Il tempo è il critico più spietato: smonta, ridimensiona o sminuisce del tutto determinati artisti che, ai loro tempi, erano considerati dei grandi. La difficoltà maggiore, in un’opera d’arte non è tanto piacere ai propri contemporanei ma non sopperire alla spietata onta del tempo. D’altra parte ci sono dei monoliti così ben piantati al suolo da non smuoversi minimamente con l’incedere degli anni e, quando penso quali opere possono fregiarsi di tale capacità, sicuramente non posso non citare i Violent Femmes.
I Violent Femmes hanno commesso lo stesso magnifico errore di Orson Welles: hanno toccato il loro massimo vertice al primo colpo. Anche se il resto delle loro produzioni possiamo considerarlo buono il paragonare non regge tra il primo capolavoro con le seguenti opere.
Ciò che mi ha incuriosito, riguardo al disco del trio di Chicago è come è possibile che il loro garage acustico possa essere ancora fresco, come riesca ancora a parlare a tantissime persone nonostante le rivoluzioni musicali che ci sono state dal 1981, data del loro primo disco, fino ad oggi. Ciò che mi ha portato a trarre delle conclusioni sono due ragioni: 1) La genuina sincerità musicale, priva di fronzoli, di stereotipi, di virtuosismi inutili e 2) la capacità di riuscire a comunicare un disagio, uno stato, che è l’adolescenza.
Per capire meglio l’importanza dei Violent Femmes è giusto leggerne i testi. Le parole dipingono uno stato adolescenziale che tutt’oggi resta vivo. Il disco parla di giovani, ai giovani, senza volere essere giovani (cosa davvero difficile se si considera la monoliticità dell’impresa).
Ovviamente la meraviglia delle loro liriche si rafforza se pensiamo che questo disco parla di una generazione che viveva ancora nella guerra fredda, dove i cellulari ed internet non esistevano, dove la società non si era così tanto deformata dai meme e dai social network. Eppure i deliri da marijuana di Blister In The Sun sono gli stessi che potrebbe avere un ragazzo del 2015; le pene amorose di Confessions non sono poi così distanti da quelle che un adolescente oggi potrebbe provare; lo stesso vale per quel sentimento di spleen che ben descrive un disagio dovuto all’età, al luogo natio ed alla noia come viene cantato in To The Kill.
I Violent Femmes parlano e parleranno ad ogni generazione un linguaggio universale fatto di strumenti acustici, gioie, pene, sconfitte, vittorie, amori, tradimenti e frustrazioni che ogni adolescente vivrà fin tanto che il mondo non conoscerà il Fallout.
Se vuoi leggere altri deliri del buon vecchio bfmealli non hai che da cliccare qui: L’algebra del bisogno.
L’operazione “rizzatil’uccello con la Lolipop Records” è iniziata! Se la Burger Records ha cominciato (e non da poco) a interessarsi a qualunque cosa si muova e suoni una chitarra, fregandosene della qualità (il più delle volte), la Lolipop è fedele al sacro vincolo dell’autenticità, quella forza latente nel rock che puoi esprimere solo urlando (o sussurrando) ad un microfono chi sei. Il loro catalogo da interessante è diventato il mio preferito in assoluto dopo pochi mesi di estenuante recupero, mica zucchine gente: questi due ragazzi californiani hanno tirato sù un’etichetta con i cojones belli grossi e bitorzoluti.
Dopo parecchi ascolti avrei dovuto scrivere parecchie recensioni, ma l’alcolismo e la pigrizia hanno preso nuovamente il sopravvento. Sembra che rum e studio non vadano d’accordo. Strano. Comunque sia, giusto perché è un imperativo categorico, ho fatto un enorme sforzo scrivendo brevissime recensioni di alcuni album che ho ascoltato di recente.
Alcuni sono carini, uno merdoso, un altro quasi un capolavoro, ma tutto sotto la illuminante guida della Lolipop, ultimo baluardo contro un garage rock sempre meno rock e sempre più moda.
Psychomagic – Psychomagic (2013)
Se ieri sera fosse stati dalle parti di Los Angeles avreste potuto assistere ad uno show con The Memories, Joel Jerome, Wyatt Blair (progetto solista del batterista dei Mr.Elevator & The Brain Hotel) e Billy Changer (bassista nei Corners). Forse tra tutte queste realtà ormai consolidate della nuova scena garage vi sareste stupiti ad esaltarvi per gli sconosciuti Psychomagic dall’Oregon, protagonisti da qualche anno della scena psych garage.
Se non fosse per la Lolipop Records come avremmo fatto a scoprirli? I 43 scarni secondi di I Don’t Wanna Hold Your Handsono troppo poco idioti per la Gnar Tapes, e troppo poco rockpop per la Burger. Le influenze pop di Mutated Love non devono spaventare, la linea psych è sostenuta dalle varie I’m Freak (ecco, questa quasi coerente con i prodotti della Gnar), IWanna Be That Man, Hearthbroken Teenage Zombie Killer, ma le influenze che compongono questo album omonimo sono delle volte troppe.
C’è qualcosa di Late Of The Pier in I Just Wanna Go Home With You, ci troviamo addirittura il peggio di Elton John (sempre che ci sia un meglio) in Bottom Of The Sea!
Che razza di animale sia questo Psychomagic non ci è dato saperlo, un misto amarissimo di psych pop garage che delle volte esalta e altre tramortisce, senza però convincere del tutto.
Ma allora qualcuno che ha sposato la linea bluesgarage c’è! Certo, non è quella hard dei White Stripes, stavolta siamo su lidi molto intimisti, pregni di una poesia e di una potenza sconvolgenti.
Stiamo parlando probabilmente di una delle migliori band di tutta la scena contemporanea, motivo per cui non la troverete in cartellone con i big del momento, dato che se strafottono di aderire al sound patinato che sta facendo sbancare troppe band mediocri (Bass Drum Of Death, FIDLAR, Audacity), i The Molochs si rifanno ad un concetto di autenticità nella chitarra acustica che passa direttamente dal Greenwich Village fino ai Violent Femmes, così dolcemente disillusi, così dannatamente reali.
Il genio di Lucas Fitzsimons nel comporre musica perfetta per le sue ottime liriche è comprabile a quello di Warren Thomas, forse gli unici due cantori dei nostri giorni, alla faccia di certa merda che ci propinano le riviste passando fenomeni da baraccone come cantautori.
Il ritmo ineluttabile di unaOh, Manera davvero tempo che non lo ascoltavo, quanta amarezza in Drink the Dirt Like Wine, così minimale ed espressiva, lontanissima dalla freddezza e dall’isolamento di “Same Old News” di Tracy Bryan (Corners), non c’è un tentativo di descrizione né di allontanamento dal fruitore (come nella musica di Bryant), parole e musica seguono la melodia della necessità.
Stupenda, anzi: immensa cover di Syd Barrett, Wined & Dined, padrino della scena contemporanea come spesso ripeto e sottolineo, fino allo sfinimento.
Se vi volete bene (o se vi volete male ma non sapete esprimerlo) dovete comprare questo “Forgetter Blues”.
Non si fa che parlare di questo album da parecchi mesi, così alla fine ho dovuto acquistarlo! La potenza devastante e il wall of sound sono notevoli già di per sé, ma sono le miriadi di influenzesixties che compongono questo schizofrenico mosaico le protagoniste, spesso nella singola canzone ne puoi contare quattro o cinque.
Senza dubbio spaventerete non poco i vostri vicini mettendo a tutto volume Midnight Siren, tra Hawkwind, Ty Segall, Blue Cheer e la velata ma percepibile presenza dell’indie dei Late Of The Pier.
Detto questo dopo aver ascoltato a riascoltato “The Electric Hour” mi sono tremendamente annoiato. Va bene saturare lo spazio, va bene buttarci dentro grandi band come i Blue Cheer e gli Hawkwind, va bene passare da un genere all’altro senza troppi complimenti, però non c’è sostanza!
Insomma, prendete una band qualsiasi della Captcha Records che faccia psych e capirete che voglio dire. Qui la psichedelia è una scusa per mostrare un po’ di virtuosismo, tante paillette colorate e luci stroboscopiche, ma è tutta forma. Che cazzo di senso avrebbe quel gran casino di Stay On? Quale ricerca, quale concetto si cela dietro? Certo, direte voi, non è che per forza bisogna dare un senso profondo a tutto quello che si fa, sono d’accordo, solo che la musica dei Jefferitti’s Nile è pretenziosa, tracotante, barocca, senza motivo di esserlo!
Se fai due accordi e parli di quanto vorresti farti una canna mi sta bene, ma se devi fare terra bruciata del mio spazio vitale sonoro per infilarci tutto quello che ti passa per la tua mente bacata allora posso pretendere un minimo di senso, o no?
Ma poi quelle virate alla Coldplay in Upside? Non ve ne siete accorti? Davvero?
Ecco una band con le palle, pochi fronzoli e tante cazzate. Non lo nascondo: provo una profonda e poco dichiarata attrazione sessuale per i volti sudaticci dei Santoros, il loro psych garage sgraziato mi fa frizzare il ravanello. E poi sono messicani. Non lo so, mi sembra tutto troppo bello per essere vero!
Il lamento insopportabile di Jossef Virgen all’inizio diI Didn’t Knowè di una bellezza estetica inarrivabile, le incursioni della chitarra di Adolfo Canales sono pura libidine.
L’attacco di Diego Pietro alla tastiera in Rabbits farebbe scendere una lacrima di pura gioia a Ray Manzarek. La sua successiva discesa negli inferi psych garage invece fa piangere d’invidia gli amici Mr.Elevator & The Brain Hotel, chissà come si è torturato le dita Thomas Dolas ascoltando questa Rabbits, un brano che dal vivo si presta al delirio totale, ma che trova la sua definizione nel sound unico e brillante dei Santoros.
Regà: so’ quattro dollari su Bandcamp. Quattro dollari, porcodemonio, quattro, manco lo so quanto viene in euro, meno di qualunque merda ingurgitiate durante la giornata, quindi poche scuse e comprate questo EP.
La Captcha Records è un’etichetta davvero interessante, dopo averci regalato i messicani Has a Shadow con quel capolavoro di “Sky is Hell Back” passiamo ad una band certamente meno interessante ma non per questo banale.
I Dreamsalon sono una novità nel panorama garage psych, ma di quelle buone. Vengono considerati una specie di Violent Femmes in salsa psichedelica, il che ci pone delle premesse niente male (oltre che a della aspettative pericolosamente alte).
Qualche EP nel 2012 e tanta gavetta, poi nel 2013 esce “Thirteen Nights”, la prova che Seattle non è più un luogo isolato ma fa parte di una rivoluzione sixteen che imperversa in tutti gli States.. Una volta le scene musicali erano legate ad uno stato o addirittura ad una città (perché anche l’hardcore ha vissuto più stagioni legate a diverse città), adesso con internet le distanze si sono accorciate, le idee scorrono più velocemente, e il sound californiano imperversa anche in Canada (Pack A.D.) come in Messico (i già citati Has a Shadow), e quindi anche la grunge Seattle (alla quale ormai va giustamente stretto il grunge) diventa una assolata costa californiana, dove si suona surf rock tra bikini e birra ghiacciata.
Probabilmente “Thirteen Nights” è uno dei prodotti meno banali recentemente usciti, lo ancora di più è se messo in confronto a band più fortunate come gli Audacity o quel fumo di paglia di Jacco Gardner.
Il garage psych dei Dreamsalon spazia tra chitarre che ricordano Dick Dale e le sfuriate di feedback alla Ty Segall, le cavalcate sul basso di Min Yee sono infernali e ammalianti, Matthew Ford calpesta la batteria per poi accudirla esaltandosi in dei passaggi jazz-rock, Craig Chamber a quella chitarra gli fa fare di tutto, la pizzica, la fa urlare, la fa ronzare, la distorce devastandone il suono per poi fare il verso a Syd Barrett (l’unico e incontestabile padrino del rock contemporaneo). Credo sia sempre Chamber a cantare, ma non ho trovato molte informazioni su questa band quindi la butto lì.
Ci sono pezzi davvero notevoli, il giro di basso ipnotico di On The Bus che sfocia in un rabbioso garage punk, il suono avvolgente di Lick o il delizioso riff di Get To Work uscito fuori da un “Nuggets” perduto. C’è pure spazio per la sperimentazione con Every Man, Woman, And Child, punta di diamante dell’album.
Boh, non che altro dirvi, quantomeno ascoltatelo su Bandcamp, questa amici miei è roba che scotta.
Un esordio notevole, un sound già riconoscibile ed un pezzo come Every Man, Woman, And Child che può solo portare lustro alla Captcha Records.