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Lo zen e l’arte della recensione di Trout Mask Replica

Forse sono passati già dieci anni da quando lessi per la prima volta questo post. Era firmato da un certo Tristram Shandy, un gentiluomo che scriveva in un blog chiamato “Morte A Credito” su Splinder. La mia vita cambiò e prese una piega che mi ha donato le più grandi soddisfazioni che abbia mai raccolto in 27 anni. Ora ne ho 28, e sebbene Tristram non ci sia più da un anno quella forza inerziale continua a spingermi. Per un bel po’ di tempo, lo ammetto, mi stava trascinando con sé verso un baratro senza fondo. Mi ci è voluto per capire che siamo troppo piccoli per affrontare la morte, e risulta decisamente meglio usare le nostre poche forze per affrontare la vita.

Buona lettura.

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Finalmente l’ho fatto. Per quanto possa essere irrilevante ai più, per me, mettere in parole la mia recensione su Trout Mask Replica è come aver finalmente eiaculato dopo una sega durata sei anni (immaginate il fiotto).

Sei anni fa a Firenze, in piazza San Marco, ricevevo per il modico prezzo di 10 euro la mia copia di Trout Mask Replica di Captain Beefheart. Avevo aspettato un anno circa prima di averlo e – sembra strano – il negoziante, ogni martedì, mi ripeteva che “la prossima settimana arriva, tranquillo”.

E arrivò.

Allora avevo il mio mitico e indimenticabile disc-man (lettore cd) della Sony con la cover blu. Era sopravvissuto alle superiori e durava ancora durante la mia parentesi universitaria. Anche quel giorno era con me – ricordo che era all’incirca Febbraio – custodito al sicuro nella generosa tasca del mio piumino. Mentre scartavo il cellophane che ricopriva il disco tremavo, quasi, dall’ansia di poter finalmente ascoltarlo, mentre ripetevo al mio lettore che oggi avrebbe fatto suonare “il più grande album rock di tutti i tempi” (ovviamente è un eufemismo, di solito non parlo con gli oggetti).

Non ricordo dove avevo letto quelle parole, io ai tempi manco conoscevo Bangs o Scaruffi, ma questa storia di Trout Mask Replica mi ronzava in testa da tanto…un a priori kantiano che mi attraeva, forse? Chissà, ma va detto che io amavo Frank Zappa alla follia (il mio primo gruppo si chiamava Hungry Freaks, in onore ad un pezzo delle Mothers of Invention), e leggendo di lui lo trovavo sovente collegato a Don Van Vliet. Beefheart compariva come personaggio anche nell’autobiografia di Zappa (con Peter Occhiogrosso), il che lo faceva diventare automaticamente un mio mito (dalla serie: “ogni amico del mio mito è un mio mito”).

Così mi ossessionai finché non lo ottenni.
E arrivò.

Ma non fu quell’orgasmo che pensavo poteva essere. Quei suoni, quelle canzoni, quello stile, quelle note… non potevo sopportarlo. Il mio lettore blu tirò un sospiro di sollievo quando pigiai il tasto col quadratino incavato, neanche a metà album. “Ma ovviamente – mi ripetevo – non è finita qui! Io scoprirò perché è un capolavoro, al costo di ascoltarlo tre volte al giorno.

Anche ascoltandolo tre volte al giorno, però, la cosa non cambiava. Era strano, era diverso, non aveva “canzoni” vere e proprie, anche se ne conservava alcune similitudini. Non era neanche “musica”, a dire il vero, perché non suonava bene. Perché? Perché non capivo? Eppure doveva essere il Citizen Kane del rock, porcocristo, e non una schifezza del genere.

Praticamente lo imparai a memoria. Sapevo tutti i titoli delle 28 canzoni, la disposizione, i cantati e alcune parti di testo. Questo solo perché mi ero incaponito di ascoltarlo, ma non riuscivo davvero a scoprirlo.

Ricordo che fu il mio secondo mito vivente, Sara, a dirmi dell’esistenza di un critico del web, tale Scaruffi, che era un gran bastardone ma aveva recensito praticamente tutto. Così diedi un’occhiata al critico bastardone e nella sua lista dei migliori album, al primo posto, trovai proprio Trout Mask Replica. Ebbi una strana palpitazione al cuore: “Finalmente scoprirò che cazzo ha di tanto spettacolare sto album del cazzo”. Perché, è giusto che sappiate, io avevo lasciato un po’ perdere il Beefheart, ma lo veneravo in quanto “proiezione di superiorità musicale non ancora ben chiarita”.

Ma Scaruffi non dice – praticamente – un benamato cazzo sul perché è il più grande disco del rock. Invito tutti quanti avranno letto la seguente recensione a dare, in seguito, un’occhiata a quella che fa Scaruffi e a raffrontarla con la mia se hanno qualcosa in comune.

La chiave che sbloccò l’amore per il Capitano fu invece Emanuele (mio amico e batterista), quando tre anni fa gli prestai quel maledetto cd. “Sai che è davvero esagerato?” mi disse. Era rimasto esterrefatto dall’istrionismo di Drumbo, il batterista della Magic Band. Trovava Trout Mask Replica un album “unico”.

Quando disse quella parola mi si aprì un varco riflessioni che fino ad allora non ero riuscito a carpire.
Aggiunse anche di dare un’occhiata su Ondarock, “c’è una recensione esagerata che parla del disco ponendolo come soggetto di un ipotetico dialogo tra un fan beefheartiano ed un neofita”. Lui non sapeva niente dell’ossessione che mi covava dentro da parte di quello stupido album con la copertina rossa ed un pesce che saluta (più o meno).

Trovo abbastanza esauriente (sicuramente migliore di quella di Scaruffi) quella recensione, tanto che scrissi una mail all’autore per ringraziarlo.
Probabilmente per voi quello che ho scritto fin qua può risultare inutile o costruito soltanto per narrare ciò che amo di più (i cazzi miei), mentre in realtà tutto questo era un preambolo per poter parlare della Qualità in una recensione. Ovviamente la mia recensione è (e qui lo dico senza usare virgolette, ma con parole che io penso e giustificherò) sul più grande album rock di tutti i tempi, Trout Mask Replica.

Ma parliamo di Robert Pirsig.

Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta lo lessi qualche anno fa. Mi lasciò talmente senza fiato, col cervello stimolato a mille che lo rilessi dopo pochi mesi alla ricerca di qualche chiarimento, certo che non avevo compreso tutto ciò che vi era dentro. E infatti così era.

Lo ripresi in mano altre volte per leggere alcuni passaggi, o riavventurarmi nuovamente nell’avventura on the road dei protagonisti, fino a che – dopo averlo largamente consigliato alla mia Morosa – ho deciso di rileggerlo nuovamente poco tempo fa.

La storia si dipana in due, da un lato c’è il viaggio di Pirsig con suo figlio in moto per gli Stati Uniti, dall’altro c’è la storia di Fedro, folle genio che si impuntò sulla Qualità. Tra le due storie c’è un filo comune che è Pirsig stesso, ovvero Fedro, ovvero un professore di filosofia “condannato” dalla sua stessa intelligenza all’elettro-shock. Quello che rende il libro un colosso è la pregnanza di concetti che Pirsig riesce abilmente ad inserire senza rovinare niente in scorrevolezza o continuità. Chi ha letto il libro, probabilmente, capirà meglio tutti i miei discorsi.

Dividendolo, come Pirsig fa, in due modalità – Classica e Romantica – cercherò di recensire l’album con la più alta dose di Qualità che riuscirò a metterci.

Premetto che “un’intelligenza classica vede il mondo innanzi tutto in quanto forma soggiacente. Un’intelligenza romantica lo vede innanzitutto in termini di apparenza immediata. E’ improbabile che un romantico trovi interessante uno disegno tecnico o meccanico o uno schema elettronico: per lui queste cose non hanno fascino, perché non ne coglie che la realtà superficiale […]. La modalità classica, invece, procede secondo ragione e sulla base di leggi – che sono esse stesse la forma soggiacente del pensiero e del comportamento.” (p.p. 75-76 ed. Adelphi)

Perciò ecco la recensione classica di Trout Mask Replica.

L’album contiene 28 brani, di cui tre strumentali e – per contrappasso – tre solo voce. L’album è del 1969, prodotto da Frank Zappa, con i seguenti musicisti:
– Captain Beefheart: bass clarinet, tenor sax, soprano sax, vocal
– Drumbo: drums
– Antennae Jimmy Semens: steel-appendage guitar
– Zoot Horn Rollo: glass finger guitar, flute
– Rockette Morton: bass & narration
– The Maskara Snake: bass clarinet & vocal

Ciò che principalmente diversifica e fa risaltare all’orecchio Trout Mask Replica da ogni altro album mai uscito finora (parlo oggettivamente, sono in modalità classica) è l’annullamento del “battere-levare”, grazie ad un lavoro fatto a regola d’arte basato sugli strumenti a corda. Si può notare che le chitarre sono poste una a destra ed una a sinistra, mentre la batteria ed il basso rimangono centrali. Sono loro a fare il lavoro “sporco” di dissonanza temporale, mentre in realtà sono tutti corretti e nessuno va fuori dalla battuta. Soltanto che al posto di seguire la chitarra, nella Magic Band, si segue la batteria.

Ascoltando una chitarra sola e la batteria tutto va bene, ascoltando esclusivamente l’altra chitarra e la batteria lo stesso. Ma insieme è un gran canaio. Perché? Perché, pur tornando, spesso, le due chitarre sono aliene tra loro creando quel “caos” che rende l’album inascoltabile.

Non è tutto qui. L'”inascoltabilità” fa affidamento anche su un sapiente uso delle terzine che ogni strumento fa senza seguire l’altro, cosicché la ritmica si annulla o si moltiplica straniando tutto dalla musica pur rimanendo perfettamente su quel campo. Un esempio molto illuminante è Dachau Blues, dove Drumbo fa il 4/4 in terzine, la chitarra sinistra ha gli accenti in levare e la destra in battere. Un casino, sì, ma completamente regolare.

Beefheart non si ferma qui, ma fa sì che sparisca la tonalità facendo uso abbondante di cacofonia (“che palle la tonalità, è così limitante!” Lester Bangs), soprattutto coi fiati e gli ottoni suonati intenzionalmente male. Cioè, sono suonati nel modo che non rispecchia la normale corrente d’uso. E sono proprio gli ottoni e i fiati gli unici strumenti che si permettono gli assoli, perché – nonostante sia un album rock – Trout Mask Replica è privo di soli di chitarra o di batteria o di basso.

Altra componente importante è la struttura delle canzoni. Ogni pezzo ha in sè una struttura diversa dall’altra, e (a parte Ella Guru e Sugar’n’Spikes) da qualsiasi canzone rock fino ad allora uscita. Ogni brano splende di propria personalità e identità, e questo senza adombrare l’altro o risultare prolisso.

La voce è assolutamente una cosa nuova. Entra senza pietà in ogni brano, spazzando via gli strumenti che sorreggono la struttura, la voce è padrona dell’album, è la cosa più importante in quanto se ne frega dei cambi ritmici o melodici. Beefheart non canta, decanta. Non solo, fa un uso completo del suo “strumento” ululando, ringhiando, salendo e scendendo vorticosamente di tono o cambiando proprio timbro (Hobo Chang Ba, Pena, Sugar’n’Spikes, Ant Man Bee ad esempio).

La batteria ha bisogno di una nota di merito per l’istrionismo e l’abilità che riesce a creare. Dopo la voce risulta di essere lo strumento più importante per la risoluzione dell’album. Drumbo è come un bambino che vuol colpire tutti i pezzi del kit nel minor tempo possibile, ma con l’abilità di un jazzista di razza. Il sound è sostanzialmente tribaleggiante (tant’è che i piatti erano bloccati da pezzi di cartone per far sì che la scia non ci fosse), mescolato all’uso jazz del charleston. Viene fuori un suono folle, pazzo furioso, che scatta e si ferma, poi torna e picchia duro.

Per quanto sembri fatto a caso nulla è casuale, infatti Trout Mask Replica è la crasi pervertita di due menti (Beefheart e Drumbo) che decisero di fare qualcosa di “diverso” pur restando nella realtà musicale. Il primo compose a pianoforte e voce tutti i pezzi, l’altro trascrisse per chitarre, basso e batteria il tutto.

Il risultato è questo: l’unico album che è stato capace di piegare la musica a seconda del proprio volere senza snaturarla del tutto.

Ed ora ecco la recensione romantica di Trout Mask Replica:

Trout Mask Replica è il più grande album rock perché fa quello che tutti gli altri non sono – ancora – riusciti a fare: creare qualcosa di talmente enorme che gli sta stretto anche l’appellativo rock. Non è una falsa rivoluzione come può esser stato il post-rock, la sua, è invece vera e propria dissociazione dal normale. Beefheart non amava misurarsi con altri musicisti e (vuoi per superbia o per vera “rivoluzionalità”) conosceva ben poco di musica. Tant’è che in un’intervista con Bangs dichiarava che la sua musica preferita è il canto dell’oca, per la sua assoluta libertà di espressione.

Ed è la Libertà, qui, che impermea tutto l’album. La Libertà che non è anarchia (ovvero inascoltabilità inutile), ma restare dentro le regole pre-esistenti e dilatarle, sporcarle e personificarle a sé stesso.

Beefheart decanta le sue cazzate senza senso compiuto (talvolta inventa anche parole) sopra ad una musica che sembra inascoltabile. Dov’è la cosa interessante? Nella credibilità e nel credere in quello che faceva. E’ così credibile che non è comico, non è improbabile, non è una cazzata, ma è qualcosa di Nuovo.

Non c’è alcuna dichiarazione di commerciabilità lì dentro perché il vecchio cuordimanzo e la sua banda si ritirarono in un casone nel deserto del Mojave, sostenuto dai soldini della mamma del Don, facendo un lavoro ancora incerto sulla possibile pubblicazione, in quanto ai tempi era stato licenziato dalla Buddha.

Beefheart crede in quello che fa e lo pubblica in 28 tracce. Non esita ad estremizzare il suo lavoro perché è proprio l’estremizzazione che può far capire il suo messaggio. Più è inascoltabile più si riesce ad intravedere quelle due parole che saranno una manna dal cielo per tutti quanti l’hanno inteso: “Siate Liberi”.

Tutto qua. Il suo non è un album oggettivamente bello, è decontestualizzato, maltrattato e crudo. Non ha grandi effetti, né ritornelli piacevoli o melodie sognanti. E’ la più nuda verità musicale-artistica che un Genio può fare. Infatti è tutto libero: dalle chitarre che non si dividono più il triste compito di ritmica o solista, dalla batteria che non tiene il tempo, dalla voce che sovrasta tutto, dai fiati che maltrattano la melodia con acuto cinismo, dagli spunti vocali ricercati fino allo spasmo (per finire nella voce telefonica di Jimmy Semens in The Blimp: rap ante-litteram), dalle soluzioni strutturali… da tutto!

Trout Mask Replica non è altro che un messaggio, non è altro che la primordiale fonte di rinnovamento da tutte queste immondizie musicali, è la vittoria dell’uomo sulle regole della musica.

Trout Mask Replica è l’input a fare qualcosa di diverso. E chi l’ha capito è ben evidente: tutti coloro che hanno imparato la lezione hanno fatto qualcosa di unico. Pensate ai Pere Ubu, ai Television, ai P.I.L., ai Talking Heads, ai Sonic Youth, P.J. Harvey

La cosa divertente del disco è l’ironia dei figuranti: l’album sembra quasi una prova di un album, infatti alcuni brani sono intervallati o da discorsi sulla riuscita della canzone (Hair Pie: Bake 1), da prove vocali che andranno su un altro pezzo (Pena), su loro che mangiano (Fallin’ Ditch) o su take alternativi (“She’s too much for my or everybody’s mirror number two”). Un album assolutamente completo mascherato da raccolta di pezze.

Non è filosofia hippie la sua, non intellettualismo patetico, è la semplice intuizione che si spinge oltre alle solite regole imposte, è il cavillo legale che riesce a ribaltare la causa senza uscire dai parametri legislativi. Non è roba tecnica, non è roba per intenditori, è musica tale e quale a tutto il resto. Sarebbe ingiusto e stupido scinderla dagli altri.

Podcast – Puntata commemorativa per Francesco Mealli

Questo podcast è stata una delle cose più difficili che io abbia mai fatto, ma non è né un piagnisteo né una cazzata, è una cosa che io e Lorenzo sentivamo di fare e che avrà un seguito molto particolare Martedì 4 alle 21:30 su RadioValdarno. Non voglio aggiungere altro. Buon ascolto.

Captain Beefheart & The Magic Band – Lick My Decals Off, Baby

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«Madò, anche oggi non c’ho voglia di scrivere…»
«Ma che cazzo l’hai aperto a fare il blog, scusa?»
«Io volevo solo scrivere di quanto fosse figo Metal Machine Music e di quanto facesse cagare Bananas, però la cosa m’è sfuggita di mano.»
«Ma non ce l’hai una nuova band garage fresca fresca? Non hai ascoltato un tubo ultimamente?»
«Eh no, ho ascoltato parecchio, ma il 99% della roba è puro revival del cazzo, col riffino surf rock, la melodia canticchiabile sotto l’ombrellone, la chitarra distorta…»
«Allora fai un album non contemporaneo, che ne so, tipo Blanck Generation (che avevi promesso a gennaio 2013!), il primo dei Dead Boys, o qualcosa di più astruso, tipo i Cromagnon o i Godz! Quanto so fighi i Godz?»
«Potrei fare Lick My Decals Off, Baby
«E che cazzo è?»
«Hai le traveggole? Il quarto di Beefheart.»
«Aaaaah.»
«”Aaaaah” che?»
«No, dico, bello eh, quello dopo Trout Mask Replica, giusto? Molto simile, una specie di continuazione.»
«Ma l’hai mai ascoltato?»
«E che, no? Un capolavoro.»
«Qual’è il primo pezzo?»
«Come scusa? Vuoi andare a Cortina d’Ampezzo?»
«Il primo pezzo dell’album, qual’è?»
«Eeeeh, boh, l’ho ascoltato UN SACCO DI TEMPO FA, credo fosse… eh, insomma, The Host, The Ghost, The…»
«Se vabbè, ma quello è il secondo di Ice Cream for Crow!»
«Ah, unnè di Safe As Milk?»

Sì, perché “Lick My Decals Off, Baby” soffre di questa sindrome del “Trout Mask Replica 2 – la Vendetta” senza alcun motivo, ma che ne determina spesso la superficialità d’ascolto.

Perché fa tanto figo raccontare a giro che Captain Beefheart te lo rizza fino in cielo, ma poi c’hai a casa la discografia dei Nazareth quasi consumata dall’ascolto, e un “Safe As Milk” intatto in mezzo ai 33 dei Matia Bazar di tua madre.

Non è che sia un male se non ti piace Captain Beefheart, non hai peccato né verrai giustiziato, né tantomeno giudicato (se non dagli stronzi), però è cento volte peggio fare il fanboy del Capitano e poi conoscere a mala pena TMR e piuttosto bene l’esordio blues.

“Lick My Decals Off, Baby”, che d’ora in poi chiameremo LMDOB, è uno degli album rock più devastanti che avrete mai il piacere di ascoltare, un album che, occorre sfatare il mito, non è un proseguo di TMR, se non nella sconsiderata distruzione di ritmo, melodia, tonalità e qualsivoglia regola nel blues rock. LMDOB è molto più maturo, più compatto se vogliamo.

TMR è follia dadaista, una sorta di devastazione che poi ha generato le esperienze più travolgenti del rock (molta new wave deve tutto a quest’album, e non solo), uno sconvolgimento del blues, al quale si toglie la struttura ossea ma si mantengono intatte le budella.

In LMDOB Beefheart si fa più “serio” se vogliamo. Con l’uscita dalla Magic Band di Mascara Snake (clarinettista) e Doug Moon (chitarrista) si serrano le fila, e il sound è meno apocalittico e più uniforme, come un flusso di coscienza. Basta ascoltare il caos controllato di Bellerin’ Plain per rendersi conto di quanto rigido fosse Beefheart, e di quanto controllo ci fosse dietro la maschera dell’improvvisazione, un concetto lontanissimo dall’estetica beefheartiana.

Se in TMR era John French (detto Drumbo, il leggendario batterista) a mantenere stabile il castello di carte compositivo del Capitano, qua non c’è più bisogno di espedienti, libero dalla presenza di Zappa Beefheart doma la sua Magic Band come un vero direttore d’orchestra, e il sogno di un album senza strumenti protagonisti si realizza nei primi mesi del 1970.

Scompaiono i dialoghi tra chitarre da una cassa all’altra, scompaiono gli intermezzi parlati, e nemmeno Beefheart è protagonista, è forse l’album rock più musicale che ci sia, dove per musica s’intende una serie di musicisti del tutto asserviti a costruire qualcosa che non abbia NIENTE di loro.

Forse è difficile da afferrare per un neofita del Capitano, ma lo scopo di Beefheart era di estraniare il musicista dalla musica che stava suonando, per avere lui e lui soltanto il controllo totale di ogni nota. E difatti in quest’ottica vanno viste tutte quelle puttanate sulla telepatia che Beefheart rifilava ad ogni intervista dell’epoca, questa forma di comunicazione tra lui e i musicisti che non avesse bisogno della parola, un vero e proprio flusso di coscienza musicale.

Ogni pezzo di LMDOB si può virtualmente scomporre, ed ogni suo aspetto risulterà inevitabilmente affascinante e innovativo. Il ritmo, l’armonia, la sua evoluzione, la voce. Ci sono solo due pezzi totalmente rilegati alla chitarra acustica, Peon e One Red Rose That I Mean, i quali riportano coi piedi per terra l’ascoltatore, gli unici intermezzi concessi nel fluire incessante delle idee più strampalate.

In compenso a quanto può sembrare leggendo questa recensione, quello che colpisce maggiormente di questo quarto album del Capitano è la disciplina, come detto prima questa “compattezza” che in TMR era solo un’ideale qui diventa pratica. Ed è forse in questo che è minore, ma non di tanto, all’album precedente.

Per quanto il blues distorto di The Smithsonian Institute Blues (Or the Big Dig) sia alla pari con quello di Moonlight On Vermont dal punto di vista compositivo, cioè nella devastazione delle regole di base, manca l’energia prorompente e volutamente provocatoria di TMR. Ciò non toglie, sia ben chiaro, che sia un pezzo della Madonna.

Infatti in confronto all’epocale album che lo precede, LMDOB guadagna parecchio in termini di piacere all’ascolto, perché la Magic Band è in forma smagliante, e i pezzi sono TUTTI dei capolavori. Frenetica, assurda e delirante Lick My Decals Off, Baby, il pezzo che dà il nome all’album e che apre le danze come un’esplosione caleidoscopica, dando la sensazione che l’album non avrà un secondo di pausa.

Lo conferma il piglio storto di Doctor Dark, i testi di Beefheart dadaisti come al solito non vogliono evocare (come farà poche volte in carriera effettivamente, forse in Neon Meate Dream of a Octafish, sicuramente con Zappa nel testo di The Torture Never Stops) ma solo calpestare ogni barlume di buon senso, di melodia e di piacevolezza. Col cazzo che lo fischietti sotto la doccia il “motivetto” di Doctor Dark.

Già di tutto un altro pianeta è I Love You, You Big Dummy, col sassofono acido del Capitano che anticipa un dialogo classico negli album successivi (quello chitarra-sassofono che manterrà nel proseguo più commerciale degli album che seguirono LMDOB), una versione più coraggiosa di Frank Zappa, che due mesi prima aveva pubblicato “Hot Rats”, grande album, reso tale anche dalla voce del solito Capitano in Willie The Pimp, e che comunque non vale il Lato A di LMDOB.

Tra i pezzi che mi piacciono di più c’è sicuramente Woe-Is-Uh-Me-Bop, la perfetta presa in giro del rock soul da radio, del tutto destrutturato se non per il ritornello alla Sam & Dave gracchiato da Howlin’ Beefheart Wolf. Comunque si fa fatica ad non amarlo questo album, persino l’ormai odiato Zappa viene decostruito in I Wanna Find A Woman That’ll Hold My Big Till I Have to Go, a questo punto Beefheart non ha più punti di riferimento se non se stesso (c’è più Albert Ayler e Eric Dolphy che Delta Blues in questo album!).

Mi viene in mente adesso (cristo, che recensore professionista che sono!) l’attacco di The Buggy Boogie Woogie, perfetto, senza stranezze, e poi la voce del Capitano che distrugge la fragile melodia faticosamente conquistata a metà del Lato B. Il contrario di quanto fatto per esempio in Woe-Is-Uh-Me-Bop.

Insomma,  “Lick My Decals Off, Baby” non è “Trout Mask Replica”, forse non è bello altrettanto, ma è comunque un album nel quale l’unico difetto evidente è che, ineluttabilmente, finisce.

Jack White – la discografia (parte prima)

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Tra i musicisti più conosciuti e apprezzati al mondo, John Anthony Gillis (aka Jack White III) ci piace perché oltre tutte quelle puttanate da marketing spicciolo (vestirsi di bianco rosso e nero indossando una chitarra bianca rossa e nera su un palco bianco rosso e nero e ora vomito) è un tipo vero, autentico, che aveva qualcosa da dire.

Sia chiaro fin da subito che se volete sapere vita, morte e resurrezioni varie di questo chitarrista di Detroit vi comprate una biografia o vi spulciate Wikipedia. Delle note biografiche a me frega un cazzo. Bene.

1990-1999: I PRIMI RUMORI

Tra il 1990 e il 2000 Jack White comincia a dimenarsi tra diverse band tutte inerenti il suo principale interesse: il garage rock. Sebbene le note e più volte ribadite dallo stesso origini da puro bluesman, non c’è mai stata una band in cui White non producesse del dannato rumore con chitarre di seconda mano e registrazioni malandate, puro garage rock d’antan. Mischiando quel buon vecchio blues allo scalmanato garage delle giovani band di Detroit in cui suonava, comincia a sviluppare le sue caratteristiche come chitarrista, riff semplici ma efficaci, strutture basilari quando non banali, volume altissimo e un’energia da paura.

Tra Goober & the Peas, The Go, Two-Star Tabernacle e The Upholsterers Jack White comincia a farsi le ossa, intanto tutti gli input che band come The Dirtbombs stavano distribuendo a giro con i loro graffianti album vengono ben accolti nella città degli MC5 e degli Stooges

Tra tutte queste esperienze nel 1997 comincia anche quella dei The White Stripes. Come tutte le cose notevoli nel rock si comincia per gioco, Meg alla batteria si limita a tenere un ritmo mentre Jack può ricamarci sù con tutta la sua creatività. Non c’è alcun dubbio su chi sia la mente della band, ma sopratutto non c’è dubbio su quali siano i meriti di Jack White e cosa abbia portato al rock. Tecnicamente niente, ma la sua mente ha creato alcuni dei riff più potenti e sorprendenti degli anni ’10 del 2000. 

Sebbene il progetto in duo The Upholsterers (unico album pubblicato: “Makers Of High Grade Suites”, 2000)  sia la più famosa delle collaborazioni di White prima dei White Stripes, anche grazie alla citazione contenuta in “It Might Get Loud” il documentario di Davis Guggenheim del 2008, con tanto di storiella sul suo lavoro di tappezziere e menate varie, certamente la band più importante per il suo sviluppo sono stati i Two-Star Tabernacle in compagnia di Dan John Miller dei Blanche (band dove al banjo militava un certo Jack Laurence). Un po’ country, un po’ blues e un po’ garage, ma soprattutto tante idee buttate qua e là dal nostro raccolti in due bootleg: “Live At Gold Dollar Set List” (1998) e “Live At Paychecks Set List” (1999).

Se nei The Upholsterers c’era molto del sound degli Stripes nei Two-Star Tabernacle ci sono le prime idee: Hotel Yorba, Now Mary e Who’s To Say (scritta in collaborazione con Dan John Miller) sono tre indistinte perle che prospettano solo in parte l’esplosione del genio creativo. C’è già il rumore, la distorsione, l’unica è la batteria non ancora minimale anche se il twist di Damian Lang che di solito si scatena nei suoi Detroit Cobra è qui del tutto asservito alle grette ritmiche garage.

Un po’ di Son House, un po’ di Oblivians e un pizzico di Captain Beefheart, dopo una serie di b-sides che verrano ripescati solamente nel 2004 in “The Legendary Lost Tapes”, arriva nel 1999The White Stripes”, un debutto col botto.

1999-2000: DA CAPTAIN BEEFHEART A MTV C’È UN PASSO

Avevo già parlato di questo album in una recensione, le cose da dire sono poche ma essenziali per capire non solo il perché questo sia il miglior album di Jack White in assoluto, ma anche come questo sia uno degli album “più rock” degli ultimi 20 anni. 

Le idee sono poche e riciclate, i riff minimali e l’uso della batteria al limite del ridicolo, ma l’energia e la facilità con cui White inventa o reinventa riff della Madonna ha dell’incredibile. Dall’esplosività (manco a dirlo) di Jimmy The Exploder al blues distorto e mefistofelico di Suzy Lee a delle cover pazzesche. La versione di White di Stop Breaking Down di Robert Johnson rende quella dei Rolling Stones quanto meno inadeguata, One More Cup Of Coffee di Bob Dylan è l’unica cover di Dylan che non soffre di sudditanza verso il Maestro, lo standard blues St. James Infirmary trova in questo album la sua più alta interpretazione. Già questo basterebbe a renderlo un album notevole.

C’è il garage ignorante e cattivo di Cannon, Astro, When I Hear My Name, Broken Bricks e Little People, i riff devastanti di The Big Three Killed My Baby e Slicker Drips, e infine il solito blues (I Fought Piranhas) che grazie a Jack White torna a quel sound infernale delle origini. 

L’album non conosce ancora il successo mondiale, ma già col secondo aggiusteranno il tiro.

Nel 2000 esce “De Stijl”, omaggio sia nel nome che nella copertina al grande e breve movimento artistico olandese, omaggio che forse poteva anche risparmiarsi il buon White, dato che a parte gli orpelli e l’evidente fascinazione per il design minimale di Piet Mondrian, Gerrit Rietveld, Van Doesburg non si va di certo in alcun modo verso il senso di questo movimento. Ma fa figo, e quindi…

Acidità a parte il secondo album dei White Stripes è una bomba, anche se meno esplosiva della precedente. Il primo lavoro era stato dedicato al leggendario Son House, questo invece ad altri due grandissimi: Blind Willie McTell e Gerrit Rietveld, il primo ovviamente uno dei massimi esponenti del Delta Blues, il secondo un designer ante-litteram del neoplasticismo (detto anche De Stijl) autore della famosissima sedia rossa e blu, oltre che architetto di importanza non indifferente.

Non mancano gemme in questo album, minore al primo solo perché non può più sfruttare quell’elemento di novità che è il carisma e il rumore di Jack White. La triade iniziale è da lasciare senza fiato, il garage rock puro e semplice di You’re Pretty Good Looking (For a Girl), la sua versione minimale (quasi a voler mimare lo stile olandese neoplastico, peccato che concettualmente ci sarebbe qualche problemino, ma lasciamo stare) nella spettacolare Hello Operator e infine il solito blues strascicato e diabolico di Little Bird

La prima cover è di Son House, Death Letter, ed è di nuovo una cover definitiva, che porta il blues di Son House a vette fino a quel momento inesplorate. 

Lo slide sporco di Sister, Do You Know My Name? e di A Boy’s Best Friend lascia il posto alla chitarra acustica di Truth Doesn’t Make A Noise, il primo vero esempio del Jack White maturo che si esprimerà al meglio con i The Raconteurs

Si torna al garage incazzato con Let’s Build A Home, Jumble Jumble e con lo splendido riff di Why Can’t You Be Nicer to Me?. Conclude l’album una divertente cover di Blind Willie McTell, Your Southern Can Is Mine, cantata da i due membri della band. 

È sempre del 2000 il 7” pubblicato dalla Sub Pop “Party of Special Things to Do” con tre ottime cover di Captain Beefheart dei nostri, tra cui China Pig tratta da “Trout Mask Replica”.

Ma è nel 2001 che i The White Stripes diventano un fenomeno mondiale, grazie alla solita MTV. La cosa interessante è che al contrario di QUALUNQUE band nella storia dell’universo ad aver sbancato con MTV gli Stripes saranno gli unici a mantenere sia la fama che la buona musica. 

Sempre per la Sympathy for the Records, ma stavolta col supporto di V2, XL e sopratutto dell’etichetta di Jack White stesso, la Third Man Records, esce “White Blood Cells”. Ormai la vena garage esplode in tutto il paese, l’importanza di band come i Von Bondies e di altre ora supportate dall’etichetta di White comincia a seminare qualcosa che oggi ragazzi come Ty Segall invece non raccoglieranno come potrebbe sembrare in un primo momento. Ma del lascito di questi White Stripes parleremo più avanti.

Si ripescano Hotel Yorba e Now Mary dai Two-Star Tabernacle, si continuano a fare passi avanti verso una maturazione del sound, ma con poca creatività. Jack White comincia chiaramente a ripetersi, sebbene abbondino i riff nuovi e indimenticabili (Dead Leaves And The Dirty Ground, I’m Finding It Harder To Be A Gentleman, Aluminum, la garage-punk Fell In Love With A Girl, il rock minimale di Expecting) si aggiunge poco a quanto già detto negli album precedenti, e se adesso si comincia a scrivere canzoni più “complesse” si perde l’immediatezza di una Astro, o la potenza di The Big Three Killed My Baby. Si intuisce già questo comunque ottimo album che la propensione di White verso il pop e una canzone più appetibile alla MTV potrebbe prendere il sopravvento sul garage scomposto e minimale di questi anni.

Divertente la parentesi sessuale-minimale di Little Room, dolcissime le note di We’re Going To Be Friends, ma la perla è This Protector, Jack al piano che duetta con Meg praticamente in presa diretta su quell’otto piste che finora ha accompagnato il duo di Detroit, con errori e voci del tutto lontane dallo standard “di plastica” alla MTV.

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Captain Beefheart & His Magic Band – Trout Mask Replica

Captain+Beefheart++His+Magic+Band

Se avete quest’album e avete già letto un paio di tonnellate di recensioni e volete leggervi pure questa allora sappiate che siete messi maluccio.

Se non sapete cosa sia questo album proseguite nella recensione come se niente fosse.

Di “Trout Mask Replica” ne sentirete parlare come “il più grande album di tutti i tempi” o come “le mie scoregge suonano meglio e puzzano meno”. Quando ci si trova di fronte ad un opera che divide e polarizza la discussione in modo così deciso bisogna innanzi tutto fare ordine.

La cosa migliore sarebbe questa: fregatevene di cosa ne dice la g-gente, compratevi ‘sto dannato disco e mettetelo sul piatto, fatelo girare ben ben e accostate la puntina con estrema lentezza per gustarvelo in santa pace. Oppure scaricatelo da iTunes e fatelo partire sul vostro asettico iPod. Ecco, ascoltatelo con leggerezza, con divertimento e senza troppe seghe mentali. Se vi piacerà, bene, se non vi piacerà, chissene, avanti il prossimo!

Ma, ehi, quando devi tirarci sù una critica costruttiva allora non puoi mica svignartela così bello mio.

È facile dire: l’ho letto su Wire, è un fottuto capolavoro, quindi zitto e muto!
Come è altrettanto facile affermare: non sa di un cazzo, è fatto per ridere, perché dovrebbe essere il disco più figo del rock se non suona nemmeno rock???

Però queste non sono discussioni in merito ad un album, ma bisticci idioti senza direzione.

La critica musicale non ha apprezzato all’unanimità TMR alla sua uscita. Gran parte degli elogi venivano dalla critica rock più “estrema” e riluttante ai soliti nomi che vivacchiavano in alto alle classifiche, e anche da una parte della critica jazz con forti accezioni fortemente sperimentali.

Nel corso della storia l’album in questione è stato pian piano riconosciuto universalmente come un capolavoro unico e irripetibile, e sono pochissimi (sempre che esistano) i critici musicali che mettono in dubbio la caratura di questo disco.

Ma ovviamente la critica musicale non è tutto, anche se in questo campo è la voce più autorevole (sopratutto quando un album è ormai storicizzato e può essere valutato in modo più oggettivo).

Probabilmente la parte più complessa nel valutare oggettivamente un album risiede nel momento in cui ti rendi conto che quell’album ti fa cagare.

La prima volta che ascoltai TMR mi piacque, quindi non faccio testo, ma è più comune che avvenga il contrario data l’unicità compositiva che lo diversifica in modo  così violento da tutta la produzione rock fino al 1969, e che ancora oggi trova pochi esempi egualmente al limite.

Detto ciò io ho mal digerito al primo ascolto i Little Feat, i Creedence Clearwater Revival e addirittura (e non mi vergogno ad ammetterlo) i Gun Club. Sono tre esempi di fruibilità completamente diversi e certamente più accessibili di TMR come anche di approccio al rock, e sebbene all’inizio li trovai non adatti a me (per non dire insopportabili) ne riconobbi subito il valore storico. Ho voluto fare questo esempio perché in questi mesi sto riascoltando ed rivalutando proprio queste tre band (dei Gun Club ho acquistato tutta la discografia nell’arco di un mese!), ma per alcune non ci sono stati cazzi, mi annoiano a morte a prescindere dal loro valore storico.

Il nocciolo della questione è: ma che valore storico ha TMR?

Beh, sarebbe lunga, ma mi limiterò alle mie impressioni da totale imbecille sul web col suo bel blogghino da sfigatello.

Se escludiamo Ella Guru, Moonlight On Vermont e Sugar ‘n Spikes, le uniche tre tracce a presentare una forma quasi melodica o tradizionale a tratti, il resto dell’album è un volo che viene delle volte erroneamente definito psichedelico (oppure di matrice blues) quando invece è solo free-form e anarchia jazz-rock totale.

Tutto parte dalla seminale mente di Beefheart, che sperimenta su un pianoforte che non sa suonare idee, concetti e impressioni del tutto fuori da ogni schema compositivo, lasciando che Drumbo (all’anagrafe John French, il batterista della Magic Band) cercasse di dare un vago senso compiuto a quegli schizzi anarchici.

Oltre le leggende, che potete leggere più o meno ovunque, la cosa che deve saltare all’orecchio è come Beefheart in modo del tutto tirannico (come ogni regista che si rispetti e non ho usato la parola regista a caso) costringe la sua band a delle sessioni di lavoro da gulag russo, lasciando che la sua creatura prendesse il sopravvento sulla razionalità e sul controllo che normalmente hanno i musicisti sulle loro composizioni.

Le poche interviste di Beefheart rilevano come il concetto alla base del Capitano fosse quello di eliminare le singole personalità, proponendo un lavoro stanislavskiano di musicista fuori dalla musica che sta suonando, diventandone parte concreta.

In fondo il concetto non è così complesso come può sembrare, la situazione in cui versano i musicisti violentati da Beefheart è quella di un drogato che prova un senso di totale unità con l’universo che lo circonda pur essendo al di fuori di sé.

Questa operazione, sebbene anarchica, è sostenuta da una tecnica e da un controllo eccellente, spesso ai limiti possibili. Nessuno la fa fuori dal vaso, le due chitarre poste una destra e l’altra a sinistra provocano l’ascoltatore (sono le impressioni di Beefheart, le idee anarchiche fuori da ogni concetto prima ideato) mentre la batteria di Drumbo, posta sempre al centro (a parte in piccole idee particolari come in The Blimp (Mousetrapreplica)), è  il collante necessario (e aggiungo: la parte razionale) per mantenere stabile questo monumentale e azzardato progetto.

Ci sono anche tantissimi momenti morti (il primo che mi viene in mente è la pausa tra Hair Pie: Bake 1 e il bellissimo attacco di batteria di Moonlight On Vermont) ci sono anche momenti in cui Beefheart canta senza accompagnamento (tramite il collage di strofe cantate singolarmente, come in Orange Claw Hammer) e addirittura c’è una registrazione della band mentre mangia (nei primi istanti di Fallin’ Ditch).

Difficile definire tutto questo come un album prettamente rock, o addirittura un album di musica in generale. L’esperimento di Beefheart è una doppia provocazione, sia al musicista esperto che al fruitore occasionale. Al primo mostra i muscoli (Sugar ‘n Spikes) e anche la possibilità di andare oltre la tonalità e alle leggi che regolano il limitatissimo mondo del rock (che poi è il principale motivo per cui questo album è considerato così fondamentale), al secondo propone un ascolto più partecipato, più sensibile, perché TMR non è affatto un album costruito per emozionare o cose così, la sua sensibilità non sta nel farti fare due lacrimuccie o a farti incazzare contro il Reagan di turno, ma cerca piuttosto di estraniarti da te stesso per raggiungere il Capitano nella sua jam infernale.

Anche nei testi risulta difficile trovare un senso comune, si va dalla rievocazione dell’olocausto di Dachau Blues alle immagine sessualmente contorte di  Neon Meate Dream of a Octafish, il tutto ispirato da una ricerca squisitamente dadaista (forse delle volte anche tramite la tecnica del cadavere squisito).

Il metodo di Beefheart si allontana decisamente dalla serietà degli esperimenti free-jazz o del rock definito underground, perché se da una parte il controllo tecnico e concettuale sull’opera è totale, dall’altro il Capitano sta sbeffeggiando goliardicamente i limiti auto-imposti del rock.

L’infinito accostamento di idee, suoni, raccordi e distorsioni fa di TMR una raccolta geniale che, per forza di cose, è anche all’avanguardia di tutti i generi che il rock toccherà negli anni successivi.

Credo sia difficile fruirlo come un album dei Pink Floyd, ma immagino che questo dipenda anche dalle personalità (a me, per esempio, mi piace molto ascoltarlo  mentre studio o scrivo), ma penso non ci possano e non ci debbano essere dubbi sul valore di questo capolavoro del Capitano, ben oltre il precedente e eccellente “Safe As Milk” (1967) e certamente mai più ripetutosi a questi livelli.

[Deh, forse per qualcuno questa recensione potrebbe anche apparire breve e incompleta, ma essendo il web assediato da ottomila recensioni (soltanto in italiano) di questo album credo di aver effettuato una sintesi dei motivi per cui TMR è un fottuto capolavoro abbastanza precisa e leggera, senza tirare il ballo il Dasein di Heidegger, senza masturbarmi sulle componenti tecniche e senza insultare nessun critico di Blow Up, Mucchio, Buscadero, Rumore o-che-so-io. Quindi: ‘fanculo, comprate questo album, e se non vi piace peace & love.]

…se volete leggere quella che ritengo sia la migliore recensione in assoluto cliccate qui. È stata scritta nel 2008 dal miglior blogger mai esistito, anche se da tempo disperso (si dice rapito da degli alieni).

E infine…

ma che cazz???