilassamento, diretto senza sbavature o forzature tecniche, comicità demenziale e costruzione dei personaggi ben fatta perché non passa tramite gli spiegoni ma i dialoghi… oddio, mi sono appena reso conto che Ragnarok è l’esatto opposto di Suicide Squad (2016), quella sì una porcheria indifendibile! Ritmi schizofrenici, fotografia che cambia in base all’umore del regista, scavalcamenti di campo e ralenti casuali, comicità alla Will Smith (il peggior attore nella storia di Hollywood) e personaggi abbozzati male da delle scritte in sovrimpressione.
Il problema dei film DC non sono i film Marvel, è che finora i lungometraggi singolarmente presi fanno ribrezzo oggettivamente. Poi il gusto non c’entra nulla, è esente da qualsiasi riflessione razionale, ma esistono gli elementi per giudicare una pellicola oggettivamente, e per quanto uno possa essere buono o appassionato non c’è un solo prodotto della DC che abbia ancora solo sfiorato la sufficienza. Comunque è meglio ribadire di nuovo: a cosa serve giudicare i film dal nome del produttore? Sarebbe come se sul web nascesse una guerra tra fan della Fandango e della Officine UBU, un nonsense nucleare.
Tutto questo per me risulta incomprensibile forse perché mi piacciono sia i fumetti DC che quelli Marvel, ma forse perché non ritengo che i miei gusti mi rendano una persona migliore o peggiore. Quasi come per salvare la propria integrità morale ed intellettuale ci si lancia in sperticati articoli dove si elogia quella o quell’altra pellicola come in trincea, per cui per uno i film DC sono i migliori e i più sperimentali (sì, ho letto cose di questo tipo), e l’altro crede che alcuni film Marvel siano capolavori della storia del cinema (alla faccia di Welles, Kurosawa, Ozu, Polanski, Anger, Dreyer, Kieślowski e compagnia cantante), il tutto per giustificare quella innocente sensazione che è il piacere. Si potrà anche dire, alla luce di tutto questo, che parlare di cinecomics ha rotto bellamente il cazzo?
Gli altri cinecomics di Fox e Sony
A parte i vari «capolavoro!» che anche in questo caso vengono lanciati senza alcun criterio, giusto per infervorare il pollaio, Fox e Sony sono state più coraggiose nel produrre alcuni titoli (primo fra tutti lo splendido Spider-Man di Raimi), ma ad oggi hanno clamorosamente abbassato il tiro. Logan (2017) di James Mangold o Deadpool (2016) di Tim Miller, sono stati i due titoli più rimbalzati sul web, tacciati anche loro di capolavoro persino prima dell’effettiva uscita nelle sale, alla luce di ciò bisognerebbe aprire una discussione su cosa sia un capolavoro del cinema, ma visto che di certo Logan e Deadpool non ci assomigliano nemmeno di striscio, lasciamo le cose come stanno e proseguiamo (ovviamente con questo non sto dicendo che siano brutti film, scusate per la precisazione ma a qualcuno sarà sicuramente servita).
Le due major hanno gestito alcuni dei diritti svenduti dalla Marvel prima che la creatura di Stan Lee pronunciasse il suo primo vagito cinematografico, alternando cose ottime (X-Men, X-Men 2, Spider-Man, Spider-Man 2) a cose imbarazzanti e scabrose (Fantastic Four 1, 2 e reboot col botto, X-Men 3: Conflitto finale, The Amazing Spider-Man 1 e 2).
Bryan Singer è un regista, sceneggiatore e produttore newyorkese, si fece notare nel 1993 con un film esageratamente low-budget ma che riscosse subito un certo successo nei festival: Public Access. La sua carriera prese il volo dopo aver diretto i primi due X-Men e il pilot della serie di cui fu anche co-produttore: House, M.D. (un successo clamoroso durato 8 stagioni e 177 puntate). I suoi X-Men ci vengono presentati identici nel concetto a quelli di Stan Lee, sono dei disadattati, dei punk, dei diversi. Nel corso dei film da lui diretti della saga, Singer ha cercato di sviluppare diversi punti di vista, criticando aspramente sia la società americana che la politica in senso lato. Nei primi film l’occhio di Singer si soffermava sulle dinamiche interne al gruppo e la loro relazione ambigua con i “cattivi”, anche loro persone odiate dalle società ma che decidono di sovvertirla. Singer ha avuto il merito di aver portato temi molto complessi nel cinema per famiglie, toccando temi come il sesso, i rapporti familiari, le ideologie politiche, mettendo in discussione tutto e donandoci la prospettiva dei ricercati e degli odiati. Un lavoro dai risultati altalenanti, ma sempre con una tensione civile che troppo spesso manca al cinema d’intrattenimento.
Sam Raimi invece lo conoscono anche i muri, autore di culto dell’horror underground, la sua cifra stilistica tutt’oggi trova proseliti in ogni parte del globo. Hitchcockiano nel sangue (e infatti i suoi film migliori sono meccanismi ad orologeria di fattura svizzera), Raimi è stato uno dei pochi registi ad approcciarsi al mondo dei cinecomics senza scendere a compromessi (almeno per i primi due film).
In Spider-Man (2002) e Spider-Man 2 (2004) il lavoro di Raimi è quello di un artista ossessionato dal dettaglio e dalla ripresa perfetta, ogni scena cerca di trarre il meglio dalla recitazione degli attori, e quando non ci sono loro costruisce una New York tremendamente reale e fragile. Ogni elemento è strettamente necessario per il proseguimento della trama e delle sotto-trame, evolvendo i protagonisti assieme ai comprimari e alla città stessa. Questo organismo, questa massa di interconnessioni, non risulta mai pesante, incastonato come al solito in una regia fluida e per niente discreta (grazie ai suoi soliti dolly e zoom che sfruttano gli assi diagonali con una velocità ansiogena). Torna la Big Apple gotica di Burton, ma lo sguardo del regista di Royal Oak è più interessato al giorno che alla drammatica notte. Di giorno New York è piena di fattorini e ragazzi in motorino che consegnano di tutto per pochi spicci, la redazione del Daily Bugle è un ambiente scalmanato, e Peter Parker (Tobey Maguere) deve lottare per ogni centesimo conquistato, mentre pensa ad un impossibile flirt con la segretaria del suo capo e alle bollette di sua zia. Sempre di giorno gli tocca bloccare un treno che sta deragliando, e ci soffermiamo a vedere nelle case delle persone normali, quelle che tirano a campare quotidianamente, quel tessuto sociale che non esiste più nelle pellicole ad alto budget. Nel secondo film New York avrà modo di riconsiderare la figura di Spider-Man, il quale da feccia diventa eroe della gente, sempre pronto a tornare feccia qualora la moda passasse (un po’ alla Riccardo II, vai, spariamo questa cazzata). L’architettura newyorkese contamina persino il costume del suo villain, Goblin. Quest’uomo, Norman Osborn (un immenso Willem Dafoe), è quasi riuscito a coniare il suo sogno americano, scalando le vette del successo faticosamente, ma viene messo in angolo dall’azienda che porta il suo nome, e si ritrova a fare da cavia per i propri esperimenti. Goblin è la New York che non ce l’ha fatta, quella che si è arresa ai meccanismi del sistema e decide di rispondere con la violenza e il rancore. In questo affresco di un gotico davvero americano, dove Burton forse era più europeo, anche Raimi confonde le carte tra bene e male, rendendo il suo personaggio debole e impacciato, in costante ricerca di un equilibrio morale che rischia di compromettergli anche l’amore e il rapporto con la zia, costantemente appeso ad un fragile filo di ragnatela.
Ma i cinecomics non sono arte?
Ok, calma: come siamo arrivati a questo? Davvero, stavo bevendo un tè caldo, ho letto un commento su Facebook ed ora mi ritrovo a scrivere di arte e cinecomics. Cristo.
La domanda ovviamente è posta in maniera faziosa, sarebbe come chiedersi: ma i western sono arte? Non ha senso. Bisogna valutare film per film e non per categorie.
I lavori di Burton, Raimi e Del Toro sono sicuramente quanto di meglio fin qui il cinecomics abbia saputo esprimere, ma nell’ambito più ampio dei film tratti da fumetti la situazione si fa più complessa.
Nessun film americano tratto dai comics è arrivato a mettere in discussione davvero la grammatica cinematografica. Ma abbiamo degli esempi dal lontano Oriente in film come Old Boy (2003) di uno dei più importanti registi viventi: Park Chan-wook, o in cineasti eclettici e sperimentali come Takashi Miike. Miike come il suo amico e collega Shin’ya Tsukamoto conosce bene il cinema occidentale (David Cronenberg, Paul Verhoeven, Walter Hill, David Lynch), ma lo destruttura sistematicamente, sia nell’ambito commerciale che ovviamente in quello sperimentale. Se nei due capitoli di Crows Zero (2007 e 2009) questo lo si vede meno, anche se registicamente cagano in testa al 90% delle produzioni occidentali pensate per il pubblico giovanile, allora Ichi The Killer cancella di fatto qualsiasi tipo di pretesa artistica nei cinecomics odierni.
Uscito nel 2001 assieme ad altri due capolavori del prolifico regista nipponico (Visitor Q e Agitator), Ichi The Killer è una pellicola che sevizia tutto ciò che è sacro, a partire dalla narrazione (non c’è crescita, non ci sono insegnamenti da apprendere) per passare a dei personaggi profondamente malati eppure incredibilmente veri, fino ad un vero e proprio stupro della pellicola, seviziata da un montaggio disturbante il quale regala dei momenti di pura poesia tecnica e concettuale. Il film comincia nel buio, la musica frenetica e post-industriale dei Karera Musication subito impone una ritmica nevrastenica al montaggio, il primo frame è completamente destrutturato, assomiglia più ad una istallazione di video-arte di Microscope Gallery che ad un film. Subito dopo uno zoom all’inverso alla Raimi, così repentino da sconvolgere il fuoco e lasciare per un micro-istante solo due puntini bianchi sullo schermo. Miike congegna il suo film partendo dalla devastazione dell’immagine (che poi scopriremo essere anche emotiva per i due antagonisti) che è anche devastazione della parola: vettore di memorie edulcorate, di promesse impossibili da mantenere, di un amore che non può mai effettuarsi se non tramite la violenza (o inflitta o auto-inflitta). Come nel Tokyo Fist (1995) di Tsukamoto, presente in Ichi come attore, anche nella pellicola di Miike i personaggi sono malati a causa dei miasmi della società post-industriale, le loro movenze claudicanti assomigliano sempre di più a quelle allucinate e nevrasteniche del cantante/critico David Thomas ai tempi di “Modern Dance” e “Dub Housing” (entrambi 1978), i due album dei Pere Ubu che meglio incarnano lo spaesamento dell’uomo all’interno di metropoli inerti e sempre più disumane. Nelle transizioni tra una scena e l’altra la cinepresa sembra volteggiare come un insetto fra le strade della capitale nipponica, come a cercare il prossimo fiore del male da cui trarre il nero nettare da spargere diligentemente per le strade.
Alla luce di lavori di questa fattura è difficile francamente parlare di capolavori guardando Wonder Woman.
Ma non sono forse i supereroi la moderna epica americana?
Non me lo domando io, sia chiaro, ma molti appassionati del genere. La risposta è ovviamente no, ma non per partito preso.
L’epica per gli americani comincia con i racconti del vecchio west, e non è di certo un caso se le prime pellicole di peso nella loro storia cinematografica siano western. Il western era il genere narrativo americano prediletto persino prima dell’avvento del cinema, noto anche da noi in Italia da molto tempo, basti pensare al successo operistico de La fanciulla del West di Puccini (1910). Il contesto culturale americano legato al genere però è più ricco di quanto si possa pensare, corroborato da una quantità smodata di letteratura e musica prodotta per più di un secolo. Comunque sia partendo dall’immenso John Ford, passando per Robert Aldrich, Nicholas Ray, Howard Hawks e Sam Peckinpah, l’epica americana resta quella a tutt’oggi. Come per noi culturalmente esistono ancora l’Odissea e l’Iliade come esempi più alti e sempre fertili del nostro immaginario epico, per loro c’è Ombre Rosse (1939) e Mezzogiorno di Fuoco (1952). La scena dell’attesa dell’arrivo del treno nell’iconico film di Fred Zinnemann fa ancora oggi accapponare la pelle, la musica di Tiomkin diegetica da far spavento, un montaggio che ha fatto scuola e che ancora oggi fa proseliti (Sergio Leone, Sam Raimi e Kim Ji-woon lo sanno bene!).
Potremmo dire, facendo uno sforzo critico ben al di là delle mie misere conoscenze, che l’epica americana trova il suo canone cinematografico in Ombre Rosse, e viene per la prima volta messo in discussione dal road movie per definizione: Easy Rider (1969) il capolavoro inarrivabile di e con Dennis Hopper, accompagnato da Peter Fonda e Jack Nicholson. Questo film descrive al meglio lo slegamento ontologico della società americana, la sua ferocia generazionale e territoriale, il suo essere reazionaria di natura, impaurita dalle contaminazioni che l’hanno forgiata, divisa in Stati che si odiano gli uni con gli altri e che si sentono più americani gli uni degli altri (mentre i veri americani li si possono ammirare nelle riserve, come gli elefanti in Kenya). Hopper inoltre immerge la sua regia di esperimenti avanguardisti, vibrando l’immagine fino al delirio (come nella celebre sequenza del cimitero) o tagliandola sconvolgendo la linearità del racconto. Il finale poi getta un velo di disperazione e pessimismo sul futuro, l’urgenza di Hopper è quanto mai fatidica, pochi mesi dopo ecco il primo sasso rotolante verso la fine del sogno hippie, il tragico concerto del 6 Dicembre all’Altamont Raceway Park dei Rolling Stones, durante il quale i membri degli Hell’s Angeles uccidono un ragazzo di colore. Siamo nella civile e progressista California, non nel selvaggio e retrogrado Texas.
Nel mezzo ci metterei Walter Hill, con una menzione speciale per The Warriors (1979) e Streets of Fire (1984) e The Long Riders (1980), anche se per i primi due siamo su lidi molto diversi in quanto genere, certe dinamiche vengono riproposte pari pari ed evolute nelle tematiche affrontate (oltre che nell’estetica).
Terzo passaggio il cinema di Michael Cimino, in particolare I Cancelli del Cielo (1980) e Verso il Sole (1996). Il cinema del landscape diegetico per eccellenza, Cimino traduce Ford attraverso la lente della new Hollywood e dei suoi maestri (Roger Corman, John Cassavetes, etc.), mostrando una America che persino da contea in contea vive di divisioni inconciliabili. Solamente in Verso il Sole ci vengono mostrati: la Los Angeles dei quartieri alti, il ghetto messicano e il ghetto dei neri in guerra tra di loro, i bikers sudisti nel locale in mezzo al deserto, il paesino di campagna con la chiesa della comunità nera altolocata (ma comunque isolata) e i navajo che galoppano a cavallo tra le terre un tempo loro, adesso trasformate in un bellissimo zoo. L’America di Cimino sembra un puzzle i quali pezzi sono ancora tutti sparsi sul tavolo.
Quarto e ultimo passaggio nel cinema di Rob Zombie, in particolare The Devil’s Rejects del 2005. Questo capolavoro contemporaneo è un frottage di contaminazioni, da Walter Hill a Tobe Hooper, fino a Carpenter e gli horror degli anni ’30-’40, da Bava a Fulci passando per il White Zombie del 1932 da cui il nome della sua prima band. Ho scritto frottage non a caso, la tecnica del surrealista Max Ernst riprende un metodo antico: in pratica sfrutta la superficie di oggetti messi sotto la tela per creare delle texture molto variegate. Nel caso specifico di Ernst gli serviva per modificare la morfologia delle sue ambientazioni rendendole ancestrali e trasognanti. Zombi applica più o meno lo stesso concetto nel suo cinema, usa Hooper e Bava per impreziosire il contesto, per renderlo brulicante di significanti molto chiari e leggibili, ma al contempo si smarca dai suoi idoli con una regia che tende (in)consciamente al musical (secondo Sergio Miceli tutto il grande cinema americano tende al musical, laddove la perfetta armonia tra immagine e montaggio basta di per sé per raccontare una storia). Non è un caso se il finale del film è montato letteralmente al ritmo di Free Bird dei Lynyrd Skynyrd, deturpato solo dal violentissimo suono delle fucilate. Un finale concettualmente non molto diverso da quello di Easy Rider, trentasei anni prima.
In quelle lande desolate da conquistare centimetro per centimetro, in quella eterna lotta per la sopravvivenza e l’identità c’è tutta l’America. Si spera che dopo aver visto questi e molti altri film uno lo abbia pienamente capito, altrimenti si ritrova a credere che un tipo vestito da bandiera con le alette sul capo possa rappresentare l’epica contemporanea di una nazione.
I cinecomics rappresentano le nuove generazioni
Se le nuove generazioni sono quelle di Spider-Man: Homecoming (2017) allora siamo a posto, non ci sono problemi se non quelli classici adolescenziali, perché tutto sono i personaggi di questi cinecomics tranne che davvero in bilico o in crisi.
In Batman v Superman: Dawn of the Justice (2016) si è cercato di cogliere una sorta di Sturm und Drang tipicamente americano nella relazione tra religione e capitalismo, in cui ovviamente Bruce Wayne (il self-made-man della situazione) si rende conto che senza il calore della famiglia (cristiana-protestante) non si va da nessuna parte, cambia da heel a face come nel wrestling e fonderà la JLA sulle basi morali ed etiche del Salvatore Superman Cristo. Il risultato, come avrete già intuito dal tono di questa sinossi, è quantomeno ilare. Capisco il tentativo di frenare le derive immorali del trumpismo riportando la discussione su un piano religioso (anche se non condivido niente di tutto questo posso apprezzare lo sforzo politicamente impegnato di matrice comunque repubblicana), ma il modo come al solito testosteronico e virile di affrontarlo francamente ha stancato. Inoltre con le questioni riguardanti i millennials, ovvero coloro che sono nati tra la fine degli anni ’80 e l’inizio del ‘2000, non ci incastra manco per sbaglio, quindi non si capisce perché dovrebbe essere considerato un film “generazionale” come molti commentatori sul web hanno affermato.
Homecoming, come vi dicevo, rappresenta i giovani d’oggi come spensierati cazzoni senza problemi di sorta, in particolare nell’ambito lavorativo e sociale. Peter Parker, al contrario del fumetto e dei film di Raimi, vive una vita privata e scolastica senza grossi traumi, e prende tutto quello che gli accade con una leggerezza estenuante. Alla fine del film non sembra neanche ne abbia tratto nessuna morale di circostanza dagli eventi che gli sono capitati attorno.
Tutto questo al contrario di pellicole del recente passato, più coraggiose anche se non sempre azzeccate. E ritorniamo a parlare dei primi due capitoli dello Spider-Man di Raimi. La New York di Raimi è quella di tutti i giorni vista dal giovane medio che si arrabatta per un lavoro: persone scontrose, colleghi fetenti, datori di lavoro ancora più fetenti, una zia fragile che si spezza con un grissino che vive in un quartiere che non può più permettersi, una potenziale-ragazza che vive col patrigno manesco, un miglior amico che odia il suo alter-ego e gli frega la ragazza, devo continuare? Spider-Man è dannatamente vero, banale nel senso più virtuoso del termine in un film sui supereroi. Senza mai scadere nel pietismo o nel dramma fine a se stesso, Raimi calibra perfettamente tutti i suoi registri: horror (Evil Dead II: Dead by Dawn), commedia (Army of Darkness) e dramma hitchcockiano (A Simple Plan), mescolandoli con il genere supereroistico che conosce bene (il suo Darkman è del 1990, una interessante e decisamente coraggiosa risposta al Batman di Burton).
Schumacher nemmeno lo commento, ma su Nolan due paroline vanno spese. Considerati tutt’ora da internet come la miglior trasposizione al cinema di un fumetto, la trilogia di Nolan non ha sempre trovato consensi nella critica, ed è molto facile intuirne il perché. Nolan tenta di portare Batman nella realtà quotidiana, senza però alcun filtro, come se fosse un film di Michael Mann dove però Robert De Niro e Al Pacino sono vestiti rispettivamente da gigantesco pipistrello nero e da clown marxista. Difficile quindi da digerire per un pubblico più preparato che rivedeva molto del cinema di Mann nelle scene d’azione e qualcosa di Spike Lee e Felix Gary Gray nel rapporto tra gli antagonisti. Sicuramente però una boccata d’aria fresca per il genere, che cambia radicalmente impostazione estetica, ma che purtroppo sfrutta eccessivamente tópoi di un cinema già visto e sviscerato nelle sue dinamiche. Per approfondire certe questioni consiglio la lettura delle recensioni di Goffredo Fofi in merito.
Parlare di cinecomics ha rotto il cazzo
Davvero gente, non se ne può più. Ma è normale che al cinema escono film come The Assassin (2015), The Whispering Star (2015), Paterson (2016) The Witch (2015), The Lobster (2015), El abrazo de la serpiente (2015), A Field In England (2013), Non essere cattivo (2015), The Handmaiden (2016), Snowpiecer (2013), The Wailing (2016), e altre centinaia che magari non sono capolavori (o non lo sono ancora), ma almeno sono pellicole delle quali puoi scrivere più di cinque righe, e invece ci stiamo ad arrabattare per due tizi in costume diretti alla meno peggio?
Ormai il meccanismo dei cinecomics sta fagocitando se stesso, o si propongono progetti davvero sperimentali e al limite, oppure finiamola ogni qual volta esce un film con un tipo in costume (però “dark”) di urlare al capolavoro, e quindi di produrre una quantità esorbitante di parole futili. Anche perché il 90% delle recensioni tra youtubers, blog nerd o pagine nerd di Facebook (magari pagine di videogiochi o fumetti, tanto per fare ancora più casino) sono quasi tutte sulla trama e il carisma dei personaggi, quindi non sono recensioni o critiche ma bensì sinossi, spesso fatte pure male.
Prossima volta al cinema per il nuovo cinecomics armatevi di pop-corn, bibita zuccherata e tanta voglia di divertirvi, e non sputate fuori dal jeans lo smartphone appena si abbassano la luci, per sparare una diarrea di cazzate su Facebook avrete tutto il tempo del mondo dopo il film, intanto porco Giuda godetevelo!
