Archivi tag: Ty Segall

GEZAN with Million Wish Collective – 「​あ​の​ち​」Anochi

Etichetta: 13th
Paese: Giappone
Anno: 2023

Per questa recensione mi sembrava doveroso far emergere un giudizio che fosse il più possibile comprensivo di un percorso, quello discografico che i Gezan hanno saputo sempre interpretare polarizzando pubblico e critica. Per cui prendete questo video come un sommario, una breve introduzione critica alla musica dei Gezan con in coda la recensione del loro ultimo discusso album: “Anochi”.

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Podcast – Quella cosa chiamata new garage

In questo delirante blog tenuto dal blogger meno costante della storia di questa piattaforma abbiamo spesso parlato di new garage, ci siamo confrontati, insultati, scambiati opinioni, insultati, proposto ascolti e delle birre talvolta, insultati. Ecco, diciamo che in questo podcast e quello che seguirà ho voluto tirare le fila del discorso cominciato ormai 5 anni fa su queste pagine virtuali, proponendovi una visione di questo nuovo garage inedita, piena zeppa delle contaminazioni che secondo me ha, quasi snaturandolo se volete, ma mostrandovi le sue viscere per quello che sono, senza troppa poesia.

Cliccate su play, non ve ne pentirete.

«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»

Podcast – Dots, Rawwar, Centauri, Ty Segall

E allora sì cazzo. Puntatona di Ubu Dance Party, l’unico podcast di rock underground che non le manda a dire. A meno che non mi ritrovi a letto con l’influenza (odio l’influenza). 3 album italiani uno meglio dell’altro e una feroce stroncatura al Biondo che fa impazzire il mondo.

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«Che cazzo dici, hanno pure una pagina Facebook
«Ti dico che ci sta pure una lista sempre aggiornata degli episodi sul blog, roba da non credere!»
«Fottuti hipster!»

Personal and the Pizzas, Gloria, Brace! Brace!, Beware The Dangers Of A Ghost Scorpion!, Ty Segall

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Nessuna introduzione perché non ho tempo, sappiate però che dalla prossima settimana assieme ad un mio caro amico condurrò un programma radio (liberamente scaricabile su Mixcloud) e vi spareremo un sacco di musica bella. Ogni puntata sarà tematica, approfondiremo questioni e generi troppo spesso trattati con superficialità dalla critica rock, e vi proporremo sempre degli spunti nuovi e diversi dalla solita melma. Ovviamente linkerò ogni puntata qui sul blog, sennò tutta ‘sta marchetta va a farsi friggere.

E ora beccatevi ‘ste recensioni:

Personal and the Pizzas –       Raw Pie

Probabilmente avrete sentito parlare dell’ultimo album dei Personal and the Pizzas, considerato un gioiello da tutta la critica garagista e non solo. Ecco, io lo vorrei tanto quell’album, ma siccome al solito mi manca il dindirindero vi recensirò il loro esordio: “Raw Pie”, pubblicato dalla californiana 1-2-3-4 Go! Records nel 2010 dopo una buona sequenza di EP cominciata nel lontano 2008. Credetemi se vi dico che “Raw Pie” è uno dei migliori album di puro rock and roll usciti negli ultimi vent’anni.

Più sconclusionati e demenziali dei Memories ma cattivi e punk nell’anima, praticamente il sogno proibito di ogni garagista integralista. Appena lasciate la puntina posarsi delicatamente sul pezzo di plastica rotante parte a fuoco un anthem sulla pizza gusto Ramones (I Don’t Wanna Be No Personal Pizza) seguita da una Pepperoni Eyes che ricicla gli Stooges senza pietà, e a meno che non siate dei fan dei Rush in incognito il vostro sarà un amore a prima vista in piena regola. Pezzi come Brass Knuckles, Never Find Me, Pizza Army e la esilarante Nobody Makes My Girl Cry But Me sono compendi della miglior tradizione sporca, grezza e autentica rock.

E infatti le uniche dolenti sono quella prevedibilità che il genere propone nelle sue forme più puriste. Sebbene i Personal and the Pizzas spacchino come pochissime band al mondo nel garage caciarone (al loro livello penso a Andy Macbain in quando aggressività e attitude) il loro grande merito è solamente quello di fare un casino davvero godurioso, ma senza riuscire a costruire un discorso musicale alternativo o quantomeno con qualcosa di nuovo da dire, il che sicuramente è voluto al 100% ma ciò non toglie che con tutta questa focosa materia prima… beh, si poteva anche provare qualcosina di più. Non fraintendetemi, tutto quello che manca in quanto originalità compositiva i PATP ce lo mettono in personalità, caratterizzando ogni pezzo come solo loro riescono a fare.

Poi boh, parte I Can Read e cominci a spaccare tutto senza ragionare, lasciandoti trasportare dal rock and roll più spietato e godurioso da molti anni a questa parte, furia micidiale mescolata a melodie rockabilly. A volte effettivamente non serve altro, Compulvise Gamblers, Oblivians e Deadly Snakes ce lo ricordano bene.

Gloria – Gloria In Excelsis Stereo

Di “Gloria In Excelsis Stereo” ne hanno parlato persino in Italia, ovviamente bene. Io ho solo poche cosa da dire: ma in tutto il catalogo della Howlin Banana Records proprio ‘sta roba doveva sbancare il lunario?

Io non ho niente contro i Gloria, che seguivo da tempo, e credo che Beam Me Up sia un gran pezzo e un capolavoro di nostalgia, ma porca puttana è proprio pura nostalgia anni ’70 pressata e confezionata senza alcun ritegno, senti l’odore di canapa e le solite tre citazioni dall’Urlo di Ginsburg fuoriuscire dalle casse! Saranno anche groovy e tutto il resto, ma è tutta roba già ascoltata e riascoltata MILIARDI di volte, ma che cazzo aggiunge questo album a quelli dei Jefferson Airplane o similia proprio non si capisce.

Inoltre a parte Beam Me Up tutte le altre canzoni si svolgono senza alcuna personalità, un sistema di riciclo così perfezionato salverebbe il comune di Roma in poco più di 33 giri.

Piuttosto parliamo di…

Brace! Brace! – Controlled Weirdness

Sempre dalla parigina Howlin Banana Records eccovi i Brace! Brace! la creatura psych-pop di Thibault Picot, voce e chitarra di questa frizzante band francese. Nel 2014 avevano esordito prodotti dalla piccola e giovane Freemount Records di Clermont-Ferrand con un EP che tra i blog più sconosciuti aveva riscontrato un generale apprezzamento, e con questo “Controlled Weirdness” uscito qualche giorno fa alzano decisamente il tiro.

La band nasceva come una sorta di Sonic Youth weirdpop, costruendo melodie che esplodono in fuzz lisergici, sottolineate anche da una sezione ritmica piuttosto dinamica. Nel nuovo EP il bravo Picot questa volta lascia respirare i pezzi tra un rumore e l’altro, crea ambienti sonori che non sono messi lì per dire «senti là che suono figo eh», come buona parte delle band garage che si mettono a smanettare in stile Thurston Moore e Kim Gordon, infatti ogni suono vuole essere vettore espressivo ed è necessario alla canzone la quale non si sorreggerebbe solo con la melodia, tutto ciò in una maniera più raffinata e complessa che nei più “blasonati” White Fence e Jacco Gardner.

Molto convincente Slow la quale a tratti ricorda il primissimo Ty Segall quando ancora faceva divertire, contornata da una struttura solida e per nulla banale, tosta anche Underground che fin dall’inizio colpisce di fuzz senza però scadere nella solita macchietta seventies, tirando fuori qualche suono dalle console eighties, ritornelli beatlesiani che Jeffrey Novak si sogna, sempre con quella sensazione onirica del weirdpop americano.

Un EP efficace e con qualcosa dire, senza necessariamente giocare sulla leva del revival a tutti i costi.

Beware The Dangers Of A Ghost Scorpion! – Boss Metal Zone

Ve li ricordate i BTDOAGS? Surf rock da Boston? La mia disamina sulla scena bostoniana? Niente eh? Bastardi.

Comunque sia questa band non mi ha mai convinto al 100%, insomma il surf rock lo adoro e in generale il loro è piuttosto ok ma gli è sempre mancato il tiro delle vecchie glorie come Ventures, Challengers, Shadows e via discorrendo.

Per il nuovo EP la band decide di ripetere il loro canone, surf rock a tinte horror, ma stavolta centrano in pieno il bersaglio con 4 tracce assassine che colpiscono senza pietà. Sebbene soffrano, a mio modestissimo avviso, di una eccessiva pesantezza in fase di produzione (con la stessa pochezza sonora dei Guantanamo Baywatch farebbero faville in studio) questa volta riescono a colmare le loro mancanze con una certa creatività compositiva. Grandissimi assoli alla Shadows, brevi ma apprezzatissime sferzate psychobilly e finalmente anche una sezione ritmica che non lascia un secondo di respiro. Non sarà un disco che ricorderete per tutta la vita, ma quantomeno avrete quattro tracce davvero toste da spararvi qualche volta in auto o per cazzeggio.

Ty Segall – Ty Segall

Il biondo che ha conquistato il mondo ha lasciato al garage due grandissimi album: “Twins” (2012) e “Slaughterhouse” (2012), un album garage pop più che discreto come “Goodbye Bread” (2011), e due feroci digressioni con “Reverse Shark Attack” (2009) e il primo dei Fuzz. Detto questo è un paio di anni di Ty ha decisamente scassato i coglioni.

Questo nuovo album omonimo con l’apporto del leggendario Steve Albini oltre a suonare decisamente posticcio nel suo rifarsi al suono lo-fi degli inizi (che fra l’altro non coincidono per niente con i suoi lavori migliori che vi ho sopra elencato) è semplicemente noioso come una puntata di Sanremo.

Discreta Talkin’, con quella malinconia acustica alla Gold On The Shore o “Sleeper” (2013) che lo caratterizza, al contrario dei tentativi più garagisti tutti dimenticabili. Sempre nell’ambito acustico mi risultano alquanto indigesti Orange Color Queen e Papers, con quel glam che Segall non riesce a spremere in tutta la sua carica espressiva, un difetto che lo perseguita fin da “Ty-Rex” (2011) anche se molti ritengono invece che il biondo sia uno degli ultimi glam-rocker degni di questo nome. Mah.

Gli spunti melodici sono i soliti, le digressioni strumentali come in Warm Hands (Freedom Returned) non aggiungono niente se non un senso di disagio e imbarazzo. Sebbene qualche idea interessante sembra proprio che come John Dwyer il californiano abbia finito le cartucce a disposizione ma continui a sparare a salve.

Undisco Kidd – Hubble Bubble

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Etichetta: Annibale Records
Paese: Italia
Pubblicazione: 15 Giugno 2016

Più o meno un anno fa un tizio me ne parlò come “la band rivelazione nella scena italiana”, peccato che dopo pochi giorni (e sbronze) l’unica cosa che ricordassi è che avevano vagamente qualcosa a che fare con i Funkadelic. Purtroppo mi arrivano ogni giorno mail con oggetto: “La band rivelazione di ‘sto cazzo” e di solito è non è neanche merda al 100%, ma solo roba noiosa. Un mese fa mi stavo ubriacando in una bettola di Prato quando il proprietario del locale mette sù “Hubble Bubble”, rigorosamente in vinile. Ovviamente non lo ascolto con attenzione, né volevo, ero ad un cazzo di pub con Massimiliano Civica che mi stava scambiando palesemente per qualcun altro, eppure… eppure mi si inchioda qualcosa alla base della calotta cranica, un non so che di Thee Oh Sees e Reatards, quella California che ho amato e per cui ho speso fin troppe parole in questo blog, un rumore fuzzoso, una nenia psichedelica, più che di George Clinton quella musica sembrava provenire dall’ennesimo orfano di Jay Reatard.

La matassa sonora che questi quattro ragazzi sardi propongono è un’interessante deriva psichedelica, direi un 10% di psichedelica occulta e un 90% di garage psych, se raddoppiassero la batteria in certi momenti li scambieresti davvero per gli Oh Sees di Dwyer, con però un maggior gusto melodico e una sezione ritmica meno kraut.

Alla fine della giostra l’unica cosa funk che hanno questi Undisco Kidd è il tiro micidiale, che sì mantengono dalla prima all’ultima traccia, ma non sempre con la stessa efficacia.

Lady Slime è una grande, grandissima apertura, ed è anche l’unico vero acuto di tutto l’album, riuscendo a rielaborare suoni e archetipi del garage californiano con una freschezza disarmante, inserendoci pure a spregio un assolo alla Doug Tattle.

Il resto del 12” non riesce a stupire allo stesso modo, ma sia chiaro: mantenendo sempre alto l’interesse dell’ascoltatore, perché difficilmente ci si annoia. La band fa un gran casino e lo gestisce bene, senza strafare in onanismi (tipo Jefferson Nile). Every Day sembra quasi la cover di un pezzo segreto di Ty Segall, tracce come Maggie’s Closet e Wakey (ma anche Lady Slime) a mio avviso avrebbero giovato di una batteria raddoppiata, ma sono piccolezze, perché “Hubble Bubble” riesce comunque a spaccare più di qualsiasi album uscito quest’anno sotto la Burger Records.

Lo consiglio a chiunque in questi anni è andato in brodo di giuggiole per “Carrion Crawler/The Dream” dei Thee Oh Sees o “Twins” di Segall, ma anche per le melodie beatlesiane di Jeffrey Novak, questi Undisco Kidd non solo attingono a piene mani da quella scena musicale ma la sanno anche rinnovare con efficacia. Sicuramente sarò tra quelli che prenoteranno il prossimo album, perché i margini di miglioramento lasciano prevedere tante belle cose.

Ty Segall mi ha rotto il cazzo

Sinceramente Ty Segall mi ha rotto il cazzo.

E la questione non è semplicemente se “Emotional Mugger” sia o no un buon album, anche se lo è, cioè, è un album sufficiente e sicuramente più ispirato del precedente dove Il Biondo ha toccato il fondo dell’originalità. Non che da Ty Segall dovessimo aspettarci chissà quale miracolo musicale, come se il futuro del rock dipendesse da un riff in più, ma sta tutto in cosa dobbiamo oggettivamente valutare negli album di Segall e del rock californiano e derivati in generale.

Difficile per un critico (uno vero, non come me) valutare gli album dei vari Bass Drum of Death, Audacity, Monsieurs, Frowning Clouds, Blind Shake, Ausmuteants e compagnia urlante seguendo direttive strettamente musicologiche. Cazzo, è già tanto se ‘sti tipacci sanno accordarsi gli strumenti! Non puoi neanche basarti sul metro di giudizio per eccellenza delle rockzine come Mimetics, ovvero il punk attitude, perché gran parte di queste band secernono autenticità punk da ogni orifizio, o al contrario fanno un garage pop dalla melodia surf facilona o dal groove sixties per cui sono troppo presi dalla loro attitudine medio-alto borghese per sputare sul pubblico. (ma questo non è ancora un reato sufficiente per beccarsi un 3 in pagella)

Eppure ci sono degli elementi oggettivi che fanno sì che alcuni album siano meglio di altri. Ma per trovarli non basta ascoltarsi tutto né basta andare ai concerti, piuttosto bisogna applicare una mentalità critica inflessibile.

Se sei un fogato perso di garage rock non posso non consigliarti di ascoltarti le band che ho elencato sopra, ma se devo fare un sforzo critico devo anche dirti che non sono tutte uguali. So bene che i Frowning Clouds sono molto amati, ma valgono la metà dei fratelli Ausmuteants, perché i Clouds non si sforzano nemmeno di fare qualcosa di diverso dal revival sixties. Ciò vuol dire che fanno cagare? No, ma incide inevitabilmente sul giudizio complessivo sul loro lavoro.

I Bass Drum of Death sono una presa in giro, poi magari sono ragazzi incredibili, probabilmente sono anche dei compagni di bevute incredibili, potremmo anche dividerci le scopate occasionali mentre ascoltiamo gli Stooges o i Blue Cheer, ma porcodio quel garage rock super-canonizzato, vittima di se stesso e involontariamente parodiato dei loro tre album è roba da grattugie sulle gengive. Sequenze riff ritornello da manuale, melodie canticchiabili sotto la doccia, gli stessi discorsi triti e ritriti, magari tutto costruito alla perfezione, ma è interessante?

Perché chi si pone criticamente di fronte a qualcosa deve anche porsi la domanda: è interessante? Perché non si può scrivere di tutto, mi verrebbe da dire, ma anche perché in fondo sono le cose interessanti che rendono la vita qualcosa di diverso dalla morte. Uno spettacolo teatrale anche se amatoriale e messo in scena con due lire può proporre un’idea interessante e fuori da coro. Lo stesso vale per un film, per un’opera d’arte e via dicendo. Non bisogna necessariamente uscire dai binari per fare qualcosa di valido, anzi chi di solito esagera nell’originalità nel 99% dei casi propone immondizia intellettualizzata (avete mai letto Genna?), è invece interessante chi restando sui binari propone una diversa prospettiva per guardarli.

I Nun sono una band post-punk certamente, ma giocano su una combinazione strumentazione-liriche che ha qualcosa da dire nel suo genere, i Monsieurs in tutte le loro emanazioni in mezzo a tutto il garage indolcito dalla virata melodica della Burger Records sono l’unica band che ha un’attitudine da paura, i Pink Street Boys giocano con le influenze kraut dei Thee Oh Sees e le mescolano ai suoni avanguardistici dell’Islanda elettronica con risultati sorprendenti, i Running propongono una musica largamente inascoltabile ma che se contestualizzata è meno banale di quanto possa sembrare, G.Gordon Gritty produce deliri senza senso, ma che se ascoltati senza pensieri e senza la necessità di intellettualizzare ci ricordano come il rock sia anche necessità di esprimere qualcosa e basta, così come viene. Perché scrivere del nuovo album di Ty Segall, che non aggiunge ormai più niente al panorama garage e rock in generale quando ci sono cose molto più interessanti, anche se meno immediate?

“Emotional Mugger” è l’ennesimo tentativo di Segall di legittimarsi culturalmente, un salto in lungo in realtà, cominciato con un album sorprendente come “Twins” (2012) per poi perdersi in una ricerca estetica glam che non gli compete tecnicamente. In realtà siamo di fronte ad un ibrido tra il suo misconosciuto “San Francisco Rock Compilation or Food or Weird Beer From Microsoft” (2010) e l’ultimo successone “Manipulator” (2015), del primo prende la pseudo-sperimentazione rumoristica, abbastanza inutile quando non fastidiosa poiché non aggiunge niente alla musica né a degli eventuali concetti che comunque non ci sono, del secondo prende la piacioneria, cioè la voglia di incantarti con un riff old school e un po’ di dramma glam rock alla Ty Rex, il risultato è un album piacevole da ascoltare un paio di volte per poi essere dimenticato in fondo a qualche scatolone di cartone.

Forse ha ragione Claudio Lancia dei bravi Sexy Cool Audio, quando scrive sulla sua recensione di “Emotional Mugger” su OndaRock che se Segall pubblicasse meno roba all’anno e facesse una cernita ogni tanto i suoi album ne gioverebbero, ma in tutta sincerità credo Il Biondo sia un tipo che se costretto pubblicare massimo un album ogni due anni lo farebbe da 175 canzoni l’uno. Perché Segall ama la sua musica, o ama se stesso, o ama il suo cazzo, non lo so, però so che farebbe così, non butterebbe via niente. Cristo, ha fatto uscire persino i “bozzetti” acustici per “Twins” (“Gemini”, 2012) e quella merda fumante di “San Francisco Rock Compilation or Food or Weird Beer From Microsoft”. Però adesso basta.

Sinceramente Ty Segall mi ha rotto il cazzo. Però “Slaughterhouse” resta un bell’album.

(Sì: sono tornato.)

Sbucciando una banana francese: il meglio e il peggio della Howlin’ Banana Records

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In questi giorni non ho scritto niente non perché non abbia ascoltato niente di nuovo, ma perché c’ho i cazzi miei. E sono tanti. Potete cliccare QUI per un racconto esaustivo.

Di che si parla oggi? E che c’entrano le banane? Ladies and gentlemen, oggi recensirò per vostra somma gioia qualche band dal catalogo della Howlin’ Banana Records! Come dite? “Echecazzoè”? La Howlin’ Banana Records è un’etichetta francese di garage rock-pop fondata a Parigi nel 2011 da Tom Piction, il solito giovanotto di belle speranze, un appassionato di indie rock e garage il quale, molto probabilmente, ha pensato bene che il modo più rapido per raccattare figa bollente fosse quello di fondare un’etichetta garage, genere celebre per le sue band grasse, unte e brufolose. Sarà riuscito il buon Piction a bagnare la sua baguette in del caldo burro francese? Ma sopratutto: sarà riuscito a selezionare band garage CAZZUTE, pronte a farci saltare i timpani?

Premetto subito che dopo un’ascolto completo di tutto il catalogo (sorseggiando del buon vino francese, che c’ho la pressione alta e la birra deve stà in frigo) la prima cosa che salta fuori è che, nel contesto scena europea, il garage francese è il più posato e aristocratico di tutti. Non che sia un male, cari miei seguaci, so che per molti di voi non è garage se non ci lasci le unghie sulle corde del basso, ma c’è anche il garage-folk, il garage-pop dalla California, il garage-psych di stampo barrettiano o alla Brian Jonestown Massacre, non facciamo trincee, lasciate scorrere l’amore tra i confini e i generi, lasciate che i feedback si perdano nell’abisso siderale dello spazio cosmico, seducendo e inseminando frammenti acustici, perdendosi nelle costellazioni liquide dello shoegaze, lasciandosi… oh merda, qualcuno mi tolga questa bottiglia dalle mani!

[Non ho recensito tutto il catalogo ma bensì la sbobba che ho ascoltato di più in queste tumultuose settimane, ogni album è descritto come sempre con la massima incuria e approssimazione, come piace a voi. Ma sopratutto come piace a me.]

Anna – Anna (2014)

Chi è Anna? Un tipo con problemi di collocamento sessuale? Una band? Una suora con un passato da ballerina nei night club? (cit.) Non lo so, però questo album omonimo alla fin fine non è malaccio.

I’m Note Yelling apre le danze in maniera asettica, assente e poco interessante, come se si preannunciasse il solito pappone psych senza direzione, ma è solo un minuto di incertezza, perché il garage-folk di I Love Noise mette in primo piano un piacevole songwriting barrettiano, che ci accompagnerà per quasi tutto “Anna”.

Haircut ha dei rimandi californiani decisamente influenzati dal Segall acustico del 2013, Old Man, con la voce bambinesca modificata digitalmente, è voglia di sixties pura riuscendo a recuperarne la freschezza floreale, con un dialogo di chitarre acustiche frenetico quasi-alla Violent Femmes.

Il gusto naïf francese si può percepire in pezzi come Eaten Apple, che anche nella lingua di Céline sarebbe suonato perfettamente. Ecco, forse un po’ troppo, nel senso che la perfezione formale di questo album è un pregio come un difetto, laddove riff e sezione ritmica non sbagliano un colpo ogni tanto nelle budella dell’ascoltatore raffinato si ode un gorgoglio, che non è badate bene la pizza coi fagioli all’uccelletto di due giorni prima, ingurgitata affannosamente con l’ausilio di tanta birra per facilitarne la discesa, ma la necessità di una sferzata, di un nuovo punto di vista, di una evoluzione nella struttura dei pezzi.

Una canzone come Dino nelle mani di un complesso garage del tutto schizzato come i Pink Streets Boys avrebbe raggiunto vette cosmiche di distorsione spaziale orgasmiche, qui invece è puro songwriting, e pure lineare. Ovviamente non si può imputare come errore o sbaglio una scelta di stile (pensavate di avermi colto in fallo, eh?) ma a detta del sottoscritto dopo un po’ la quadratura del cerchio comincia a diventare un po’ troppo spigolosa.

Un album semplice, che si districa in un garage fortemente derivativo da quello californiano, ma che non è per questo revival puro, ma più un ibrido, sostenuto da una ricerca melodica che ne è il motore portante, e che per il sottoscritto non è sinonimo necessariamente di qualità.

Il 23 di questo mese esce il nuovo lavoro di Anna, dall’ascolto di due pezzi in anteprima disponibili su Bandcamp sembra che il cantante/gruppo francese abbia decisamente cambiando sound, trovando un maggiore dinamismo. Vi terrò aggiornati.

The Madcaps – The Madcaps (2015)

Qualcosa mi fa pensare che Syd Barrett, come ripetevo come un cretino in loop cinque anni fa agli amici, e come da tre-quattro anni ripeto su questo blog nei margini del web, sia un’influenza imprescindibile del nuovo garage rock, artista ancora oggi troppo sottovalutato, che con tre album, il primo dei Pink Floyd e i suoi due solisti successivi, ha scolpito sulla pietra il sacro verbo psych come nessuno prima e dopo di lui. Più immediato degli sperimentatori Silver Apples, Red Crayola, Fifty Foot Hose, con un talento innato nel creare melodie complesse ma appetibili (altro che Lennon&McCartney! ecco: l’ho detto, adesso posso chiudere il blog), e dal quale ancora oggi è possibile trarre nuove idee.

Eccoci dunque all’esordio dei Madcaps dopo l’Ep anch’esso omonimo (eeeeeh la creatività!), molto garage più che psych, con il grande difetto dell’essere un revival praticamente puro, senza troppe idee, ma con un songwriting che ancora una volta dopo Anna continua a colpire là dove il nostro cuore batteva prima che scoprissimo le gioie di un rock più impegnato (ma non per questo cervellotico).

Un album nostalgico, la bella Emily Vandelay si presenta con la sua ritmica sixties, la chitarra alla The Nazz, e con forse la stessa capacità della band di Philadelphia di azzeccare prima di tutto il sound e lasciando in secondo piano la musica.

I nomi dei pezzi sanno di ricordi (Haunted House, Melody Maker, 8000 Miles From Home) ma una volta che metti play, con gli occhi umidi e le dita unte, quello che esce fuori dalle casse non sono gli stessi ricordi, sono tutt’altra cosa, e sono anche parecchio noiosi.

Baston – Gesture (2015)

Questo Ep del trio francese sembra un classico album da Burger Records, garage edulcorato dal pop, con forti tensioni psych che stanno lì solo per bellezza.

Anche perché, dopo il tiro magnifico di Maybe I’m Dead, questo Ep non sa di un cazzo. Melodie banali, suoni banali, testi banali (ma di solito non ci faccio caso), cover, quella di Little Honda dei Beach Boys, che è persino più brutta dell’originale, e non era così facile come sembra!

Mi pare strano che la Burger Records, ormai contenitore di quasi tutto il buono della scena garage assieme a tutta la merda che però fa numero (e da la possibilità a questa etichetta di galleggiare), non si sia accaparrata i diritti per il prossimo album di questa band, il classico esempio di come in una scena musicale il 90% della produzione sia musica derivativa e buona solo per riempire lo spazio tra una band e l’altra ad un festival.

Volage – Heart Healing (2014)

Ok, non mi fanno impazzire, però una cosa gli va detta: sanno come si fa un album rock! Un sound decisamente riconoscibile e un certo affiatamento sono le skill di questo “Heart Healing”.

Tra il giocoso, il garage, il weird pop e un songwriting piacevole, senza però scadere nella linearità e nella ripetizione.

Piccola parentesi sul fatto che oggi ho usato la parola songwriting tipo cento volte in tre righe di post: è tutta colpa di Giovanni, un mio collega dell’Università, il mio linguaggio è stato malamente influenzato dalla sua presenza da indie rocker che ascolta gli Arctic Monkeys. Per lui il rock È il songwriting, e non sono in pochi a pensarla così, e se siete di questa parrocchia (a mio avviso perversa e immorale) forse potreste trovare delle cose interessanti in questi Volage.

Il ritmo camaleontico si dipana ad ogni pezzo cercando di confonderci, e mostrando i  muscoli della band. Il piglio punk di Touched By Grace, si trasforma in ballad psych e poi in garage rock in poco più di due minuti, ma senza dimenticarsi la voce e la melodia.

Abbiamo anche una perla mica da poco con i sette minuti e mezzo di Loner, dove l’insegnamento degli ormai sacri/intoccabili Thee Oh Sees arriva anche nella burrosa Francia. Ma invece del profumo di croissant caldi Loner puzza di Fuzz. La chitarra del complesso californiano di Charles Moothart esplode per poi essere addomesticata e spezzata, col cazzo che cascano nel tranello di fare un calderone di cazzate incomprensibili come i Jefferitti’s Nile, i Volage riescono a ricalcare i tòpos della psichedelia senza fare revival ma buttandoci dentro palle e idee. Sicuramente non c’è da urlare al miracolo, non sono riusciti a piegare il genere a loro immagine e somiglianza (come hanno fatto con il garage psichedelico i Pink Street Boys e col new-post-punk i Nun), ma riescono ad esprimersi con l’esperienza di una band scafata da migliaia di festival.

E vogliamo farci scappare il momento Barrett? Ma stavolta dura poco, giusto i primi accordi di 6H15, per poi cambiare, mutare, evolversi senza soluzione di forma. Un po’ come gli australiani Total Control, ma se i TC sono una specie di killer-mix di Ausmuteants e Ultravox, invece i francesini mescolano tutte le influenze della scena garage senza fermarsi un attimo, senza neanche l’ombra di un po’ di auto-referenzialità.

(M’è venuto un coccolone con l’attacco indie-brit pop di Love Is All, echecazzo, eravate andati così bene e poi all’ultimo mi fate ‘sti scherzetti del menga? Dai cazzo: sembrate i Jet di “Shine On”!)

(Ah, sì, caruccio anche il 10’’ uscito due anni fa, più punk e cattivo, magari un giorno lo recensisco.)

Qúetzal Snåkes – Lovely Sort of Death (2014)

Gran bel pezzo di Ep questo dei Qúetzal Snåkes, una delle band che mi convincono di più dell’intero catalogo dell’etichetta parigina, un rock con forti influenze space e shoegaze, le chitarre si districano tra richiami nineties all’hard rock, e dal vivo devono essere deflagranti.

Assieme ai Volage sono anche quelli che dimostrano una forte personalità, per la quale puoi parlare di influenze sixties ma non di revival. Come genere non sono di certo nelle mie corde, anzi: fanno poco casino e sono troppo bravi con i loro strumenti, ma mi ha colpito il sound e la qualità delle composizioni.

Personalmente ho ascoltato due volte questo Ep, e non credo che lo riascolterò mai più, ma penso che questa band meritasse qualcosa in più che una semplice citazione, se vi piace un garage non per forza urlato e con un certa ricercatezza nel suono questo è un ensemble che può fare per voi.


Ci sarebbero altre chicche da scoprire, come il surf rock dei Los Dos Hermanos, il punk pop dei Kaviar che nell’album sembra una roba alla Audacity ma che dal vivo spaccano, il garage pop leggero pseudo-Burger dei Travel Check, i frenetici Mountain Bike dal Belgio, ma forse ne parleremo un’altra volta. Se avete tempo (quella dimensione che a me manca più di quanto a Battiato manchi il suo centro di gravità permanente) e vi sono piaciute le band che vi ho proposto dateci un’ascoltata, chissà che non scatti la scintilla.

Cristo, che chiusa del cazzo.

Bass Drum of Death – Rip This

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John Barrett e i suoi Bass Drum of Death hanno sinceramente rotto il cazzo.

E va bene uno, e va bene due, ma TREcristosanto-d’album la cui unica sostanza sono dei riffoni belli duri e una retorica garage svilita da un ridicolo compiacimento melodico, sono troppi per chiunque!

Cominciamo dai candidi ricordi. I primi due album dei BDoD li comprai in blocco, avevo ascoltato di sfuggita qualche pezzo in streaming e ne rimasi affascinato, ne volevo ancora, ne volevo di più! Al primo ascolto mi sembrarono una via di mezzo tra Ty Segall e Jack White, un po’ di rumore ben mischiato a dell’easy-listening.

GB City” (2011) aveva una abrasività lo fi che all’inizio me lo rizzò fino al cielo, ma dopo due o tre ascolti mi resi conto che erano DUE idee riciclate all’infinito. Proprio come gli Hot Lunch, band garage dalla Pennsylvania (da non confondersi con l’omonima formazione hard rock da San Francisco), i BDoD nel loro primo album vogliono risultare “autentici” solo grazie all’ausilio di un suono registrato col culo, il che equivale alla pretesa di fare arte rinascimentale disegnando col gesso madonne sui marciapiedi.

Nel 2013 esce “Bass Drum Of Death”, il rilancio su grande scala della band, e io ci sono cascato come un cretino. Attizzato dal riff acchiappabischeri di White Fright acquisto questo 33 giri assieme al precedente, vincendo di fatto il premio come imbecille dell’anno (fra l’altro questo esimio riconoscimento mi è stato riconfermato l’anno scorso con l’acquisto dell’ultimo dei Pink Floyd).

I Bass Drum of Dead proprio come i FIDLAR sono tra le band di punta della West Coast, o almeno sono tra le più famose, e non è di certo un caso. Riprendono i suoni degli Oblivians e dei garagisti anni ottanta, ma li legano a nenie adolescenziali borghesi, infarcendoli di riff piacevoli e melodie cantabili sotto la doccia, uccidendo di fatto il garage rock ma rendendolo appetibile a tutti quegli sfigati che fino a ieri ascoltavano i Foo Fighters.

Proprio come migliaia di formazioni ormai “leggende intoccabili” solo per aver azzeccato un paio di cazzo di riff (come gli australiani Sunnyboys) queste due band continuano a sfornare banalità su banalità, però con la chitarra elettrica (e allora va bene a tutti).

Quest’ultimo lavoro dei BDoD, “Rip This”, non è di meno.

Prima considerazione: il titolo. All’inizio pensavo fosse una reminiscenza di quel “Steal This Album!” dei SOAD, e che magari lo potevi scaricare gratis in ottimi formati (FLAC, ALAC) direttamente dal loro sito. Beh, no.

Seconda considerazione: i nomi dei pezzi. Electric, Left for Dead, Lose My Mind, Route 69 (Yeah), ma che cazzo è? Sembra una parodia di un album garage psych mescolato a citazioni videoludiche da due soldi! A quando Garage Effect, Psychoshock e The Mystic Scrolls?

Terza considerazione: ohmiodiolamusicaèlamerda. Ci saranno sì e no tre o quattro pezzi peggiori di For Blood usciti nel 2014. Signori e signore, i BDoD sono ufficialmente i Green Day del garage rock.

Dal vivo sono già meglio, ma sarà anche perché facendo solo riff su riff non c’è nemmeno un tasso di difficoltà minimo, basta non salire sul palco completamente ubriachi. E con i loro bei faccini la vedo difficile.

Insulsi, noiosi, ripetitivi.

Pink Street Boys – Trash from the Boys

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Loudest band in Iceland
(dal profilo Facebook della band)

We are garage rock. We are not trying to be garage rock, but we come to this scene because we are loud and obscene and we are not hardcore.
(Axel Björnsson, membro dei Pink Street Boys)

Ho sempre pensato che un’isola che venne scoperta da un tale Naddoddr non potesse che produrre metal a fiotti (lo stesso “Naddoddr” è un nome praticamente perfetto per qualunque band metal), ed invece nella sperduta Islanda, precisamente nella fredda Reykjavik, è nata la Lady Boy Records, una delle etichette più interessanti e intraprendenti di tutto il panorama europeo.

Con un catalogo ancora limitatissimo, dove si trova tanta avanguardia e curiose creature, c’è pure spazio per una stranissima band garage, forse la più atipica che abbiate mai sentito girare sul vostro piatto, i Pink Street Boys.

Ho smesso da tempo di fare le recensioni pezzo per pezzo, anche perché perlopiù inutili, ma in questo caso vale la pena di spenderci del tempo.

Già dalla prima traccia questo “Trash from the Boys” colpisce per la sua incompatibilità con tutta la scena garage psych contemporanea. Che cacchio sarebbe Up in Air? Sembra un sogno ad occhi aperti di White Fence, finalmente non apatico ma felice di questa vita tra Syd Barrett e album (i suoi) mediocri. Si percepisce dalla spigolosità degli interventi chitarristici la derivazione psichedelica, mentre la melodia sembra rubata ad un film Disney mai uscito perché troppo lisergico per dei bambini.

Il garage vero e proprio arriva subito con il secondo pezzo: Sleazus, con un pizzico di hardcore e la costante sensazione che qualcosa non quadri. È come se una band scesa da Marte si fosse appassionata di Shadows, Thee Oh Sees e Soft Boys, decidendo di tradurli nel loro linguaggio musicale.

La stessa cosa vale per Drullusama, Body Language e Warrior, la band riscrive a suo modo i canoni estetici del 90% delle band garage a giro in questo momento, ribaltando l’esigenza pop della Burger Records attraverso una commistione di sperimentazione e… boh, “spirito islandese”? In fondo Body Language potrebbe essere un pezzo di Ty Segall e Mikal Cronin, ma la volgarità del suono e dell’esecuzione manca effettivamente ai due californiani, più legati alla tradizione e quindi più prevedibili.

Persino Warrior sembra uscita fuori da “Floating Coffin”, l’ultimo album della madonna dei Thee Oh Sees, ma è come lo avrebbero suonato una cover band dei Residents!

Get Away è un altro tributo ai Thee Oh Sees, stavolta più fedele e legato all’acustico “Castlemania”.

In Psilocybe Semilanceata si percepisce il vento freddo fuori dalla sala di registrazione, mentre l’alcol scorre lento nelle vene, e una musica calda e acida inebria i nostri sensi, in una lenta spirale certamente disorientante ma dolcemente piacevole.

Kick the Trash Out è un minuto e mezzo di garage abrasivo, dove l’estetica dei Thee Oh Sees viene piegata a piacere della band.

L’attacco di Kassastarfsmaður probabilmente farebbe piangere d’invidia il buon Dwyer, cazzo è proprio quello che ci aspettavamo da “Drop” dei Thee Oh Sees, un passo avanti verso la psichedelia e un suono più disorientante, meno attenzione al pubblico e più al rumore, al fastidio.

Ecco, i cinque minuti di Korg Madness (il titolo è pienamente rispettato, fidatevi) valgono l’acquisto di questo “Trash from the Boys”. Non c’è un tentativo né di autocompiacimento né di compiacere il pubblico ormai frastornato, i Pink Street Boys si lasciano trascinare dalla marea travolgente del suono, ripetitivo, artificiale, come dei Kraftwerk sotto anfetamine. È circolare come Blow Daddy-o dei Pere Ubu, ma invece che inquietare aliena, ma è un’alienazione dolce, che sa di bourbon e neve.

La chiusura dell’album con Fautar non aggiunge molto al resto e suona come un riempitivo non ben nascosto.

Il quadro che ne esce fuori è piuttosto omogeneo, se non consideriamo l’apertura e la chiusura dell’album. Un garage sicuramente potente e ignorante, come vuole la tradizione, ma con una tocco particolare, unico, a tratti tremendamente glaciale, in altri quasi sperimentale.

Un album veramente curioso, ci ho trovato cose tremendamente banali e alcune stupefacenti, alla fine della giostra ascoltarlo mi diverte, è come un giocattolino rotto a cui ti sei affezionato senza un preciso motivo.

Per lasciarvi anche a voi col sorriso vi consiglio di leggere questa intervista ad uno dei membri della band, per il resto vi lascio con il lettore bandcamp qua sotto con tutto l’album e una stupefacente live con tanti pezzi ancora inediti.

Psychomagic, The Molochs, Jefferitti’s Nile, Santoros

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L’operazione “rizzatil’uccello con la Lolipop Records” è iniziata! Se la Burger Records ha cominciato (e non da poco) a interessarsi a qualunque cosa si muova e suoni una chitarra, fregandosene della qualità (il più delle volte), la Lolipop è fedele al sacro vincolo dell’autenticità, quella forza latente nel rock che puoi esprimere solo urlando (o sussurrando) ad un microfono chi sei. Il loro catalogo da interessante è diventato il mio preferito in assoluto dopo pochi mesi di estenuante recupero, mica zucchine gente: questi due ragazzi californiani hanno tirato sù un’etichetta con i cojones belli grossi e bitorzoluti.

Dopo parecchi ascolti avrei dovuto scrivere parecchie recensioni, ma l’alcolismo e la pigrizia hanno preso nuovamente il sopravvento. Sembra che rum e studio non vadano d’accordo. Strano. Comunque sia, giusto perché è un imperativo categorico, ho fatto un enorme sforzo scrivendo brevissime recensioni di alcuni album che ho ascoltato di recente.

Alcuni sono carini, uno merdoso, un altro quasi un capolavoro, ma tutto sotto la illuminante guida della Lolipop, ultimo baluardo contro un garage rock sempre meno rock e sempre più moda.

Psychomagic – Psychomagic (2013)a3808446709_2

Se ieri sera fosse stati dalle parti di Los Angeles avreste potuto assistere ad uno show con The Memories, Joel Jerome, Wyatt Blair (progetto solista del batterista dei Mr.Elevator & The Brain Hotel) e Billy Changer (bassista nei Corners). Forse tra tutte queste realtà ormai consolidate della nuova scena garage vi sareste stupiti ad esaltarvi per gli sconosciuti Psychomagic dall’Oregon, protagonisti da qualche anno della scena psych garage.

Se non fosse per la Lolipop Records come avremmo fatto a scoprirli? I 43 scarni secondi di I Don’t Wanna Hold Your Hand sono troppo poco idioti per la Gnar Tapes, e troppo poco rock pop per la Burger. Le influenze pop di Mutated Love non devono spaventare, la linea psych è sostenuta dalle varie I’m Freak (ecco, questa quasi coerente con i prodotti della Gnar), I Wanna Be That Man, Hearthbroken Teenage Zombie Killer, ma le influenze che compongono questo album omonimo sono delle volte troppe.

C’è qualcosa di Late Of The Pier in I Just Wanna Go Home With You, ci troviamo addirittura il peggio di Elton John (sempre che ci sia un meglio) in Bottom Of The Sea!

Che razza di animale sia questo Psychomagic non ci è dato saperlo, un misto amarissimo di psych pop garage che delle volte esalta e altre tramortisce, senza però convincere del tutto.

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The Molochs – Forgetter Blues (2013)

Ma allora qualcuno che ha sposato la linea blues garage c’è! Certo, non è quella hard dei White Stripes, stavolta siamo su lidi molto intimisti, pregni di una poesia e di una potenza sconvolgenti.

Stiamo parlando probabilmente di una delle migliori band di tutta la scena contemporanea, motivo per cui non la troverete in cartellone con i big del momento, dato che se strafottono di aderire al sound patinato che sta facendo sbancare troppe band mediocri (Bass Drum Of Death, FIDLAR, Audacity), i The Molochs si rifanno ad un concetto di autenticità nella chitarra acustica che passa direttamente dal Greenwich Village fino ai Violent Femmes, così dolcemente disillusi, così dannatamente reali.

Il genio di Lucas Fitzsimons nel comporre musica perfetta per le sue ottime liriche è comprabile a quello di Warren Thomas, forse gli unici due cantori dei nostri giorni, alla faccia di certa merda che ci propinano le riviste passando fenomeni da baraccone come cantautori.

Il ritmo ineluttabile di una Oh, Man era davvero tempo che non lo ascoltavo, quanta amarezza in Drink the Dirt Like Wine, così minimale ed espressiva, lontanissima dalla freddezza e dall’isolamento di “Same Old News” di Tracy Bryan (Corners), non c’è un tentativo di descrizione né di allontanamento dal fruitore (come nella musica di Bryant), parole e musica seguono la melodia della necessità.

Stupenda, anzi: immensa cover di Syd Barrett, Wined & Dined, padrino della scena contemporanea come spesso ripeto e sottolineo, fino allo sfinimento.

Se vi volete bene (o se vi volete male ma non sapete esprimerlo) dovete comprare questo “Forgetter Blues”.

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Jefferitti’s Nile – The Electric Hour (2014)a2604003945_10

Non si fa che parlare di questo album da parecchi mesi, così alla fine ho dovuto acquistarlo! La potenza devastante e il wall of sound sono notevoli già di per sé, ma sono le miriadi di influenze sixties che compongono questo schizofrenico mosaico le protagoniste, spesso nella singola canzone ne puoi contare quattro o cinque.

Senza dubbio spaventerete non poco i vostri vicini mettendo a tutto volume Midnight Siren, tra Hawkwind, Ty Segall, Blue Cheer e la velata ma percepibile presenza dell’indie dei Late Of The Pier.

Detto questo dopo aver ascoltato a riascoltato “The Electric Hour” mi sono tremendamente annoiato. Va bene saturare lo spazio, va bene buttarci dentro grandi band come i Blue Cheer e gli Hawkwind, va bene passare da un genere all’altro senza troppi complimenti, però non c’è sostanza!

Insomma, prendete una band qualsiasi della Captcha Records che faccia psych e capirete che voglio dire. Qui la psichedelia è una scusa per mostrare un po’ di virtuosismo, tante paillette colorate e luci stroboscopiche, ma è tutta forma. Che cazzo di senso avrebbe quel gran casino di Stay On? Quale ricerca, quale concetto si cela dietro? Certo, direte voi, non è che per forza bisogna dare un senso profondo a tutto quello che si fa, sono d’accordo, solo che la musica dei Jefferitti’s Nile è pretenziosa, tracotante, barocca, senza motivo di esserlo!

Se fai due accordi e parli di quanto vorresti farti una canna mi sta bene, ma se devi fare terra bruciata del mio spazio vitale sonoro per infilarci tutto quello che ti passa per la tua mente bacata allora posso pretendere un minimo di senso, o no?

Ma poi quelle virate alla Coldplay in Upside? Non ve ne siete accorti? Davvero?

Mah, un album semplicemente ridicolo.

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a1462399879_10Santoros – Animals [EP] (2014) 

Ecco una band con le palle, pochi fronzoli e tante cazzate. Non lo nascondo: provo una profonda e poco dichiarata attrazione sessuale per i volti sudaticci dei Santoros, il loro psych garage sgraziato mi fa frizzare il ravanello. E poi sono messicani. Non lo so, mi sembra tutto troppo bello per essere vero!

Il lamento insopportabile di Jossef Virgen all’inizio di I Didn’t Know è di una bellezza estetica inarrivabile, le incursioni della chitarra di Adolfo Canales sono pura libidine.

L’attacco di Diego Pietro alla tastiera in Rabbits farebbe scendere una lacrima di pura gioia a Ray Manzarek. La sua successiva discesa negli inferi psych garage invece fa piangere d’invidia gli amici Mr.Elevator & The Brain Hotel, chissà come si è torturato le dita Thomas Dolas ascoltando questa Rabbits, un brano che dal vivo si presta al delirio totale, ma che trova la sua definizione nel sound unico e brillante dei Santoros.

Regà: so’ quattro dollari su Bandcamp. Quattro dollari, porcodemonio, quattro, manco lo so quanto viene in euro, meno di qualunque merda ingurgitiate durante la giornata, quindi poche scuse e comprate questo EP.

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Ty Segall – Manipulator

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Sul nuovo album di Segall avevo delle aspettative, forse anche troppo alte, non lo so, però non è “Manipulator” l’album che mi aspettavo.

Con “Slaughterhouse” (2012) aveva raggiunto la saturazione senza stonare, il feedback straziante di Death che apre le danze del suo album più rabbioso è il raggiungimento di tutto il suo percorso come garagista, mentre in “Twins” (2012, sei mesi dopo Slaughter.) aveva raggiunto il suo massimo come compositore, raffinando il sound e le melodie, mantenendo fede alla sua rabbia borghese ma cospargendola qua e là di ballad, sperimentazione e melodie pop rock assolutamente non banali. È stato non solo il suo anno di grazia il 2012, ma anche un punto di non ritorno dal quale poteva solo evolversi, altrimenti qualunque altra sua produzione avrebbe suonato come un passo indietro.

Dopo l’esperienza con i Fuzz e l’album acustico-riflessivo esce il suo primo doppio LP, in cui Segall fa i conti con le sue pulsioni glam rese evidenti in “Ty Rex” del 2011. Sembrava solo una fuga momentanea dallo psych garage più spinto quel “Ty Rex” seguito l’anno scorso dal brevissimo “Ty Rex 2”, esperimenti minori nella già vastissima discografia di questo piccolo talento californiano, ed invece sono diventati la base portante di questa ultima fatica.

“Manipulator” è di gran lunga il peggior album di Segall, ideale seguito di “MCII” del suo fido Mikal Cronin, è la fine (im)perfetta per tutta la nuova ondata garage californiana.

Credo di essere il primo a declamare la parola “fine” per quella che è stata una stagione notevole, che ad oggi tutti (tutti) sotto stimano e stanno ben attenti ad elogiare sperticatamente. Tra questi mi ci metto anche io, che anche per i migliori album dei Thee Oh Sees ho sempre cercato di andarci coi piedi di piombo, ma forse le vere gemme di questo periodo sono da cercare nel sottosuolo (Harsh Toke, Zig Zags e il psych doom).

Fatto sta che le due punte di diamante hanno appena rilasciato i loro album più retorici e auto-celebrativi, i Thee Oh Sees ci hanno fatto rivoltare lo stomaco con “Drop” (anche se la colpa è tutta di Dwyer, dato che il resto della band è stato mandato a casa senza troppi complimenti), e adesso Ty Segall tradisce tutta la sua esperienza come rocker autentico cercando di vendersi al miglior offerente. Probabilmente come per Cronin essere un oggetto di culto non basta più.

E così la musica diventa tronfia, il suono avvolgente delle chitarre di “Slaughterhouse” qui serve a coprire la mancanza di idee, quasi un’ora di riff riciclati e banalità in ogni dove.

Se in “Twins” c’era coraggio qui c’è un imbonimento che già alla fine del lato A del primo dei due dischi sbadigli. Non che Tall Man, Skinny Lady o It’s Over siano pezzi da buttar via, a livello di composizione ci troviamo di fronte ad un album notevole (se confrontato ai precedenti) ma senza un cazzo da dire. Fino a The Faker non c’è una melodia che non sia già stata utilizzata da Segall un miliardo di volte, non c’è un cambio che ti faccia saltare dalla sedia, non c’è un acuto in mezzo ad un mare di grigiore glitterato.

A Green Belly se togliete gli inutili abbellimenti della post-produzione, che appiattisce tutto l’album, e lasciate la chitarra acustica solista diventa magicamente un pezzo dei The Beets. Meglio se vi comprate un loro album a questo punto, vi costa meno ed è quantomeno sincero e diretto, Green Belly riesce persino ad essere pretenziosa nella sua dichiarata banalità, non so cosa ci sia di peggio.

Ma è con il secondo disco e il pezzo d’apertura Connection Man che raggiungiamo il fondo. Un riempitivo “glamtizato” davvero imbarazzante. Ascoltare per credere, non so nemmeno come descrivervelo.

The Hand poteva anche essere piacevole fosse durata due minuti meno, Susie Thumb è un misto tra “Ty Rex” e “Reverse Shark Attack” (2009), ma se il garage punk di Reverse era acido questo invece soffre sempre di questa leggerezza glam che rende tutto bello e platinato, le pareti di camera tua si colorano di rosa e verde sparati mentre le paillette scendono dal soffitto, abominevole.

Scoppia la furia primordiale a suon di fuzz e feedback con The Crawler, ma è abbondantemente troppo tardi.

The Feels suona come una canzone scartata per “Goodbye Bread” (2011). Stick Around conclude per sempre questo straziante doppio album (forse il pezzo più ascoltabile di tutto il lotto, finché non si conclude con quegli archi da brivido), che segna la fine di Ty Segall come musicista con qualcosa da dire e da esprimere, e comincia la sua nuova carriera come musicista di talento pronto a riempire stadi e arene con musica vuota per gente vuota.

So che non metto più i voti, ma per questo album non risparmierei di certo un bel 3,5/10.

E ora qualche video per ricordarne i fasti:

Zig Zags – Zis Zags

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John Carpenter? Neil Marshall? Qualcuna di queste divinità può prendersi gli Zig Zags per musicarsi un bel film post-apocalittico? No perché questo trio californiano ha appena pubblicato il primo vero album rock monumentale del 2014, sarebbe anche il caso di sfruttarli finché freschi.

Che “Zig Zags” in potenza avesse le caratteristiche di un esordio con i fiocchi e contro-fiocchi lo si poteva immaginare, che l’arietta post-apocalittica carpenteriana fosse presente l’avevano già in parte anticipato, ma questo album è davvero una vampata di sano heavy metal come non se ne sentiva da troppo tempo.

La cosa più bella è che questo heavy metal è proprio ignorante, cattivo, solo riff della Madonna ed effetti tamarrissimi (però non buttati a caso come la batteria elettronica in Heartbeat di Jerry Riggs), i testi hanno la giusta dose di goliardia ed epicità senza mai sprofondare in una delle due.

Tranquilli, non sto urlando al capolavoro, non ancora almeno. Ma presto verrà, vedrete.

Che dire della nuova intro a Braindead Warrior? Praticamente il pezzo rock più potente degli ultimi cinque anni, un misto di immagini tra Mad Max e Fallout 2 esplodono nella mente, se girassero un nuovo “Heavy Metal” (vi ricordate il film metal-porno del 1981?) questo sarebbe il fottuto pezzo d’apertura, con tanti saluti a Sammy Hagar e compagnia cantante.

Il ritornello di The Fog sembra già un classico, non so come spiegarmelo. Torna a tratti anche l’anima punk della band sommersa dai pesantissimi Black Sabbath. Per Magic potremmo anche fare lo stesso discorso, se non fosse che il riff sembra davvero uscito da “Heavy Metal” (inoltre finalmente potrò cancellare dalla mia mente il diretto collegamento tra la parola “magic” e Magik dei Klaxons).

No Blade of Grass l’anno scorso chiudeva “10-12”, la raccolta in musicassetta dei demo della band. Registrata come Dio comanda fa ancora più male. Riscopriamo da “10-12” anche la garage punk Tuff Guy Hands e una bellissima Down the Drain, c’è Psychomania (irriconoscibile), I Am The Weekend e ovviamente Randy (il pezzo sulla loro “mascotte”). 

Siamo sempre ben al di sopra della sufficienza per tutto l’album, anche nell’intermezzo sperimentale (Untitled) che ci prepara ad un finale col botto, Voices of Paranoid, il capolavoro psych metal della band. 

Anche nella irrequieta California, dove si mescolano senza indugi doom e garage, il sound dei Zig Zags è unico. L’ha capito bene Ty Segall che ha co-prodotto questo esordio discografico, l’ha capito benissimo la In The Red Records, questi qui sono destinati a scrivere pagine indelebili del rock contemporaneo.

La tragicommedia di Kasabian e Black Keys

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È incredibile come si perseveri nel coltivare il cattivo gusto. Perché ad un certo punto l’oggettività perde di significato, l’onestà intellettuale sprofonda dietro tecnicismi (sia di scrittura da parte dei critici che musicali) e si arriva ad accettare tutto passivamente.

Gran parte del rock che viene prodotto su scala mondiale oggi trova dei fruitori appassionati praticamente ovunque, grazie a quel marchingegno luciferino di internet. INTERNET! Lo spauracchio dell’industria musicale! INTERNET! Il terrore che naviga su fibre ottiche! INTERNET! La gioia di poter trovare porno per tutte le stagioni e band per tutti i gusti!

Oggi più che mai il ruolo del critico è necessario, ma oggi più che mai il critico è inutile. Perché esiste questa contraddizione? 

La moltitudine di musica che si può ascoltare da YouTube e dai siti streaming spaventerebbe anche il più hungry degli  appassionati (o il più foolish, ma l’unione delle due cose non fa un CEO di fama mondiale semmai un eroinomane) e delle volte riuscire ad orientarsi di fronte a cotanta offerta non è facile. Allo stesso tempo se ti spunta sotto gli occhi il nome di una band che non avevi mai immaginato che potesse esistere, perché perdere tempo per capire se possa piacerti tramite il giudizio del critico di fiducia se puoi ascoltarli gratis subito?

Ma per quale cavolo di motivo il mestiere del critico è diventato “consigliere della corte regale di Tal dei Tali”? Quello lo faccio io, che ho un blog del cazzo e mi permetto anche di insultare penne di “spessore” come Zingales (ma perché sono un cojone, mentre lui è solo una notevole ciofeca), ma il critico vero, leggasi anche “quelli che scrivono su Blow Up”, non è solo un fido amico a cui chiedi un bel disco per sconquassarti le budella, è un tipo che ha studiato e si è fatto il culo per spiegarti che non sono solo rumori e suoni casuali quelli che escono dalle casse del tuo stereo (o dalle cuffie attaccate al tuo lettore mp3 del cazzo).

Ma che c’entrano Kasabian e Black Keys? Ma la controversia è proprio lì! Due band discrete che troneggiano nei social, su YouTube, e anche nelle riviste che dovrebbero essere l’ultimo baluardo contro la mediocrizzazione (newspeak in libertà) del giudizio. Io m’incazzo quando sono tutti d’accordo, c’è poco da fare.

Sui Black Keys ci spendo di quando in quando due parole, e se le spendo è perché la band mi piaceva e non poco. Ma quando mi sento dire che il salto che c’è tra un “Rubber Factory” (2004) e un “El Camino” (2011) è un evidente segno della maturazione della band io sbarello. Ma come cazzo si può dire che dalla rabbia e dal furore di Grown So Ugly o dal riff di 10 A.M. Automatic una band si evolve con la struttura che urla BANALITÀ da ogni decibel di Little Black Submarine, o quella nenia preconfezionata per MTV di Gold on the Ceiling? Una volta la critica rock bastonava queste stronzate, oggi le appoggia, perché oggi fruibilità è sinonimo di qualità. Puttanate.

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E i Kasabian? Mi dite per piacere quali sono i punti di contatto tra il primo album di Tom Meighan e Sergio Pizzorno e uno qualunque degli Oasis? Questo lo chiedo perché da anni ci fracassano i coglioni con questo paragone costante tra Oasis-Kasabian che sta in piedi giusto giusto per qualche pezzo di “Empire” (2006) e poi crolla ineluttabilmente. Sarà che tutti sanno che le due band si ammirano a vicenda e critici stanchi del proprio lavoro invece che ascoltare con cognizione di causa “Kasabian” (2004) hanno buttato lì due stronzate?

Ma ve lo ricordate “Kasabian”? Un album commerciale, certamente, ma dignitoso, con una ricerca nel sound interessante, naturalmente scontata e banale ma quantomeno personale. Reason Is Treason era un pezzo con i coglioni (ancora di più nella versione “nascosta” dopo U Boat), ma anche i suoni sporchi di Club Foot erano accattivanti. Un album quadrato, tutto d’un pezzo, con una estetica ben definita. 

Poi la rivoluzione, un “Empire” acido, a tratti addirittura acustico, con la sofferta progressione di The Doberman, che qualcuno dovrebbe spiegarmi perchè non vale mille volte la più banale e ridicola Little Black Submarine dei Keys. Ma anche la malinconica British Legion, molto Oasis negli intenti, risulta infine ben più intima di qualunque pezzo degli Oasis, molto più autentica perché meno elaborata. 

Oggi queste due band sono quanto di più lontano dall’interessante ci sia nel mondo musicale. È una tragicommedia quella di Kasabian e Black Keys, schiavi della propria immagine, profondi come una pozzanghera, merce di scambio nel flusso continuo di dati pirata.

Fever da “Turn Blue” (2014), ultima fatica dei Black Keys, è un prodotto che in una rivista seria di rock underground non verrebbe nemmeno nominato, i critici dicono che in questo album non ci sono le hit del precedente per scelta, ma non capiscono che è solamente il prodotto ad essere ancora più mediocre del precedente. Forse mi sto lasciando trasportare eccessivamente direte voi, può darsi, ma il rock psichedelico di Bullet In The Brain vale davvero di più degli Harsh Toke? Voi mi direte, giustamente, che sono band con intenti diversi, ma sempre di rock si parla, e la psichedelia con tanto di riferimenti agli anni ’70 ci sono, e allora perché Rumore non mette in prima pagina band dello stesso genere dei Keys ma con qualcosa da dire?

La cosa bella è che album come “Turn Blue” o “48:13” (2014) dei Kasabian, sono album che non dicono un bel niente, è la solita musica che non cerca qualcosa di più alto del solito riff, di una melodia d’effetto o anche di stupire tecnicamente il musicista in ascolto. 

Oggi più che mai riprendere gli anni ’70 per dire qualcos’altro è attuale, il Sun Ra ripreso da alcune band psichedeliche italiane si combina perfettamente con il mercato di Porta Palazzo (li nomino sempre ma non li recensisco mai, prometto che presto mi rimetterò in pari con La Piramide Di Sangue), il Syd Barrett dei Thee Oh Sees svela paranoie o annebbia i sensi di una società in crisi non solo economica, c’è la rabbia borghese di Ty Segall, il punk pop nevrotico di Jay Reatard così autentico, i riff post-apocalittici degli Zig Zags che riprendono le immagini di Carpenter e il Neil Marshall di Doomsday senza citarli direttamente, questo è grande rock, quello che dovrebbe sostare in quelle riviste e in quelle librerie di iTunes o playlist di YouTube di chi si dà un tono, di chi “ascolto rock”.

Il rock è un modo diverso di vedere le cose di tutti i giorni e riscoprile di nuovo, non la costante ricerca di una invenzione melodica, tecnica, linguistica o banalità del genere. 

L.A. Witch – L.A. Witch

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Poche ciance, comprate questo EP, se non lo trovate andate a Los Angeles e ascoltatevi questa band dal vivo, o trovate un altro modo per fargli avere i vostri soldi

Questo trio tutto al femminile è attivo dal 2012 e da allora ha sfornato solo demo e EP, spaccandosi la schiena tra locali e festival californiani, figlie in parte della darkgaze degli Has a Shadow (che adorano) mentre dall’altra si rifanno al garage drone imperante sulle coste californiane. 

Un pezzo come Get Lost annichilisce l’intera discografia di Ty Segall, You Love Nothing si scopa a pecorella l’ultimo dei Thee Oh Sees, Heart Of Darkness invece è un pezzo carino. Dannatamente carino.

Siamo ancora ai nastri di partenza, è vero, queste signorine devono ancora dimostrare tanto altro, ma per me le premesse sono ottime. 

  • Lo Consiglio: ti piace il garage, ti piace la drone, ti piacciono le spiagge californiane, i festival, le band scapestrate e via dicendo? Compra ‘sta roba.
  • Lo Sconsiglio: non so proprio a chi possa non piacere.
  • Link Utili: clicca QUI se vuoi ascoltare GRATIS l’EP su Bandcamp, clicca invece QUI per la loro pagina Facebook, mentre clicca QUI se vuoi iscriverti alla loro pagina YouTube.

And now qualche video:

Qui di seguito il video di Get Lost:

Una live sufficientemente allucinante:

Il riff vi ricorda qualcosa?